
Il 14 febbraio 2020 a Ngarbuh, nella regione del Nordovest camerunese, regione anglofona, un massacro ha provocato la morte di almeno 22 persone, fra cui 14 bambini: di questi, 11 erano bimbe e 9 avevano meno di 5 anni. La maggior parte di loro sono stati uccisi con armi da fuoco e i loro corpi poi bruciati nelle case date alle fiamme.
Dopo averlo inizialmente negato, il governo ha riconosciuto il coinvolgimento dei militari nel massacro. L’annuncio, la prima volta in assoluto, arriva al termine di una inchiesta condotta congiuntamente da responsabili dell’esercito e da osservatori indipendenti: 4 militari sono implicati nel massacro di civili a Ngarbuh, come fin dall’inizio avevano sostenuto militanti della società civile e le ong.
Le conclusioni degli investigatori sono state pubblicate il 21 aprile scorso tramite un comunicato della presidenza, indicando il comandante di battaglione Nyiangono Ze Charles Éric, al comando del 52° battaglione di fanteria motorizzata, il sergente Baba Guida, indicato come colui che ha ordinato il massacro, il gendarme Sanding Sanding Cyrille e il soldato de prima classe, Haranga. Con questi 4, altri 10 civili, membri del comitato di vigilanza che accompagnava i soldati nell’operazione, sono stati incriminati.
Il presidente del Camerun, Paul Biya, ha ordinato una procedura disciplinare contro il comandante di battaglione Nyiangono Ze per la sua assenza durante un’operazione tanto delicata, e una procedura giudiziaria contro gli altri 13 responsabili militari e civili per la loro partecipazione al massacro, che ha provocato la morte di 13 persone e molte case bruciate nel tentativo di mascherare il crimine. I corpi delle vittime verranno riesumati così da dare loro una degna sepoltura e chi ne ha diritto potrà beneficiare di un indennizzo e di una compensazione a spese dello stato.
I fatti
È venerdì 14 febbraio. Nel corso di un’operazione detta di «ricognizione» condotta dall’esercito nei villaggi di Ntubaw e Ngarbuh, l’ordine è di assaltare un campo indicato come una base di secessionisti a Ngarbuh 3. Al termine di violenti scontri si contano numerosi abitanti del villaggio colpiti a morte e un certo numero di case date alle fiamme.
James Nunan, capo dell’Ufficio di coordinamento degli Affari umanitari (Ocha) dell’Onu per le regioni del Nordovest e Sudovest del Camerun al momento dei fatti, faceva allora un bilancio di almeno 22 morti, di cui 14 bambini. Quel bilancio era stato confermato dal vescovo di Kumbo, George Nkuo, e da altre ong tra cui Human Rights Watch che, in un suo rapporto, faceva notare l’implicazione dei militari.
L’esercito camerunese aveva smentito subito le accuse. In un comunicato del 17 febbraio, il ministro della difesa, Joseph Beti Assomo, le definiva come «accuse grottesche», frutto di un «infelice montaggio su operazioni di sicurezza in corso». L’esercito camerunese così come il portavoce del governo, in maniera molto formale, parlavano di 7 terroristi neutralizzati e 5 «vittime collaterali» civili, di cui 4 bambini, uccisi in un incendio dovuto all’esplosione di un contenitore di carburante di contrabbando.
Voltafaccia mascherato
Benché il rapporto d’inchiesta rivelato dalla presidenza camerunese sia in piena contraddizione con le prime dichiarazioni del governo, Yaoundé non riconosce che si tratti di un voltafaccia. «Il sergente Baba Guida, che aveva diretto l’operazione, aveva inviato ai suo superiori un resoconto volontariamente manipolato sul quale il governo aveva inizialmente fondato la sua preoccupazione», come si legge in un comunicato del segretario generale alla presidenza della repubblica, Ferdinand Ngoh Ngoh.
Questo scenario rievoca quello del massacro di due donne e due bambini a Zeleved, nell’estremo nord del paese, nella lotta contro Boko Haram. Anche in quell’affaire, l’esercito camerunese aveva negato le ricostruzioni dei media e dei militanti della società civile, prima di tradurre 7 soldati davanti a una corte marziale. Il caso del massacro di Ngarbuh rilancia evidentemente la questione del rispetto dei diritti dell’uomo sui fronti di guerra.
La società civile, per parte sua, esprime una relativa soddisfazione. Se la pubblicazione dei risultati dell’inchiesta è vista di buon occhio dalla maggioranza dei militanti, il contenuto continua ad alimentare la polemica. Per Lewis Mudge, direttore Africa centrale di Human Rights Watch, per esempio, «questo rapporto è un primo passo nella giusta direzione», anche se l’organizzazione «non condivide alcuni punti».
E, in particolare, sottolinea che «devono essere ugualmente stabilite le responsabilità degli alti gradi dell’esercito che hanno tentato di coprire i fatti». Dichiarazioni che riprendono quelle di Washington che, tramite la sua ambasciata a Yaoundé, si è detto felice della «decisione di chiedere conto alle persone sospettate di aver eseguito questa azione e di aver tentato di dissimularla».
