COP28. L’Africa ancora a mani vuote - Nigrizia
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Ancora troppo lenti e incerti i passi avanti per frenare il surriscaldamento del pianeta e i danni causati ai paesi del Sud Globale
COP28. L’Africa ancora a mani vuote
Fissata al 2050 la fine dell’era dei combustibili fossili. Troppo tardi per gli africani che portano a casa la promessa di operatività del fondo per compensare i danni provocati dagli effetti della crisi climatica, affidato alla Banca Mondiale. Una cassa basata su contributi volontari che faticherà a riempirsi, fanno notare gli attivisti per il clima, mentre la devastazione ambientale continuerà a colpire e ad aggravare le già drammatiche crisi in atto
14 Dicembre 2023
Articolo di Bruna Sironi (da Nairobi)
Tempo di lettura 6 minuti
Manifestanti marciano per chiedere un’azione sul cambiamento climatico a Nairobi, in Kenya, all’inizio di settembre, durante il vertice africano sul clima (Credit: AP)

Dopo 10 giorni di trattative estenuanti e il timore di un clamoroso fallimento, la mastodontica conferenza dell’ONU sul clima di quest’anno, COP28, ha partorito un paio di topolini, significativi nelle parole, minuscoli nei fatti.

Il primo giorno, nel tripudio generale, è stato reso operativo il fondo per il risarcimento delle perdite e dei danni (Loss and Damage Fund) provocati dai cambiamenti climatici, chiesto come provvedimento prioritario dai paesi del Sud del mondo e in particolare da quelli africani.

L’accordo finale, arrivato il giorno dopo il termine programmato della conferenza, mette nero su bianco per la prima volta la data in cui il mondo dovrà smettere di usare combustibili fossili. Tutti: carbone, petrolio e gas. La scadenza è il 2050. Il documento è stato approvato all’unanimità.

Sulla carta sono certamente passi avanti notevoli nella lotta per salvare il pianeta. Ma se si guarda oltre le dichiarazioni, si notano criticità che non possono non destare preoccupazione.

Ma, prima ancora dell’analisi critica dei paragrafi del documento finale, il problema principale è la sua credibilità che deriva da interrogativi sulla buona fede di chi lo ha approvato. Buona fede da cui deriva, in ultima analisi, la realizzazione dei provvedimenti concordati.

La storia di quasi trent’anni di impegni firmati e disattesi, se non sconfessati, e di problemi elusi sta facendo perdere la speranza. Lo ha dichiarato senza mezzi termini Vanessa Nakate, giovane ugandese da anni in prima linea tra gli attivisti climatici.

«Se i leader falliscono nell’affrontare le cause profonde della crisi climatica dopo 28 anni di conferenze, allora non solo ci deludono, ma ci fanno perdere fiducia nell’intero processo delle COP». «Perché questa COP sia un successo – ha aggiunto – deve affrontare il problema dei combustibili fossili».

Nel documento finale il problema è stato affrontato, ed è stato riconosciuto come un passo avanti nella giusta direzione.

Mohamed Adow, kenyano, direttore dell’organizzazione Power Shift Africa, impegnato per la giustizia climatica, ha così twittato: “Per la prima volta in tre decadi di negoziazioni sul clima le parole combustibili fossili sono comparse in un risultato COP. Stiamo finalmente dando un nome all’elefante nella stanza. Il genio non tornerà mai più nella lampada e le future COP stringeranno ancora di più la morsa sull’energia sporca”.

La definizione della data limite per l’emissione di gas serra è stata descritta come un evento storico anche dal presidente della conferenza, Sultan Al Jaber. Lo stesso che aveva suscitato sconcerto nei giorni precedenti, per aver detto che non ci sono dati scientifici che sconsiglino l’uso dei combustibili fossili e che rinunciare al loro uso avrebbe riportato il mondo all’età della pietra.

