
Sono passati 9 anni dal giorno in cui il Sud Sudan è diventato il 54° paese del continente africano, affermando la propria indipendenza dal Sudan dopo oltre mezzo secolo di guerre civili inframmezzate da brevissimi, e instabili, periodi di pace.
Era il 9 luglio 2011 e Juba era affollata all’inverosimile da sudsudanesi e da vecchi e nuovi amici, sostenitori del loro diritto all’autodeterminazione o impegnati nel supporto allo sviluppo umano, sociale ed economico del paese. Provenivano da ogni angolo del mondo per assistere a quel momento tanto atteso, in cui si faceva la storia.
Il nuovo governo
L’ebbrezza è durata pochi mesi. Poi il paese è lentamente scivolato in una nuova gravissima crisi, esplosa alla metà di dicembre del 2013, con lo scoppio di un’altra devastante guerra civile, questa volta tutta interna alla leadership sudusdanese. Il conflitto, che ha portato il paese molto vicino al collasso, è ufficialmente finito il 22 febbraio scorso, con la formazione del governo transitorio di unitá nazionale (Transitional Government of National Unity, TGoNU).
Si tratta di un governo nato sotto le enormi pressioni dei leader regionali e della comunità internazionale, così come gli accordi di pace che lo hanno preceduto. Il primo, dell’agosto 2015, accettato dai due contendente con molte riserve, è durato fino allo scoppio della seconda fase della guerra civile, nel luglio del 2016. L’ultimo, firmato ad Addis Abeba il 12 settembre del 2018, è stato mediato dal Sudan durante gli ultimi mesi del regime islamista di Khartoum. Omar al Bashir, il presidente allora in carica, fece capire, con una strizzata d’occhio, di essere l’unico a poter portare a casa l’accordo perché sapeva molto bene come “trattare” i sudsudanesi.
La nuova pace
La nuova firma sull’accordo di pace – la base per le trattative è stato il documento del 2015 – conosciuto come Revitalized Agreement on the Risolution of the Conflict in South Sudan.2018 (R-ARCSS.2018) – è stata commentata con positiva prudenza dai politici e con parecchio scetticismo dagli esperti. Cosí come la nascita del governo provvisorio di unità nazionale.
In una tavola rotonda di approfondimento trasmessa da Al Jazeera a ridosso del lungamente atteso insediamento del nuovo governo – piú di cinque mesi dopo la firma del R-ARCSS.2018 –, Jok Madut Jok, noto intellettuale sudsudanese, fondatore dell’Istituto di ricerca Suud Institute con sede a Juba, ha affermato che l’accordo di pace non era un passo avanti per il paese. Tra i problemi rimasti aperti ha nominato le questioni relative alla sicurezza, quali la formazione dell’esercito nazionale con l’integrazione delle diverse milizie di opposizione, come base necessaria per la trasformazione politica. La questione è ancora ben lontana dall’essere risolta. Un numero limitato di uomini, sia dell’esercito governativo sia di quelli dell’opposizione, sono affluiti nei campi comuni. Ma molti li hanno giá abbandonati, si dice a causa della mancanza di rifornimenti adeguati. L’opposizione accusa il governo di aver affamato di proposito i militari nei campi per l’integrazione. Il governo risponde che tutto il processo di transizione non ha ricevuto finanziamenti adeguati.
La corruzione
Alan Boswell, esperto per il Sud Sudan dell’International Crisis Group, nella stessa tavola rotonda ha osservato che la diffusissima corruzione, messa in luce in innumerevoli rapporti indipendenti, rimane un grosso problema, anche per assicurarsi ulteriori finanziamenti dalla comunitá internazionale.
Nelle settimane scorse siti locali hanno fatto circolare notizie allarmanti su militari che abbandonavano i campi di accantonamento con le armi che avevano in dotazione. La notizia è stata subito smentita da dichiarazioni ufficiali, ma la buona volontá di tener fede al cessate il fuoco concordato nell’accordo di pace è messa in dubbio da diverse parti. Nyagoah Tut Pur, avvocato sudsudanese, ricercatrice per Human Rights Watch, nella tavola rotonda citata ha affermato che sia l’esercito nazionale sia le forze di opposizione stanno ancora reclutando. E altre fonti parlano addirittura di nuovi reclutamenti tra i minorenni.
Tra le debolezze di questo periodo di transizione, Nyagoah cita l’enfasi sulla divisione dei poteri, cioè sulla spartizione dei posti di potere, a scapito di tutti gli altri punti contenuti nell’accordo di pace. Il più negletto, a suo parere, è il quinto capitolo, in cui si parla di giustizia, responsabilità e riconciliazione. Sembra finito nel dimenticatoio, ad esempio, il tribunale ibrido – metà giudici sudsudanesi, metà stranieri – che dovrebbe chiarire le responsabilitá e punire i responsabili dei gravissimi crimini commessi nei quasi 6 anni di guerra civile.
Con la formazione del governo provvisorio tutto sembra tornato a prima dello scoppio del conflitto, anzi per certi aspetti la situazione è addirittura peggiorata. La compagine di presidenza è formata addirittura da 6 persone, il presidente e 5 vicepresidenti. Tutti ben noti per le loro responsabilitá nella crisi del paese. Il parlamento è stato gonfiato a dismisura aggiungendo ai parlamentari di nomina governativa quelli dell’opposizione. I ministri e i sottosegretari sembrano essere stati nominati in base ad un complicatissimo “manuale Cencelli” che ha tenuto conto dell’appartenenza etnica e clanica oltre che politica. Malcontento sta suscitando anche la nomina dei governatori dei 10 stati federali.
Il silenzio del governo
Un’analisi di Jok Madut Jok sulla situazione del paese dopo nove anni di indipendenza, pubblicata sul Daily Nation – il piú diffuso giornale del Kenya – il 2 luglio porta il titolo: Un presidente e cinque vicepresidenti, ma il Sud Sudan è ancora alla disperata ricerca di una leadership. L’autore afferma che «una volta che la presidenza e il governo si sono insediati, la gente ha rivolto l’attenzione alle cause piú immediate delle proprie sofferenze: la spaventosa insicurezza in ogni parte del paese, la catastrofica situazione economica che il governo ha sempre attribuito alla guerra, lo stato deplorevole della sicurezza umana, in particolare per la disastrosa insicurezza alimentare, lo stato del servizi sanitari che sono schizzati al primo posto delle priorità per ogni cittadino quando la pandemia del Covid-19 ha fatto la sua comparsa nel paese alla fine di marzo». Di fronte a tutto questo, il governo è stato capace solo di un «assordante silenzio».
Nonostante tutto, conclude l’autore, «mi sembra che molta gente continui a essere fiduciosa (…) e continui a credere in questa brutta pace piuttosto che in una pace vera che potrebbe essere irraggiungibile». Almeno per il momento.