
Come parlare dell’odierno Camerun senza ricorrere fin dalle prime righe alle osservazioni di Achille Mbembe, uno dei più prolifici ed acuti sociologi contemporanei, che non perde l’occasione per sottolineare “la debolezza strutturale delle democrazie africane”. Per illustrare l’osservazione disperante del politologo camerunese, occorre fare un parallelismo con l’Italia, paese della cui organizzazione democratica abbiamo una conoscenza più nitida.
Per organizzazione democratica intendiamo il grado e le modalità di rappresentanza dei cittadini nei diversi livelli dell’ordinamento statale: i comuni, le province, le regioni e lo stato centrale. Ecco, secondo la costituzione, adottata nel 1996, il Camerun è una repubblica democratica composta dai comuni, dai dipartimenti, dalle regioni (un tempo chiamati province) e, naturalmente, dallo stato.
Quindi tutto a posto? No, perché quella descritta è una composizione che è solo sulla carta. Nella realtà dei fatti, se è vero che c’è un ordine amministrativo che esercita il potere negli uffici in tutti i livelli, uno sguardo più approfondito rivela un enorme vuoto rappresentativo.
Se i circa 300 comuni del paese possono vantarsi di disporre ognuno di un proprio consiglio comunale eletto con suffragio universale, i dipartimenti e le regioni sono invece istituzioni scardinate da ogni organismo rappresentativo dei cittadini. Istituzioni spesso lasciate in preda a scorbutici ed arroganti amministratori: prefetti e governatori a nomina politica.
Ecco dunque rivelata la debolezza strutturale mbembeiana della democrazia camerunese. Una mancanza di rappresentanza che è solo la punta di un iceberg più profondo e tras-tematico, i cui effetti devastanti contribuiscono a tessere le maglie di quel modus operandi chiamato malgoverno. Che le autorità del Camerun non ne abbiano coscienza? Sarebbe grave affermarlo e ancora più grave se fosse realmente così.
Di fatto, come accennato sopra, con la costituzione adottata nel 1996 i legislatori avevano inteso porre rimedio a questa clamoroso vuoto democratico, proponendo la creazione del senato a livello nazionale e dei consigli regionali a livello locale. Sono poi trascorsi 21 anni prima della costituzione del senato e 23 anni prima della costituzione dei consigli regionali. Il processo elettorale per la nomina di questi ultimi è in corso proprio questi giorni e culminerà con le elezioni, previste per la prima volta il 6 dicembre.
Si potrà così porre rimedio, almeno in parte, alla “debolezza strutturale” della democrazia camerunese? Il governo sostiene di sì e non manca di elencare le proprie ragioni, di fronte a un’opposizione sempre più radicale, tanto da aver deciso, almeno in parte, di non partecipare a questa ennesima presa in giro.
L’argomentazione giustificativa del governo è semplice e si basa su un ricorsivo, zoppicante sillogismo, un ritornello che dice: “il presidente della repubblica, inventore della democrazia nel nostro paese, aveva promesso e, come ogni uomo di parola, ha mantenuto”.
Si va dunque alle elezioni regionali con la speranza, per molti, di potersi finalmente sedere su una poltrona. “Ognuno si siede e Dio lo spinge”, dice un detto locale dalle apparenze teologiche che ben presto cede il posto al ben più concreto “la capra mangia l’erba nel luogo in cui è legata”.
Insomma, se i pro-governativi sostengono il progetto delle elezioni a spada tratta, occorre girarsi verso l’opposizione per capire la dimensione pandemica della debolezza strutturale della democrazia del paese. In materia di elezioni regionali (fu lo stesso per il senato) l’opposizione punta il dito sul diritto di voto, riservato “ai consiglieri comunali e ai capi tradizionali”. Quindi niente suffragio diretto.
Se nel caso dei consiglieri comunali si tratta di una rappresentanza popolare “di seconda mano”, il caso dei capi tradizionali fa balzare dalla sedia. Chi sono coloro? Trattasi di detentori del potere ancestrale, ma non solo. Anche perché di poteri ancestrali in Camerun ve ne sono almeno 250 tipi diversi, relativi alle numerose culture che caratterizzano il paese. Concretamente, si tratta di persone (capi-terra) nominate grazie a una legge nazionale sull’amministrazione del territorio che rende i capi tradizionali (ancestrali e moderni) gli ausiliari dell’amministrazione pubblica.
Emerge così un elettorato misto, composto da consiglieri comunali e capi tradizionali, componenti di due collegi elettorali diversi. Eleggeranno 70 consiglieri sulla base di liste presentate dai partiti politici, liste alle quali possono candidarsi tutti i cittadini, compresi coloro che non hanno diritto di voto, non essendo né consigliere comunale né capo tribù. Questi ultimi dovranno eleggere ulteriori 20 consiglieri regionali, per un totale di 90 consiglieri per ogni regione.
L’argomentario dell’opposizione solca questa strada analitica e porta alla luce del sole l’artificiale ed arbitraria concezione della “democrazia letteraria” che presiede alle proposte governative. Guardando con attenzione a come viene architettato il tutto, ogni studioso della democrazia non può che complimentarsi per l’alto livello di creatività, di poesia costituzionale e amministrativa e, in definitiva, per l’ingegnosità politica che ne discende.
Chi credeva di conoscere tutte le forme di regimi politici si deve ricredere. I principi tradizionali parzialmente modernizzati, le ispirazioni, persino religiose, e l’esposizione raziocinante della matassa politico elettorale, sta facendo nascere, seguendo un processo di generazione spontanea, in Camerun come in molti paesi africani, un nuovo tipo di regime politico, post-moderno e post-politico. In prossimità delle elezioni, tali regimi sposano i principi fondamentali del “brutalismo” mbembeiano, divenendo, di fatto, democratura.
Nel frattempo che cosa succede nel paese? L’opposizione chiama alla manifestazione politica, quindi organizza raduni di protesta in tutto il paese, il 22 settembre, nonostante il divieto imposto dal governo. Numerosi camerunesi della diaspora, sparsi ovunque nel mondo, si sono recati presso le rappresentanze diplomatiche del paese per protestare contro il regime.
A Parigi, Milano, Londra, Washington e in diverse capitali europee, le locali forze dell’ordine hanno dovuto ascoltare le lamentele, a volte strazianti, di camerunesi residenti che, in barba alle regole di distanziamento sociale, si sono accalcati per esprimere la loro endemica rabbia.
Naturalmente, le guerre terroristiche nel nord del paese e secessioniste nelle regioni anglofone dell’ovest continuano, senza che nessuno sappia esattamente cosa stia succedendo. Così va il paese dell’ottantasettenne Paul Biya, uomo un tempo eclettico, diventato progressivamente taciturno, fino a dover subire le accuse di essere un morto vivente: “la morte si caratterizza per il silenzio e l’assenza”, sentenziava un audace membro del partito di governo.
Lo diceva disperandosi ma trovandosi di fatto a fare la parte del tenore in un coro di detrattori che chiedeva di costatare la vacanza effettiva della presidenza della repubblica e di fare uscire il Camerun da quel che, in eco ad Achille Mbembe, un altro filosofo, Franklin Nyamsi, definisce “la repubblica fotocratica”.