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Etiopia Politica e Società
Etiopia, elezioni nel Tigray
Un voto destabilizzante
Come previsto, il Fronte popolare per la liberazione del Tigray ha stravinto le elezioni regionali, dichiarate illegali dal governo centrale. Una sfida che evidenzia la fragilità dell’esecutivo del primo ministro Abiy Ahmed e che rischia di compromettere l'integrità del paese. Dalla capitale il commento di p. Giuseppe Cavallini
14 Settembre 2020
Articolo di Bruna Sironi (da Nairobi, Kenya)
Tempo di lettura 7 minuti
Etiopia, elezioni in Tigray
Elezioni nella regione del Tigray (Credit: Addis Standard via Twitter)

Mercoledì 9 settembre nel Tigray, uno degli stati della federazione etiopica – Federal democratic republic of Ethiopia è il nome ufficiale del paese – si sono svolte le elezioni. Secondo le notizie ufficiali, le operazioni di voto si sono svolte regolarmente. Le foto diffuse dai mass media tigrini mostrano lunghe code di votanti – giovani insieme a veterani della guerra di liberazione dal regime comunista del Derg e molte donne – davanti ai seggi fin dalle prime ore del mattino.

Nei giorni precedenti, le autorità di Addis Abeba avevano impedito a diversi giornalisti indipendenti di raggiungere la regione e dunque poche sono le notizie non ufficiali filtrate per ora. In palio 152 seggi dell’assemblea regionale che ne ha 190. Gli altri 38 sono riservati a membri nominati.

Secondo Muluwork Kidanemariam, della commissione elettorale regionale, si è recato alle urne tra il 97 e il 98% degli oltre 2,6 milioni di elettori registrati. Il Tplf (Fronte popolare per la liberazione del Tigray), per molti anni partito unico nella regione, si è aggiudicato tutti i 152 seggi del parlamento regionale.

Si è trattato di elezioni pluripartitiche, in cui il Tplf si è misurato con altre formazioni, tra le quali il Partito della prosperità (Prosperity party, nato per volontà dell’attuale primo ministro, Abiy Ahmed, dalla fusione di 3 dei 4 partiti regionali che hanno formato per un oltre un ventennio la coalizione del governo centrale; l’unico a non essere confluito nel nuovo partito nazionale è proprio il Tplf) e un’altra recente formazione, il Partito per l’indipendenza del Tigray (Tigray indipendence party).

Secondo Muluwork Kidanemariam, i partiti di minoranza potrebbero vedersi cooptati nel parlamento regionale con la nomina di alcuni dei loro membri nei 38 seggi ancora non assegnati. 

Il risultato elettorale, per altro largamente previsto, potrebbe mettere in gioco l’integrità dell’Etiopia stessa. Per Abraha Desta, presidente del piccolo partito di opposizione Arena Tigray (Arena Tigray for democracy and sovregnity), “dopo le elezioni, il Tigray è ufficialmente diventato uno stato [indipendente, ndr] di fatto”. La costituzione etiopica vigente, da diversi osservatori considerata tra le cause dell’attuale instabilità del paese, prevede in effetti il diritto di autoderminazione, fino alla secessione.

E’ di questo avviso anche padre Giuseppe Cavallini, missionario comboniano con una decennale conoscenza del paese, in cui vive tutt’ora.

Elezioni “illegali” per Addis Abeba
Ma queste elezioni, che sulla carta avrebbero tutti i crismi della legalità (tranne forse il risultato, troppo “bulgaro” per essere davvero credibile), sono invece incostituzionali secondo quanto dichiarato a ridosso del voto stesso dalla Camera Alta del parlamento federale, cui compete il diritto-dovere di dirimere le diatribe tra il potere centrale e quelli regionali.

E sono ritenute un’aperta sfida al governo di Addis Abeba, cui è stato fatto sapere che ogni interferenza sarebbe stata interpretata come un “atto di guerra”. Il Tigray ha infatti deciso di non dar seguito alla decisione del parlamento federale di posporre la tornata elettorale.

Il 29 agosto, infatti, tutti i cittadini dell’Etiopia avrebbero dovuto andare alle urne alla normale scadenza quinquennale per eleggere il nuovo parlamento nazionale, quelli degli stati federali e le assemblee degli enti locali. Un turno elettorale attesissimo che avrebbe dovuto confermare, o no, il nuovo corso impresso al paese, tra mille difficoltà e contraddizioni, dal primo ministro Abiy Ahmed. 

Ma il parlamento ha deciso di spostare il voto a causa della pandemia da Covid-19 che in quel momento imperversava in altre parti del mondo e cominciava a mietere vittime anche in Africa. Ora l’Etiopia è il quarto paese del continente per numero di positivi confermati (64.301) e il sesto per numero di morti (1031), secondo i dati ufficiali (13 settembre).