Infatti la prima bozza del documento finale neanche li nominava. Alla conferenza stampa in cui era stato diffuso, alcuni attivisti erano in lacrime, come Joseph Sikulu, della Pacific Island Warriors, che evidentemente pensava che le “sue” isole sarebbero state le prime a sparire a causa dell’aumento della temperatura del pianeta provocato dai gas serra.

Vanessa Nakate aveva commentato in questo modo: «Quello che sta succedendo qui è inaccettabile. Quello che sta succedendo qui è ingiusto. Quello che sta succedendo qui è iniquo». «Questo testo…sta affondando la scialuppa di salvataggio dell’umanità…è una sentenza di morte per (molte) comunità».

Tra 26 anni, forse…

Ora, qual è il Sultan Al Jaber cui bisogna credere? Qual è il calcolo che sta dietro la definizione del 2050 come termine ultimo per l’emissione di gas serra?

Qualcuno ha commentato che il 2050 è così lontano che è difficile prevedere come sarà allora l’assetto mondiale. Qualcun altro ha osservato che, secondo gli esperti, le riserve fossili ora conosciute dovrebbero esaurirsi intorno al 2060. Dunque ci sarebbe tutto il tempo per estrarle e utilizzarle quasi tutte.

Altri hanno notato che il testo del documento finale è non solo diplomaticamente soft – “avviarsi alla transizione” piuttosto che “mettere fine” all’emissione di gas serra – ma non è neppure sufficientemente preciso sulle modalità per arrivarci.

Secondo l’economista ed esperto ambientalista Jeffrey Sachs «si doveva chiedere con maggior rigore ai paesi, almeno a quelli più “colpevoli”, innanzitutto una quantificazione esatta delle emissioni attuali – non dimentichiamo che globalmente c’erano 26 miliardi di tonnellate di CO2 nell’atmosfera vent’anni fa e ce ne sono 37 miliardi oggi – e poi un programma più dettagliato di rientro».

Loss & Damage Fund, scatola semivuota

Stessi ragionamenti critici si possono fare per il Fondo per le perdite e i danni, istituito l’anno scorso, durante i lavori della COP27, e mai diventato operativo.

Quest’anno COP28 ha deciso che lo gestirà la Banca Mondiale, almeno nei prossimi quattro anni, e dunque si potrà cominciare a lavorare. Finora sono stati promessi poco più di 770 milioni di dollari, una percentuale minima dei 400 miliardi di dollari stimati come necessari annualmente per far fronte ai bisogni che investono soprattutto i paesi del Sud del mondo, e dell’Africa in particolare, che emettono gas serra in percentuale minima.

Gli Stati Uniti, che ne emettono da soli il 25% del totale, si sono impegnati, per ora, per la somma ridicola di 17,5 milioni. Ha fatto molto meglio perfino l’Italia che ne ha promessi 100; vedremo quando e come li stanzierà e su quali voci di biliancio graveranno, ma almeno ha segnalato di aver capito il problema.

Occorrono finanziamenti adeguati non solo per far fronte alle perdite e ai danni, ma anche per misure di adattamento ai cambiamenti climatici e per la transizione alle energie pulite. I negoziati sono stati incessanti ma i risultati sono stati scarsi.

Il gruppo dei negoziatori africani (African Group of Negotiators – AGN) hanno dichiarato che i finanziamenti per l’adattamento sono “un problema chiave per l’Africa” e hanno sottolineato che “un risultato riguardante il Global Goal on Adaptation (GGA) è stata la loro richiesta principale”.

Collins Nzovu, ministro dell’economia verde e dell’ambiente dello Zambia e presedinte del AGN, ha detto: «Se vogliamo seriamente salvare vite, attivita economiche e proteggere ecosistemi, allora il quadro di riferimento per l’adattamento deve essere ambizioso, avere obiettivi con tempi vincolanti e chiari mezzi di supporto alla realizzazione».

Mithika Mwenda, direttore esecutivo dell’organizzazione Pan African Climate Justice Alliance (PACJA) osserva che «le promesse sulle perdite e i danni che sono arrivate nella cerimonia di apertura (delle conferenza, ndr) sono state fatte per spazzar via il problema dai negoziati».

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