Sudafrica: tre grandi banche negano le accuse sui fondi a Hamas
Economia Politica e Società Sudafrica
Secondo un'indagine del Jerusalem Post conti di base in tre grandi istituti sarebbero serviti a finanziare una fondazione legata al partito-milizia
Sudafrica: tre grandi banche negano le accuse sui fondi a Hamas
Le banche smentiscono anche dopo le richieste del rabbino capo del paese africano Goldstein, Lapidario il ministro delle finanze Godongwana: «Accuse sono un mito»
02 Febbraio 2024
Articolo di Brando Ricci
Tempo di lettura 5 minuti

Si allargano le tensioni fra Sudafrica e Israele nel contesto del conflitto in corso a Gaza e della causa con cui Pretoria ha accusato Israele di genocidio contro il popolo palestinese presso la Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite con sede all’Aia. L’ultimo episodio coinvolge tre delle maggiori banche del paese – Standard Bank, in assoluto la più grande banca dell’Africa, Absa e Nedbank – ed è stato al centro delle rivendicazioni della comunità ebraica sudafricana, che ha chiesto immediatamente chiarimenti.

I tre istituti sono stati accusati dalla stampa di Tel Aviv di aver fornito servizi bancari a organizzazioni di base in Sudafrica che hanno inviato denaro a una fondazione sotto sanzioni statunitensi connessa ad Hamas, il partito-milizia che controlla Gaza e che è ritenuto un’organizzazione terroristica da Israele, Stati Uniti e Unione Europea. Le tre banche hanno però negato un loro coinvolgimento.

Relazioni travagliate 

Come detto, l’episodio è da collocarsi nel contesto delle tensioni scatenate dal procedimento legale in corso all’Aia. Va inoltre ricordato che le relazioni fra Sudafrica e Israele sono agitate da ben prima dello scoppio della guerra a Gaza. Pretoria accusa da tempo il paese mediorientale di sottoporre la popolazione palestinese a un regime di segregazione razziale assimilabile all’apartheid imposto in Sudafrica per quasi mezzo secolo, fino al 1994.

La scorsa settimana, i giudici della corte dell’Onu hanno accettato di procedere sul caso e per adesso ordinato a Israele di prevenire qualsiasi atto che costituisca genocidio contro i palestinesi residenti a Gaza, senza però disporre un vero e propria interruzione di tutte le operazione militari come richiesto dai legali sudafricani. Nella guerra, fino a oggi, hanno perso la vita circa 1.100 persone in Israele e più di 27mila nella striscia di Gaza, stando ai dati ufficiali delle due fazioni. La città di Gaza è stata rasa al suolo in buona parte e la stragrande maggioranza della popolazione palestinese che vi viveva è sfollata.

Il caso delle tre banche è partito da un’indagine del quotidiano israeliano Jerusalem Post, fra le testate in lingua inglese più diffuse nel paese. L’inchiesta dei cronisti israeliani è stata realizzata a partire dalla testimonianze di fonti anonime sotto copertura e in realtà, più che muovere delle accuse, avanza delle ipotesi. La ricostruzione di Jerusalem Post indica che conti bancari registrati nei tre istituti sudafricani sarebbero serviti per far arrivare soldi alla filiale sudafricana della Fondazione Al-Aqsa – o a un’altra società di comodo legata ad ambienti islamisti – che li avrebbe poi inviati alla sede centrale il Libano. La Fondazione, ufficialmente un’organizzazione di beneficenza, è illegale in Israele dal 2009 ed è oggetto di sanzioni del dipartimento del tesoro degli Stati Uniti dal 2012 in quanto, «controllata e attiva per o a beneficio» di Hamas.

L’intervento del rabbino capo 

Le accuse che emergono dall’articolo del Jerusalem Post sono state rilanciate dal rabbino capo del Sudafrica Warren Goldstein, che tramite un video su Youtube ha reso noto di aver chiesto delucidazioni direttamente ai vertici delle banche coinvolte. «Chiederò loro di rendere conto delle loro responsabilità in ogni sede possibile», ha affermato il religioso. Goldstein ha anche evidenziato la serietà della questione alla luce del recente inserimento del Sudafrica nella “lista grigia” stilata dalla Financial Action Task Force (FATF), organizzazione internazionale che definisce gli standard per il contrasto al riciclaggio di denaro e il finanziamento a gruppi terroristici. Essere inseriti nella lista grigia significa di fatto essere sotto osservazione del FATF per una serie di inadempienze e in genere ha un impatto negativo sull’afflusso degli investimenti esteri nei mercati coinvolti.

Rispondendo a Goldstein, Nedbank ha «negato fermamente» le e accuse e «assicurato gli azionisti di disporre di un programma completo di gestione del rischio e di conformità in linea con gli standard internazionali per combattere riciclaggio e finanziamento del terrorismo». Sulla stessa linea Standardbank, al primo posto in Africa con 161 miliardi di asset e filiali in 20 paesi del continente. «Standard Bank rispetta le leggi delle giurisdizioni in cui opera, comprese le normative antiriciclaggio e antiterrorismo», si legge in una dichiarazione rilanciata dai media sudafricani. Absa ha definito «infondate» le conclusioni a cui giunge l’articolo della stampa israeliana. Le prime due banche hanno anche specificato però di non poter rivelare dettagli sui loro clienti per ragioni di riservatezza.

Smentite sono arrivate infine dal ministro delle finanze Enoch Godongwana, che in modo lapidario ha voluto «sfatare il mito» del sostegno delle banche sudafricane a Hamas.

Dall’Aia alle casse dello stato 

L’affaire scatenato dal Jerusalem Post non è l’unico a sollevare interrogativi sulle conseguenze economiche delle azioni legali del Sudafrica contro Israele. Nei giorni scorsi la linea aerea di bandiera israeliana El Al ha annunciato la prossima sospensione della tratta Tel Aviv-Johannesburg a fronte di un calo nelle richieste dopo l’inizio del processo all’Aia. Secondo il portale di notizie Semafor, società israeliane avrebbero anche smesso di importare uva dal Sudafrica.

Avvisaglie a cui potrebbero seguire scelte dall’impatto maggiore, se si tiene in conto che Israele è la destinazione di più della metà del carbone e di un quarto dei diamanti del Sudafrica. Anche per questo, il più grande sindacato del paese, pur ribadendo il suo fermo sostegno all’operato del governo contro Tel Aviv, ha chiesto tutele in caso di ulteriori rappresaglie economiche da parte del paese mediorientale.

Utile ricordare infine che in Sudafrica vive l’11esima comunità ebraica per popolazione al mondo, con 51mila ebrei e 85mila persone eleggibili per la legge del ritorno secondo quanto calcolato dall’Institute for Jewish Policy Research (JPR) britannico.

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