
Uscito dall’Università islamica di Medina, in Arabia Saudita, Omar Kobine Layama è stato presidente del Consiglio superiore islamico della Repubblica Centrafricana sino al giorno della sua morte. Per lo più sconosciuto al grande pubblico, Layama è uscito dall’ombra nel momento più drammatico della crisi politico-militare centrafricana, quella del 2013.
Cofondatore della Piattaforma delle confessioni religiose del Centrafrica (Pcrc), l’imam Omar Kobine è stato, assieme al cardinale Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo metropolita di Bangui, e al pastore Nicolas Guerekoyame, un’infaticabile costruttore della pace in Centrafrica.
La lotta contro la deriva confessionale, meglio ancora, comunitaria, della crisi centrafricana del 2013 è stata per quasi un decennio il cavallo di battaglia di questo tenace artigiano della pace.
La stampa internazionale ha fatto del conflitto centrafricano l’espressione di una crisi identitaria che ha opposto i centrafricani di religione musulmana a quelli di religione non musulmana. Di fronte a quello che possiamo definire come imbroglio mediatico, Omar Kobine Layama è stato uno dei leader d’opinione che più si è indignato contro discorsi e analisi che miravano a definire la crisi centrafricana come conflitto comunitario.
La sua presenza a fianco degli altri due leader religiosi, ha conferito una certa sicurezza a tutti coloro che erano scettici e ha riconfortato coloro che hanno ben presto smentito l’ipotesi di un conflitto identitario in Repubblica Centrafricana.
Voce scomoda
Cantore della pace, la sua lotta contro la deriva comunitaria del conflitto centrafricano gli ha procurato accese ostilità tanto nelle comunità non musulmane quanto in quelle musulmane. Gli ambienti più radicali lo ritenevano un traditore che aveva fatto un patto con il “diavolo”, contro gli interessi della comunità islamica.
Quest’accusa causò il saccheggio e la completa distruzione sua della casa, tanto che fu costretto ad alloggiare presso la residenza del cardinale Dieudonné Nzapalainga, sull’esempio delle migliaia di persone sfollate all’interno del paese, accolte, nel momento più duro della crisi, da persone di buona volontà in tutta la città di Bangui.
Questo duro colpo alla sua persona avrebbe potuto scoraggiarlo. Tuttavia, contro qualsiasi previsione, Omar Layama non si è tirato indietro nel suo impegno, restando coerente nei suoi discorsi e in tutto quello che ha compiuto con i fatti.
Oltre alla gestione della crisi, è stato un attore infaticabile nel lavoro della coesione sociale. A due settimane dalla sua morte, si è scagliato ancora una volta contro il divampare di parole che incitano all’odio sui social network, in un momento tanto delicato come la scadenza dell’appuntamento elettorale del 27 dicembre.
Cogliendo l’occasione al volo, ha chiamato i responsabili e i leader politici alla calma e alla necessità di contenere le loro basi per evitare scontri che potrebbero sfociare in una nuova guerra civile. Il suo coinvolgimento a favore del dialogo e della pace gli è stato riconosciuto anche attraverso numerosi premi internazionali.
Umile e discreto
Sull’esempio dei suoi pari, cofondatori della Pcrc, l’impegno dell’imam è stato insignito di numerosi premi internazionali, tra cui il premio della Fondazione Sergio de Mello nel 2015 che ricompensava l’individuo o l’organizzazione che avesse fatto qualcosa di speciale per riconciliare le persone e le parti in conflitto.
Kobine Layama fa parte inoltre dei vincitori del premio della pace d’Aix-la Chapelle nel 2015. Tra gli altri, ricordiamo anche il premio Search for common ground del 2014 negli Stati Uniti.
Alla stregua di uno dei suoi pari, il cardinale Dieudonné Nzapalainga, l’imam ha sempre dedicato i premi ottenuti alle vittime del conflitto in Centrafrica. Gesto simbolico questo, che testimonia la semplicità del suo autore e in una certa misura anche il suo altruismo discreto e misurato.