20 anni di accoglienza diffusa. La virtù di un modello cui lo Stato non crede
Migrazioni
Tavolo asilo e immigrazione / Lo studio e una proposta di riforma del sistema
20 anni di accoglienza diffusa. La virtù di un modello cui lo stato non crede
23 Giugno 2022
Articolo di Jessica Cugini
Tempo di lettura 5 minuti
Centro di accoglienza a Napoli (Credit: Openpolis)

Vent’anni di Sprar, il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Un modello di accoglienza diffusa e integrata per alcuni, un’esperienza da affossare per altri. Di certo, quello che oggi chiamiamo Sai, è un sistema dall’approccio innovativo in Italia, capace di mettere insieme il rispetto dei diritti delle persone migranti con l’idea di un’accoglienza capillare sul territorio, che facilita processi di inclusione tra chi è coinvolto, tra coloro che arrivano e coloro che risiedono nelle realtà; tra chi è accolto e chi accoglie.

Alla luce di questi venti anni, il Tavolo asilo e immigrazione nazionale ha voluto non solo tracciare la storia di questa esperienza, delineandone luci e ombre, ma anche, forte di uno studio che ascolta e mette al centro chi lavora in questo sistema, presentare una proposta di riforma dell’organizzazione e gestione della rete di accoglienza pubblica.

Sono passati vent’anni dalla legge 189 del 2002, più nota come Bossi-Fini. Quella la norma che istituì gli Sprar, facendo così evolvere in modo organico e istituzionale il Programma nazionale asilo (Pna), creando un servizio centrale che veniva affidato in carico ai comuni, o meglio all’Anci, l’associazione nazionale che li tiene insieme e che proprio qualche giorno fa ha presentato il suo di bilancio su questo sistema.

Una norma che vede il suo vero anno di svolta nel 2005, quando l’Italia recepisce, con un decreto, la direttiva europea che stabilisce le linee minime in tema di accoglienza e, in qualche modo, sceglie di privilegiare non tanto il sistema dell’accoglienza diffusa, quanto un modello che il Tavolo definisce binario e confuso, in cui condividono due sistemi diversi e difformi nella impostazione e standard di accoglienza: lo Sprar e i Centri collettivi a gestione governativa, tramite le prefetture. Quelli che oggi chiamiamo Cas, Centri di accoglienza straordinaria, che, stando ai numeri, sono prassi più che straordinarietà.

E questo ha fatto sì che la radiografia su Sprar/Sai metta in luce “un sistema che ancora non c’è”, un’accoglienza “isolata, rassegnata, che va avanti con le sole proprie forze”. Perché l’approccio dei governi è sempre stato non lungimirante e programmatico ma emergenziale. È proprio questo approccio binario e mai veramente pianificato, in cui il sistema di accoglienza diffusa è stato lasciato alla volontaria adesione da parte dei comuni, a non permettere il decollo di un modello virtuoso. A far sì che l’esperienza avesse un passo lento e diseguale.

La voce dell’accoglienza

A metterlo in evidenza sono le risposte delle 112 operatrici e operatori sentite dal Tavolo attraverso la proposta di 61 domande. Persone che rappresentano l’esperienza di 19 regioni su 20 totali, 72 province o città metropolitane su 107 (67%) attivi su 78 diversi comuni; di 112 diversi progetti territoriali di accoglienza e di 104 organizzazioni di terzo settore.

Sono loro a sottolineare con consapevolezza la scarsa legittimazione politica e istituzionale, lo scarso investimento culturale ed economico e la residualità di questo tipo di accoglienza diffusa “rispetto al modello emergenziale dei grandi centri e servizi di mero albergaggio”. Sottolineando come l’eccessiva burocratizzazione del sistema sia stato non solo un problema ma un fattore che ha inibito sia l’innovazione che la territorializzazione dell’esperienza.

Nonostante gli scarsi investimenti statali sui servizi di accoglienza diffusa, le persone che vi operavano e vi operano hanno fatto sì che questi funzionassero e fossero efficaci. Ecco perché la sottolineatura di un sistema isolato e a volte rassegnato, che si reggeva quasi esclusivamente sulle forze della volontà di chi credeva che fosse quello il modello capace di tracciare la differenza rispetto all’accoglienza delle persone migranti.  

«I progetti – affermano coloro che vi lavorano – funzionano, nonostante tutto e tutti. E funzionano perché sono individualizzati, sartoriali, diversi uno dall’altro. Perché le azioni sono bene pensate dall’equipe, gli operatori sono professionali e capaci di gestire persone e risorse, di muoversi tra mille ostacoli della burocrazia».

Proposta del Tavolo

Alla luce della storia e della ricerca, il Tavolo conclude il suo documento con delle proposte di riforma del sistema. Innanzitutto far cessare la volontarietà dei comuni e attuare il trasferimento delle funzioni amministrative a questi enti, per la gestione ordinaria dell’accoglienza territoriale, in modo che si possa trasformare il modello Sai in un sistema unico di riferimento.

I Cas hanno fallito e non garantiscono i diritti delle persone migranti, occorre fermare la loro proliferazione e smantellare il modello. A favore di una «programmazione ordinaria degli interventi di accoglienza, effettuata secondo quote regionali di posti ordinari ripartiti tra ogni regione in proporzione alla popolazione residente. Solo così l’accoglienza potrà essere reale e diffusa.

Là dove esistono i Cas devono garantire standard adeguati e uniformi, e comunque favorire il loro assorbimento nel sistema ordinario di accoglienza, meglio ancora se in esperienze famigliari, già riconosciuto valore territoriale di diverse esperienze già in atto. Sono infatti diversi e importanti i comuni (Roma, Ravenna, Padova, Bergamo, Bari) che hanno già promosso questo tipo di iniziative. Un esempio virtuoso è l’Albo delle famiglie accoglienti.

L’accoglienza diffusa si può rendere reale se si mette insieme l’intero territorio, non solo gli enti ma anche le singole persone. Il sistema Sprar/Sai già lo racconta, allo stato crederci per davvero.

 

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