Italia e cittadinanza: la realtà oltre ai dati - Nigrizia
Migrazioni Pace e Diritti
213mila i nuovi cittadini italiani nel 2022, con una crescita del 76% rispetto al 2021
Italia e cittadinanza: la realtà oltre ai dati
L'Italia in vetta per cittadinanze rilasciate in Europa, ma dietro i numeri si nascondono sfide e controversie legate alla legislazione
20 Marzo 2024
Articolo di Arianna Baldi
Tempo di lettura 4 minuti

Secondo i nuovi dati pubblicati da Fondazione Ismu, nel 2022 l’Italia ha rilasciato più cittadinanze di ogni altro paese europeo. 213mila nuovi cittadini, il 76% in più dell’anno precedente, 121mila. Un record non insolito: negli ultimi dieci anni, è stata più volte in testa, dal 2015 al 2017 consecutivamente e poi di nuovo nel 2020.

Sono numeri incoraggianti, che però vanno interpretati e soprattutto contestualizzati. Il rischio altrimenti è credere di trovarci nel ‘Luna park delle cittadinanze’, per citare Matteo Salvini.

E invece, c’è poco da festeggiare. Soprattutto perché il rilascio della cittadinanza è sempre più visto come uno strumento di controllo del dissenso.

Ma andiamo con ordine. 

Avere l’idea che in Italia vedere riconosciuto il proprio diritto alla cittadinanza sia semplice e che la nostra legislazione in merito sia generosa è quanto mai fuorviante.

Se osserviamo infatti, il tasso di naturalizzazione, e cioè il rapporto tra il numero di persone che hanno acquisito la cittadinanza di un paese nel corso di un anno e il numero di residenti stranieri abituali nello stesso paese all’inizio dell’anno, notiamo che l’Italia si è sempre posizionata piuttosto in basso. Fino al 2021 eravamo appena noni, superati da tutte le altre principali economie dei paesi membri. Nel 2022, grazie alle 213mila nuove cittadinanze, abbiamo risalito un po’ la classifica, superando la media europea, ma siamo comunque ben lontani dalle percentuali di paesi come la Svezia, con 8,8 nuovi cittadini ogni 1000 residenti stranieri abituali (contro i 3.6 dell’Italia).

Inoltre, se guardiamo all’Indice per le politiche di integrazione dei migranti del 2020, ci accorgiamo che l’Italia è considerata tra i paesi con politiche moderatamente sfavorevoli al riguardo, con un punteggio di 40 su 100.

L’impennata non si spiega quindi con una legislazione diventata all’improvviso particolarmente accomodante, anche perché la nostra è ferma al 1992. Anno in cui viene promulgata la legge 91, il cui fine era principalmente di facilitare l’accesso alla cittadinanza da parte dei cosiddetti ‘oriundi’ ovvero tutti quelle persone di origine italiana, che pure non hanno mai vissuto in questo paese e magari non ci hanno nemmeno mai messo piede.

E’ il caso di molte persone nate e cresciute nell’America Latina per esempio, fattore che spiega perché al quarto posto tra le provenienze dei nuovi cittadini nel 2022 ci sia il Brasile (11mila).  Le prime tre invece, sono Albania (38mila), Marocco (31mila) e Romania (16mila). Da notare, che il terzo, la Romania, è un paese membro dell’Unione Europea, mentre il primo, l’Albania, conta di entrarci a breve.  

Inoltre, l’Italia ha una storia di immigrazione molto più recente rispetto a tanti altri paesi dell’Unione Europea. Se si pensa che per i cittadini extracomunitari servono almeno 14 anni (prima 12) per riuscire ad ottenere la cittadinanza, è facile capire perché il fenomeno sia esploso negli ultimi anni. Basta ricordare che nel 2002, la sanatoria Bossi-Fini portò alla regolarizzazione di quasi 600mila persone. 

Nonostante il dato positivo, secondo cui in Italia le acquisizioni dal 2021 al 2022 sono cresciute ben del 76%, va infine ricordato che quello della cittadinanza rimane un tema estremamente controverso. A suscitare dubbi e proteste non è solo la natura obsoleta della legislazione, che continua a tagliare fuori fino alla maggiore età molti bambini nati sul suolo italiano.

È l’aspetto discrezionale, che grava su un diritto ancora troppo spesso interpretato come una ‘concessione’. Nonostante si possiedano tutti i requisiti necessari infatti, è a discrezione dell’ente predisposto decidere se rilasciare effettivamente o meno la cittadinanza in questione. E basta molto poco per ottenere un diniego. Basta una segnalazione della Digos per essere etichettati come ‘socialmente pericolosi’. 

Basta andare spesso in moschea per venire considerati per questo come un potenziale terrorista. O peggio, basta partecipare a qualche manifestazione (pacifica) ‘di troppo’. Un’espressione di dissenso ritenuta ‘potenzialmente pericolosa’. Un timore che pure senza il supporto di prove può precludere per sempre la possibilità di diventare cittadini italiani, con il rischio che la cosa ricada anche sui propri familiari. Un sistema che causa l’esclusione di circa 200 persone aventi diritto ogni anno. 

In sintesi, si tratta di un discorso troppo ampio e complesso per poter essere adeguatamente compreso solo attraverso questi dati.

Bene che 213mila persone aventi diritto hanno ottenuto qualcosa che spettava loro. Ma questo non implica l’improvvisa sparizione del razzismo sistemico che in questo come in altri campi ancora permea la nostra legislazione. 

Per approfondire l’argomento, vi invitiamo a seguire il nostro podcast ‘Oltre l’approdo. Storie di (dis)integraziome’, che esce ogni giovedì sul canale Spotify di Nigrizia e che potete trovare anche su questo sito. La quinta puntata, la cui pubblicazione è prevista per il 4 aprile, è dedicata a questo tema. 

Lì troverete la testimonianza di Jamal (nome di fantasia), che si è visto privare della cittadinanza per ‘presunta pericolosità sociale’, senza nessuna condanna a suo carico, e le interviste al  professore Michele Colucci, esperto di storia delle migrazioni, e all’avvocato esperto di diritto di immigrazione e membro di Asgi, Salvatore Fachile. 

 

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