Tali cifre sono generalmente ritenute solo indicative a causa della fragilità dei sistemi sanitari del paesi africani e delle difficoltà di monitoraggio e comunicazione. Ma di certo segnalano la dimensione del problema.

L’opposizione, però, ha ritenuto che la pandemia non fosse altro che un’utile scusa per prolungare illegittimamente il potere del governo, e del primo ministro, alle prese con una grave crisi politica interna e al centro di tensioni regionali. 

Tensioni etnico-politiche

Instabilità e conflitti locali hanno caratterizzato il paese negli ultimi anni e hanno provocato le dimissioni del primo ministro precedente, Hailé Mariam Desalegn. Ma la situazione non è migliorata neppure con la nomina di Abiy Ahmed che partiva con un vantaggio oggettivo: appartenere all’etnia di maggioranza relativa, gli Oromo, da sempre esclusa dal potere nella storia contemporanea del paese e le cui proteste avevano provocato il ribaltone nel governo.

Proprio gli Oromo sono, invece, i protagonisti dell’ultima gravissima crisi interna, provocata dall’omicidio di Hachalu Hundessa, un cantante Oromo ritenuto il simbolo della lotta della sua gente per i diritti umani e civili.

Al diffondersi della notizia, centinaia di migliaia di persone sono scese nelle strade non solo nella regione Oromo ma anche in altre parti del paese. La dura repressione ha provocato centinaia di morti, l’arresto di circa 9mila dimostranti ed oppositori politici e l’interruzione dei servizi internet, ripristinati solo diverse settimane più tardi.

Hachalu Hundessa è stato assassinato il 29 giugno scorso in una zona residenziale di Addis Abeba per motivi ancora non chiariti. Varie le ipotesi, tutte significative della difficile situazione interna e regionale del paese. Nelle prime dichiarazioni sul caso, Abiy Ahmed ha velatamente accusato agenti esterni di puntare alla destabilizzazione del paese, provocando la dura reazione egiziana che ha immediatamente negato qualsiasi coinvolgimento nel crimine.

Equilibri regionali in bilico

Interessante però la dinamica, che segnala una tensione altissima tra i due paesi a causa dei finora mancati accordi sul riempimento del bacino della Gerd, la Grande diga della rinascita etiopica, e sulla gestione futura del flusso dell’acqua del Nilo Blu, l’85% dell’acqua del Nilo che costituisce la quasi totalità delle risorse idriche egiziane.

Segnali di una crisi che monta sono anche i tentavi dell’Egitto di stringere alleanze, anche militari, con i paesi confinanti con l’Etiopia. Nei giorni scorsi una delegazione egiziana ha promesso al governo del Sud Sudan investimenti rilevanti per lo sviluppo delle risorse idriche del paese. Non si può non sospettare che ci sia una contropartita e non si può non ricordare la notizia di una ventilata base militare egiziana in territorio sud sudanese, nei pressi del confine etiopico.

La voce, diffusasi recentemente, è stata subito smentita dal governo di Juba, ma si sa che certe smentite sono quasi sempre più dovute che veritiere. D’altra parte, l’Egitto ha recentemente approcciato anche il governo del Somaliland, pure confinante con l’Etiopia, per l’installazione di una sua base militare.

L’altra ipotesi sull’assassinio di Hachalu Hundessa dice che ne sarebbero responsabili proprio ambienti dell’opposizione, in particolare quella tigrina, che mirano a far saltare i fragili equilibri, e l’immagine internazionale, dell’attuale governo federale.

Il Tplf, che per oltre un ventennio è stato il vero centro del potere politico, militare e finanziario del paese, è stato gradualmente ridimensionato – diversi osservatori dicono addirittura emarginato – dall’attuale primo ministro. In un tale contesto, non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di un braccio di ferro su una questione tanto delicata e simbolica come le elezioni.

Ma se davvero la sua schiacciante vittoria elettorale dovesse mettere in moto il processo per l’autodeterminazione del Tigray, gravi potrebbero essere le conseguenze, non solo sugli assetti dell’intero paese ma anche sulle relazioni regionali. Un’Etiopia indebolita internamente sarebbe meno forte anche nei negoziati, attauli e futuri, sulla gestione delle acque del Nilo e cederebbe all’Egitto parte della sua influenza sui paesi confinanti.

Infine, l’Eritrea non starebbe a guardare la nascita di un Tigray sganciato da Addis Abeba, avendolo da tempo identificato come il suo vero antagonista nella compagine etiopica e nell’intera regione. Dunque, una zona del mondo già caratterizzata da endemica instabilità, potrebbe diventare ancora più problematica.

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