Africa: emarginazione e povertà pull factor per il terrorismo
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Nel continente la metà delle morti per violenza jihadista nel mondo
Africa: emarginazione e povertà pull factor per il terrorismo
Uno studio del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo individua difficoltà economiche e impossibilità di inserimento in contesti lavorativi come principali cause che spingono i giovani ad unirsi ai gruppi jihadisti armati. Che hanno contato su un aumento del 92% di nuove reclute nel 2021
08 Febbraio 2023
Articolo di Antonella Sinopoli (da Accra)
Tempo di lettura 5 minuti
Devastazione e morte dopo l'attacco di Boko Haram a un villaggio nel nord della Nigeria (Credit: Combating Terrorism Center)

Nel caso ancora persistesse la convinzione che il fattore principale dell’adesione a gruppi terroristici sia la religione e il fondamentalismo religioso, uno studio dell’Undp (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo) mostra invece come siano soprattutto altri fattori a determinare il coinvolgimento, soprattutto dei giovani, in gruppi armati.  

Parliamo di Viaggio nell’estremismo in Africa, un lavoro cominciato nel 2017 e che nella nuova e aggiornata edizione appena pubblicata mostra le reali motivazioni che spingono i giovani subsahariani a scegliere la strada della violenza.

L’estremismo violento nell’Africa subsahariana ha raggiunto punte record, tanto che l’area è ormai considerata l’epicentro del radicalismo islamista violento con quasi la metà delle morti per terrorismo a livello mondiale (48%) registrate nel 2021.  

Ma il fattore trainante non è, come dicevamo, la convinzione religiosa. Solo il 17% ha infatti identificato la religione come fattore chiave – una diminuzione del 57% rispetto ai risultati del 2017 -, e solo il 6% ha indicato l’influenza degli capi religiosi.  

Il pull factor è piuttosto l’emarginazione sociale e la difficoltà (se non l’impossibilità) di inserirsi in un contesto lavorativo. Difficoltà economiche (personali e del paese in cui si vive), marginalità sociale, situazioni familiari di degrado e mancanza di attenzione, sono i motivi che non lascerebbero a molti giovani alcuna speranza.  

E sono tutti motivi che li rendono possibili vittime di reclutamento dei gruppi armati. E se dal rapporto risulta che ci sia stata una diminuzione del 57% nel numero di persone che si uniscono a gruppi estremisti per motivi religiosi, nel contempo si è registrato un aumento del 92% delle nuove reclute attirate dalla garanzia di un guadagno e migliori mezzi di sussistenza.  

Tutto questo sarebbe peggiorato nel periodo del Covid e dei lockdown, dal picco dell’inflazione che ha colpito praticamente in tutti i paesi subsahariani, ma anche dagli effetti e dalle crisi provocate dal cambiamento climatico.

La mancanza di reddito, di opportunità di lavoro e mezzi di sussistenza, portano alla disperazione ed è questa – ha affermato Achim Steiner dell’Undp, «che sta essenzialmente spingendo le persone a cogliere qualsiasi opportunità, chiunque sia ad offrirle».

Secondo il rapporto – che si basa su interviste a 2.200 persone in Burkina Faso, Camerun, Ciad, Mali, Niger, Nigeria, Somalia e Sudan – circa il 25% dei giovani che hanno risposto alla chiamata di gruppi jihadisti ha citato la mancanza di opportunità di lavoro come motivo principale, mentre circa il 40% ha affermato di avere “urgente bisogno di mezzi di sussistenza”. Insomma un mix tossico di povertà, indigenza, mancanza di lavoro e di prospettive future.

Gli intervistati provengono da vari gruppi armati che operano in tutto il continente. Tra questi Boko Haram in Nigeria, al-Shabaab in Somalia e, ancora in Africa occidentale, Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (Gsim), alleato del gruppo Stato islamico.

Campagne militari: un fallimento

Nelle pagine del report si legge che dal 2017 sono stati documentati almeno 4.155 attacchi in tutta l’Africa. Attacchi che hanno provocato 18.417 morti. In Somalia il maggior numero delle vittime. Pochi, infatti, i progressi in questo paese nonostante le campagne militari e quella che il governo somalo sta attualmente portando avanti contro al-Shabaab che domina la regione da più di un decennio.

Il fatto è che le campagne antiterrorismo, spesso con l’aiuto e la partecipazione di militari stranieri o di operazioni di paesi europei e supportati dall’Onu, non hanno sortito grandi effetti, ma anzi hanno esasperato la situazione e aumentato i sentimenti anti-occidentali.

Vedi ad esempio le operazioni a guida francese Barkhane e Takuba, in Mali. Dopo anni le truppe sono state costrette al ritiro lasciando la situazione sul campo più critica di quanto fosse al loro arrivo. L’ondata di estremismo in Africa ovviamente non ha solo un impatto negativo sulla vita, sulla sicurezza e sulla pace, ma minaccia anche di invertire e vanificare i successi e lo sviluppo conquistati a fatica in questi anni.

Continuare ad impegnare le forze militari non si è dimostrata, dunque, la risposta migliore. Anzi, tale approccio finisce per esacerbare le situazioni e a farne le spese sono soprattutto i civili. Le operazioni antiterrorismo – si sottolinea – oltre ad essere costose risultano poco efficaci e, nella maggior parte dei casi, controproducenti.

Azioni ovvie sarebbero quelle di ricreare una relazione di fiducia tra lo Stato e i cittadini e, soprattutto, creare condizioni sociali che diano ai giovani opportunità di esprimersi e di emergere. Oltretutto, dal rapporto emerge anche che circa il 71% di coloro che si sono uniti a gruppi estremisti – a volte convincendo anche le loro donne a farlo – sono stati influenzati e hanno personalmente vissuto violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza statali, come l’uccisione o l’arresto di membri della famiglia.

Violazioni e violenze a cui hanno assistito e che poi hanno a loro volta messo in pratica. Emerge così, che la brutalità dei gruppi estremisti non è altro che l’altra immagine di un sistema che alla giustizia antepone la forza e che vuole combattere la rabbia e la frustrazione di questi giovani con il pungo di ferro, ma senza venire a capo delle ragioni che stanno seminando tanta insicurezza nei paesi subsahariani.

Infine, un aspetto su cui si concentra il report è la necessità di mettere in atto ogni tipo di azione – soprattutto intervenendo attraverso le comunità locali – per portare fuori questi ragazzi dai gruppi a cui hanno aderito dando loro fiducia, opportunità, percorsi sostenibili di crescita e di lavoro. Pare, infatti, che la maggior parte dei ragazzi che rinnega la partecipazione a questi gruppi non vi faccia più ritorno.

 

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