
Valentina Cabiale e Marco Gobetti (a cura di)
Seb 27, 2019, pp. 158, € 15,00
Se si esclude quando covano e allevano i piccoli, i rondoni (da non confondere con le rondini, appartengono a due famiglie diverse) volano sempre, giorno e notte. Il migrare fa parte del loro ciclo vitale e percorrono dai 4 ai 6mila chilometri, spaziando dalla Scandinavia all’Africa subsahariana e meridionale. E mutano i tempi migratori con il mutare del clima.
I reperti fossili e l’analisi molecolare hanno chiarito che l’Homo sapiens è nato nel Corno d’Africa 200mila anni fa e da lì, migrando, ha colonizzato prima l’Africa e poi il mondo intero. La storia delle migrazioni umane presenta ancora punti oscuri, al vaglio della ricerca scientifica, ma è fuori discussione che gli ominini (cui appartengono l’uomo, lo scimpanzé, il bonobo) si sono sempre spostati.
Il concetto di “umanità” è stato inventato dagli uomini che lo hanno caricato di aspetti positivi: intelligenza, buoni sentimenti, creatività, superiorità rispetto alle altre forme di vita e capacità di padroneggiare il mondo. Un concetto pericoloso e tracotante, se pretende che l’uomo sia un’eccezione nel mondo dei viventi e suggerisce che possa vivere in maniera indipendente.
I tre appunti sono stati tratti dalle narrazioni scientifiche di altrettanti studiosi, presentate alla seconda edizione della Festa dell’umanità – Ostana (Cuneo), 24-25 novembre 2018, organizzata dalle associazioni Bouligar e Compagnia Marco Gobetti – incentrata sul tema del confine e delle migrazioni.
Nell’occasione si sono confrontati 12 esperti (biologi, archeologi, antropologi soprattutto) e questo testo, opportunamente, raccoglie le loro riflessioni e le rilancia. Per contribuire, spiegano i curatori, ad arginare «il linguaggio “sloganistico” contemporaneo che nasce nell’attimo in cui lo si utilizza, rifiuta la riflessione e spesso produce confusione e azioni meramente istintive».
Il primo appunto è tratto dall’intervento dell’ornitologo Giovanni Boano e suggerisce come i rondoni abbiano un’idea spaziosa di confine. Da Olga Rickards, docente di antropologia molecolare all’Università degli studi di Roma, il secondo suggerimento: non perdere di vista i nostri trascorsi migratori.
Nel terzo appunto, a demolire l’antropocentrismo ci pensa l’antropologo culturale Adriano Favole, Università di Torino, che invita a operare una manutenzione del concetto di umanità «mantenendone la costitutiva apertura, a evitare che qualcuno pretenda di avere l’ultima e definitiva parola sulla definizione dell’umanità».
I due curatori – Valentina Cabiale archeologa, Marco Gobetti regista – ci indirizzano così: «Qualsiasi forma di nuova conoscenza ridefinisce continuamente, di volta in volta, il nostro personale confine: e può darsi che il pericolo più grande stia tutto nella nostra incapacità di vederlo, di accettarlo, e, ancor di più, di perderci a immaginare che cosa ci sia al di là di esso».