Per l’oppositore Edith Kah Walla, leader del Front citoyen, un movimento della società civile, «la democrazia camerunese ha fatto un passo avanti». «Migliaia di voci hanno reclamato giustizia per le vittime di Ngarbuh. Il risultato è lungi dall’essere soddisfacente al 100% . E, comunque, è quanto di meglio potevamo sperare dopo le atrocità del governo», ha dichiarato.
A inizio marzo, secondo la presidenza camerunese, i militari coinvolti negli avvenimenti di Ngarbuh sono stati interpellati e messi alla disposizione della giustizia militare. I 10 civili membri del comitato di vigilanza, invece, sono ancora in libertà, ma li stanno ricercando.
Le ragioni di Ambazonia
Parlando del massacro di Ngarbuh, non è possibile oggi non fare un accenno alla situazione degli sfollati che sono fuggiti alle violenze nelle due regioni anglofone del Camerun (un 20% della popolazione camerunese) e che hanno trovato accoglienza nella capitale economica del paese, Douala, in particolare nel quartiere di Makepe.
Iniziata nel 2016 con le rivendicazioni sociopolitiche di insegnanti e avvocati, la crisi anglofona si è trasformata nel 2017 in un conflitto armato tra separatisti che lottano per l’indipendenza di questa parte del paese, l’Ambazonia, e l’esercito camerunese.
Secondo le organizzazioni non governative internazionali, più di 3mila persone sono state uccise in questi 3 ultimi anni. Secondo le Nazioni Unite, sono 700mila le persone che hanno abbandonato le loro case per rifugiarsi nelle vicine foreste e nelle regioni francofone dell’ovest, del centro e del litorale. La solidarietà dei camerunesi s’è messa in moto nei confronti di questi fratelli e sorelle costretti ad abbandonare le loro case.
Ma a peggiorare la situazione, già di suo precaria di questi fratelli e sorelle, ecco il Covid-19 manifestarsi anche in Camerun. A fine aprile i casi ufficialmente riconosciuti erano quasi 1.700 con una sessantina di morti. La situazione si è fatta realmente difficile per questi sfollati già traumatizzati dalla guerra e sprovvisti di tutto.
Ai problemi di salute, educazione, nutrizione e alloggio, ecco aggiungersi ormai anche la paura del contagio. Per sopravvivere, infatti, gli sfollati anglofoni svolgevano piccoli lavori: venditori ambulanti, manovali sui cantieri, caricatori nelle stazioni di bus e taxi… Questo, prima che l’economia del paese non venisse messa in causa.
Per lottare contro la pandemia, il governo ha imposto misure come l’ obbligatorietà della mascherina, la chiusura delle scuole, delle frontiere terrestri, aeree e marittime, l’interdizione di assembramenti di più di 50 persone, di sovraccarico per taxi e moto-taxi, chiusura di bar e luoghi di svago dalle sei di sera…
Economia in ginocchio
Proibizioni che colpiscono duramente l’economia camerunese. I più sprovvisti devono ora fare salti mortali per poter soddisfare i propri bisogni basilari.
Gli sfollati vendono cibo sulle strade, toccano i soldi, incontrano persone. La sera rientrano nei loro alloggi e dormono stretti gli uni agli altri (le famiglie africane sono numerose) perché mancano spazi e materassi. In una situazione del genere, se c’è un positivo al coronavirus, ecco la catastrofe.
Certo, la paura di beccarsi il virus c’è, ma sono in molti a pensare che o si continua così o si muore di fame…Certo, i venditori ambulanti portano delle mascherine, che però non sono conformi alle norme igieniche. Sono tanti a risalire le strade di Bonabéri, quartiere nell’ovest di Douala che accoglie una forte presenza di sfollati.
Presi tra il fuoco delle armi e la miseria della pandemia, gli sfollati anglofoni sono più esposti al Covid-19 della popolazione camerunese in generale: non ci sono entrate, c’è chi non ha casa, altri non hanno di che mangiare e quelli e quelle che in qualche modo se la cavavano prima della crisi, adesso non ce la fanno più.
Ma il virus della fame è peggiore del coronavirus… È così che migliaia di sfollati hanno preferito queste ultime settimane far ritorno al villaggio, ancora in guerra nonostante l’appello al cessate il fuoco dell’Onu in questo tempo di pandemia. Sono tanti i rientrati con i loro figli perché non c’è più lavoro. Un modo anche per allontanarsi dai centri dove la pandemia è scoppiata e … in particolare Yaoundé e Douala.
Secondo il direttore dell’Ufficio di coordinamento degli affari umanitari dell’Onu in Camerun, sarebbero 5-6mila le persone rientrate dopo che le scuole sono state chiuse, il 17 marzo scorso. Il rientro continua.