Rivolta afrobeat. Nel nome del popolo, socialista e panafricana. E di padre in figlio. Da Fela Kuti, popstar leggenda Seventies in lotta contro i generali corrotti della Nigeria (il suo club-tempio Afrika Shrine fu raso al suolo dai militari), il testimone passa al figlio Seun.
È lui il rifondatore del Movement of the People (MoP), partito anti-dittatori che si era battuto pure contro Muhammadu Buhari, ufficiale-golpista negli anni ’80, tornato al potere nel 2015 da presidente eletto. Con Nigrizia, in videocollegamento, sassofono al fianco, Seun dice di un progetto politico e pure filosofico. O quantomeno ad alto tasso ideologico: è da lì, assicura questo musicista nato a Lagos 38 anni fa, già candidato ai Grammy Awards, che bisogna ripartire per salvare l’Africa.
Da qualche mese, gli animatori di Movement of the People stanno battendo la Nigeria in lungo e in largo perché per presentarsi alle elezioni, nel 2023, ci vogliono candidati e liste in ognuno dei 36 Stati della federazione. L’idea è che, però, non ci si debba né ci si possa fermare ai confini nazionali. Dare una scossa, chiuderla con Buhari, e mandare un messaggio al resto del continente: lo schema sarebbe questo. Non è forse un caso che tutto sia cominciato a Lagos, la prima megalopoli a sud del Sahara.
È il 20 ottobre 2020: da giorni ragazzi e ragazze sono in strada per denunciare le violenze e gli abusi della polizia, in particolare dei reparti della Special Anti-Robbery Squad (Sars). Raid arbitrari e botte, poi ancora ricatti e minacce, finché i malcapitati non inviano i soldi dagli smartphone seduta stante. Quel giorno, il 20 ottobre, a centinaia sono seduti al casello stradale di Lekki.
È l’ora del tramonto quando arrivano le prime raffiche di colpi. Dai video diffusi sui social network non si capisce chi sia il primo ad aprire il fuoco. I ragazzi si mettono le mani sulla testa, hanno come un sussulto. Polizia e militari li circondano ma adesso negano: i morti sono almeno 12, secondo fonti indipendenti molti di più. «Quella sera un tipo si è presentato a casa mia» racconta ora Kuti, avvitandosi per mostrare il fianco: «Aveva una ferita da arma da fuoco qui dietro».
La prima volta del Movement of the People era stata nel 1979. Fela sfidò il presidente, gli arresti e la repressione dei militari. Aveva troppo talento e per il governo era pericoloso: non stava dentro gli schemi e non rispettava i confini, né tra la musica e la politica, né tra la Nigeria e il mondo. Seun ha perso il padre, ucciso dall’aids, quando aveva 14 anni. Ha però fatto in tempo a suonarci insieme, nella sua ultima band, gli Egypt 80, che oggi continua a portare in giro nei club.
Anche per il rifondatore del Movement of the People, Nigeria e Africa sono una cosa sola. Con Nigrizia parla dal saccheggio delle risorse naturali, dell’emorragia delle «menti migliori» e di «una narrativa neo-schiavista che a specchietti e bottiglie di gin ha sostituito jet privati e viaggi a Dubai».
L’alternativa possibile sarebbe un’internazionale panafricana e socialista, che si prenda cura della casa comune. «Dobbiamo cominciare a cambiare sistema di valori e a proteggere l’ambiente» sentenzia Seun. «Il punto è il rapporto tra gli esseri umani e la natura, perché di pianeti ne abbiamo uno solo».
Per ripartire, magari ricostruendo meglio, “Build Back Better” lo slogan negli Stati Uniti di Joe Biden, bisognerebbe investire. Ma attenzione: non si tratta di numeri e di Pil. Contano la consapevolezza e le opportunità. «Dobbiamo cambiare narrativa» riprende Seun. «Per ragioni economiche i migliori africani continuano ad andarsene: è ora che liberino il loro potenziale lì dove sono nati, nei paesi d’origine».
Ma il nuovo partito chi rappresenta? Nessuno in particolare, anzi tutti, vagheggia Seun. «La maggioranza degli africani che lavorano» è la prima risposta. Poi, ancora, «i professionisti» e «i poveri manipolati dai discendenti degli schiavisti». Come in un cerchio si torna al punto di partenza, alle bottigliette di gin e a Dubai.
Il Movement of the People ce la può fare da solo? «Abbiamo degli alleati» dice Seun, abbozzando un elenco: da Bobi Wine, il rapper “presidente del ghetto” in lotta contro la gerontocrazia ugandese, fino agli Economic Freedom Fighters (Eff) di Julius Malema, un altro figlio del ghetto, amante degli orologi Breitling, populista doc, che in Sudafrica critica il partito che fu di Nelson Mandela chiedendo nazionalizzazioni di terre e miniere. Non importa chi, non importa come, purché sia potere al popolo.
E qui una domanda riguarda pure Twitter, entrato in rotta di collisione con Buhari. La storia è nota: bannato Donald Trump e zittiti di tanto in tanto Nicolas Maduro e Jair Bolsonaro, a giugno il social americano se l’è presa pure con il presidente nigeriano. In un tweet Buhari aveva citato il conflitto civile del Biafra, che combatté da maggiore dell’esercito, minacciando di usare nei confronti di “coloro che si comportano male” oggi, “un linguaggio che comprenderanno”.
Ce l’aveva con l’Eastern Security Network e altri gruppi secessionisti coinvolti negli scioperi, nelle proteste e negli agguati degli ultimi tempi nel sud-est della Nigeria, la stessa area della fu Repubblica del Biafra, dove tra il 1967 e il 1970 offensive militari e blocco alimentare causarono oltre un milione di morti. Secondo un portavoce di Twitter, il post “violava le norme” fissate dal social.
Il governo di Buhari ha protestato un denunciando un “doppio standard” a vantaggio di chi vuole il caos: “Twitter può avere le sue regole ma non sono regole universali”. Ecco, almeno una volta, i Kuti stanno un po’ pure con i generali. «Ѐ sbagliato trattare così un presidente», borbotta Seun, «ma è anche vero che mettere al bando Twitter non è la soluzione».