In Arabia Saudita l’incubo dei migranti etiopici - Nigrizia
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Amnesty International denuncia detenzioni disumane e torture
In Arabia Saudita l’incubo dei migranti etiopici
Nel paese del Golfo migliaia di uomini, donne e minori etiopici non in regola con i documenti di soggiorno, sono stipati a tempo indeterminato in centri sovraffollati senza cure sanitarie, cibo e acqua, e sottoposti ad abusi e torture
22 Dicembre 2022
Articolo di John White
Tempo di lettura 6 minuti

Il 16 dicembre scorso Amnesty International ha pubblicato un rapporto in cui denuncia l’espulsione perdurante da anni dall’Arabia Saudita di centinaia di migliaia di migranti etiopici, dopo averli costretti ad una detenzione arbitraria a tempo indeterminato in condizioni disumane solo perché non in possesso di validi documenti di residenza, una situazione esacerbata dal famigerato kefeel.

Il kefeel (patrocinio o sponsorizzazione) è un sistema di accordo presente in vari paesi del Golfo, che stabilisce le relazioni tra lavoratori stranieri e datori di lavoro locali, i quali spesso approfittano delle persone impiegate, specie se prive di documenti, abusandole e privandole dei diritti umani più basilari.

Amnesty ha pertanto sollecitato le autorità saudite ad investigare i casi di tortura come pure la morte in custodia di almeno dieci persone tra il 2021 e il 2022.

Il rapporto titolato It’s like we are not human: forced returns, abhorrent detention conditions of ethiopian migrants in Saudi Arabia, descrive i dettagli in cui uomini, donne e bambini etiopici detenuti arbitrariamente nei sovraffollati centri di Al-Kharj, nei pressi di Riyadh, e Al-Shumaisi, nell’area di Gedda, e rispediti in seguito forzatamente in Etiopia. Dove molti si sono trovati ad affrontare una nuova carcerazione.

Attraverso verifiche via satellite e video autentici ripresi all’interno dei centri di detenzione Amnesty ha potuto svelare le brutali condizioni in cui versano i detenuti.

«L’Arabia Saudita, uno dei paesi più ricchi del mondo, mantiene stipati in orrendi centri di detenzione un gran numero di migranti, rifiutando di provvedere per loro appropriate cure sanitarie, cibo e acqua. I prolungati abusi, in vari casi fatali per numerosi migranti, dimostrano l’assenza di volontà da parte delle autorità saudite, di migliorare il trattamento delle persone imprigionate. Le stesse autorità devono investigare quanto prima i casi di tortura e di morte dei detenuti. Anzi, dovrebbero assolutamente smetterla di rinchiudere queste persone nei centri di detenzione».

Queste le dichiarazione di Heba Morayef, direttore regionale di Amnesty per il Medio Oriente e il Nordafrica. Che aggiunge: «Nel prolungato contesto di brutale detenzione molti hanno sviluppato un grave stato di salute fisica e mentale. Al presente vi sono oltre 30mila etiopici tuttora detenuti in quelle stesse condizioni col rischio di restarne vittime. Le persone non possono essere private del rispetto dei diritti umani più basilari soltanto perché mancanti di riconoscimento giuridico».

«L’Arabia Saudita – ha proseguito Morayef – ha lavorato molto per costruirsi un’immagine positiva e attrarre investitori stranieri, ma sotto l’apparenza di questa vernice scintillante esiste una storia di abusi tremendi contro migranti che con sacrifici enormi erano giunti in Arabia sperando di trovare lavoro e per contribuire allo sviluppo del paese».

Vivono tuttora in Arabia circa 10 milioni di lavoratori emigrati. Amnesty ha scelto di focalizzare l’attenzione sulle sofferenze degli etiopici irregolari in seguito a un piano formulato dai governi di Riyad e Addis Abeba, di far rientrare 100mila migranti in Etiopia, entro la fine del 2022.

I ricercatori hanno avuto occasione alcuni mesi or sono di parlare con numerosi migranti etiopici che avevano speso mesi di detenzione prima di tornare nel loro paese, come pure con i famigliari di altri detenuti, operatori umanitari e giornalisti che conoscono la situazione dei centri di detenzione.

Dal 2017 l’Arabia Saudita ha intensificato una campagna di detenzione e espulsione forzata di migranti senza documenti. In molti casi, peraltro, i lavoratori irregolari non riescono a trovare la strada per ottenere permesso di residenza, mentre altri, pur se in regola con i documenti, rischiano di perdere la residenza legale nel caso lascino il lavoro e chi li ha impiegati sfruttandoli abusivamente.

Gran parte dei detenuti, senza possibilità di appellarsi a chicchessia, non hanno altra scelta che accettare il proprio trasferimento, anche se forzato, in Etiopia. I governanti hanno in tal modo violato il principio sancito nelle Regole Nelson Mandela delle Nazioni Unite che recita “i prigionieri vanno trattati con il rispetto dovuto alla loro intrinseca dignità e valore come persone”.

I testimoni intervistati hanno raccontato di torture e percosse, di insufficienza di cibo, acqua e lettiere; nessun accesso a cure sanitarie anche per bambini, donne in gravidanza e persone severamente inferme. Tra gli espulsi forzatamente si contano anche minori non accompagnati e donne incinte.

Bila, un ex recluso di Al-Shumaisi, dove ha speso 11 mesi, ha testificato di aver condiviso uno stanzone con 200 persone, nel quale tuttavia vi erano solo 64 letti, per cui a turno c’era chi doveva dormire sul pavimento. Altri tre rientrati in Etiopia raccontavano che il cibo era del tutto insufficiente, e veniva dato a ciascuno mezzo litro d’acqua al giorno, nonostante le temperature roventi all’interno degli edifici fatiscenti.

«Le malattie della pelle imperversavano – hanno raccontato uno degli ex migranti – per il moltiplicarsi di pulci e pidocchi. Molti cercavano di comprare sacchetti di plastica per l’immondizia da usare come coperte per proteggersi ed eravamo costretti a bruciarci i capelli per rimuovere i pidocchi, perché non c’era altro modo per liberarcene».

Alcuni agenti umanitari hanno inoltre dichiarato ad Amnesty che molte persone rientrate in Etiopia soffrivano di malattie respiratorie e contagiose come la tubercolosi. Mahmoud, uno dei prigionieri tornati in Etiopia che aveva condiviso una stanza con un uomo che vomitava sangue, ha testimoniato che l’unica medicina datagli era una pastiglia di paracetamolo.

L’uomo morì non appena toccato il suolo in Etiopia. Un breve video verificato da Amnesty mostra un gruppo di persone che fanno la preghiera funebre del salat al-janaza sulla salma coperta da un telo.

Per aver perorato la causa di un compagno molto malato e chiesto condizioni meno indecenti, altri sei testimoni hanno dichiarato di aver subito torture e percosse anche con barre di metallo e fili elettrici, picchiati sul volto e forzati a rimanere sotto il sole cocente sull’asfalto fino ad avere bruciature sul corpo.

Una realtà, quella delle condizioni dei migranti nei paesi del Golfo, che si incontra con modalità diverse un po’ ovunque, e richiede certamente una maggiore considerazione da parte della comunità internazionale e dei governi che intrattengono stretti rapporti politici ed economici con queste nazioni.    

 

 

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