
Il traffico d’oro fomenta i conflitti e favorisce il riciclaggio. Lo afferma l’ultima ricerca di The Sentry (La sentinella), il progetto dell’organizzazione americana Enough! che si propone di smascherare le fonti economiche che fomentano e sostengono i conflitti armati.
Il documento, Understanding money laundering risks in the conflict gold trade (Capire il rischio di riciclaggio di denaro nel commercio dell’oro da paesi in guerra), prende in esame l’oro estratto in modo artigianale – cioè da cercatori d’oro privati che si servono di strumenti e metodi quasi esclusivamente manuali – in Sudan, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana e Repubblica democratica del Congo, tutti paesi dalle ingenti riserve aurifere e devastati da conflitti decennali, caratterizzati da gravissime violazioni dei diritti umani.
La ricerca dell’oro con metodi artigianali ha ripreso vigore negli ultimi anni a causa dell’aumento del prezzo del prezioso metallo sul mercato finanziario internazionale. Secondo la ricerca, nei quattro paesi presi in considerazione, si produce oro, in gran parte su piccola o piccolissima scala, per un valore di circa 3 miliardi di dollari all’anno.
Il minerale così estratto è un’importante fonte di reddito per i cercatori, le loro famiglie e le comunità di provenienza ma contribuisce anche in maniera rilevante a finanziare milizie e perfino reparti dell’esercito riconosciuti come responsabili della devastazione del paese, reti di commercio illegale e corruzione.
I produttori su piccola scala, infatti, hanno ben scarse possibilità di sottrarsi ai soprusi di cui sono spesso fatti oggetto, quali requisizione del minerale estratto, balzelli in cambio di protezione, tasse illegali imposte da funzionari corrotti e così via. Soprusi da cui non sono esenti neppure i produttori che lavorano su scala industriale.
Ognuno dei quattro paesi presi in considerazione ha le sue peculiarità, ma in tutti la produzione di oro è in gran parte controllata da gruppi armati.
Nella Rd Congo si stima vengano estratte dalle 10 alle 20 tonnellate di oro all’anno, per un valore che va dai 300 ai 600 milioni di dollari, e che siano impegnati nel settore almeno 250mila minatori artigianali. Nel 2016, il 71% lavorava in miniere direttamente controllate da milizie e reparti dell’esercito.
Nella Repubblica Centrafricana l’estrazione dell’oro è aumentata in modo significativo negli ultimi anni. Si stima che la produzione sia poco meno di 6 tonnellate all’anno, per un valore di 235 milioni di dollari circa. Le miniere, in particolare quelle nelle zone del paese di fatto non controllate dal governo, sono sfruttate da gruppi armati. Secondo le autorità competenti, il 90% dell’oro estratto in Centrafrica è contrabbandato fuori dai confini, attraverso reti criminali.
Il Sudan, secondo i dati del ministero delle Miniere, sarebbe il terzo produttore d’oro in Africa, avendone estratto nel 2018 circa 93 tonnellate. Solo una parte è estratta da produttori su piccola e piccolissima scala, ma anche la produzione industriale è caratterizzata in modi diversi da abusi e violenze.
E’ risaputo che le Rapid support forces – le Forze di supporto rapido, il cui comandante in capo, conosciuto come Hemetti, è il vice presidente del Consiglio sovrano, la più importante istituzione del paese in questo periodo di transizione – hanno fondato il loro potere sull’estrazione e il commercio più o meno legale del prezioso metallo.
Ma sono impegnati nell’estrazione artigianale anche altri movimenti armati, come il Sudan liberation mouvement di Abdel Waid al Nur (Slm-AW), che ha la sua roccaforte nel Jebel Marra, in Darfur, una zona particolarmente ricca del minerale. Così come il Sudan people liberation mouvement – North (Splm-N), che ha recentemente firmato la pace con il governo transitorio, che sfrutta l’oro dello stato del Nilo Blu.
In Sud Sudan sia l’Splm-Io di Riek Machar, sia il National salvation front di Thomas Cirillo, hanno confermato alle Nazioni Unite di finanziarsi sia con l’estrazione diretta che imponendo tasse ai minatori artigianali che lavorano sul loro territorio.
Secondo il rapporto di The Sentry, almeno il 95% dell’oro estratto nei quattro paesi considerati viene esportato a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti (EAU).
Quello sudanese arriva a Dubai direttamente; quello degli altri tre paesi dopo essere stato contrabbandato in paesi limitrofi in modo da camuffarne la provenienza e il legame con i gruppi armati che ne usano i proventi per rinfocolare i conflitti e gli abusi nei paesi di estrazione.
Il rapporto contiene una tabella molto chiara. Ad esempio l’Uganda produce 3 tonnellate di oro all’anno e ne esporta negli EAU, secondo dati ufficiali, poco meno di 9 tonnellate, il Rwanda ha una produzione insignificante – da 0,03 a 0,36 tonnellate – ma ne esporta più di 18 tonnellate. Lo stesso vale anche per Kenya, Burundi e Ciad. Ovviamente il traffico è reso possibile dalla corruzione, ma anche da una legislazione non adeguata o non adeguatamente rispettata.
Secondo il rapporto, Dubai è diventato così l’hub per il commercio dell’oro proveniente dalle zone di conflitto africane, che viene venduto primariamente al mercato del metallo del paese (Dubai gold souk), tra i più importanti non solo nel Medio Oriente. Negli EAU viene anche raffinato e lavorato, mischiato con oro proveniente in modo legale da altre zone del mondo, in modo che possa entrare nel mercato internazionale senza problemi di sorta.
Questo traffico è reso possibile dalla debolissima legislazione degli EAU sul commercio del metallo e dalla mancanza quasi totale di controllo sulle raffinerie. Altre inchieste di giornalismo investigativo, citate dal rapporto di The Sentry, hanno infine accertato che mancano quasi del tutto i controlli sulle transazioni finanziarie, anche quelle per la compravendita di ingenti quantità d’oro.
E’ così possibile riciclare i proventi di attività illegali, comprese quelle delle mafie e dei gruppi terroristici. Particolarmente sospetta è l’attività di un’importante compagnia, il Kaloti jewelry group, il cui nome appare diverse volte anche in documenti del dipartimento del tesoro americano che si occupa di crimini finanziari (US Department of the treasury’s financial crimes enforcement network – FinCEN).
Ma, conclude il rapporto, non sarebbe difficile individuare l’oro insanguinato e bloccarne il traffico se le autorità degli EAU e le banche che eseguono le transazioni finanziarie necessarie alla compravendita del metallo, facessero i necessari controlli.
Senza un loro intervento, l’oro proveniente dalle zone di conflitto continuerà a fomentare guerre e violenze, a permettere il riciclaggio di denaro sporco, a sostenere reti criminali e a mettere a rischio il sistema finanziario internazionale.