Algeria: «Stampa attaccata e in carcere, ma da chi resiste tanta speranza» - Nigrizia
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Nigrizia ha intervistato il cronista Mustapha Bendjama, liberato dopo 15 mesi di carcere
Algeria: «Stampa attaccata e in carcere, ma da chi resiste tanta speranza»
Il giornalista era stato arrestato con varie accuse. Fra queste, «ricezione di finanziamenti esteri»
02 Maggio 2024
Articolo di Nadia Addezio
Tempo di lettura 5 minuti
Una foto di Mustapha Bendjama pubblicata dall'emittente algerina Radio M

Il 18 aprile, il giornalista algerino Mustapha Bendjama ha lasciato il carcere di Boussouf, nella città di Costantina, dopo aver trascorso in detenzione 15 mesi. Nigrizia ha seguito fin dal principio il caso del già caporedattore del quotidiano Le Provincial, analogo a quello di giornalisti, attiviste e attivisti, accusati di minacciare la sicurezza dello Stato per aver svolto il loro lavoro e/o espresso il loro dissenso. A tal proposito, durante il mese di Ramadan – conclusosi il 9 aprile – è stata lanciata una campagna di informazione per rendere manifesta a livello nazionale e internazionale la loro detenzione arbitraria. In occasione del ritorno alla libertà, abbiamo intervistato Bendjama per conoscere la sua versione dei fatti.

A febbraio 2023, lei è stato incarcerato con le accuse di ricezione di finanziamenti esteri, diffusione di informazioni segrete e d’essere implicato nell’affaire Amira Bouraoui. Ci racconti com’è andata…

L’8 febbraio 2023 sono stato arrestato nel mio ufficio, presso la redazione di Le Provincial, dalla Brigade de recherche et d’intervention della Gendarmerie per indagare sulla fuga di Amira Bouraoui. Non ero coinvolto nella vicenda, non sapevo che lei stesse per lasciare il territorio nazionale in modo legale o illegale, non avevo sue notizie dal momento che non la sentivo da un mese. Le cose sono peggiorate quando la Brigade è entrata in possesso del mio telefono e ha trovato i contatti di giornalisti stranieri. A quel punto, sono stato presentato prima davanti al pubblico ministero e poi al gip. Sono stati aperti, così, due fascicoli: un fascicolo speciale per il caso Amira Bouraoui, per il quale anche se fossi stato colpevole delle accuse a mio carico, non correvo il rischio di passare del tempo in prigione; un secondo, dove mi hanno accusato di ricevere fondi dall’estero e di aver fatto trapelare documenti segreti sui social network, al fine di danneggiare degli enti pubblici. Mi hanno accusato di affiliazione a gruppi terroristici, di spionaggio per conto di potenze straniere. Tutto questo sulla base di messaggi scambiati tra me e giornalisti o leader di ong. Sebbene per la legge algerina non vi sia nulla di illegale in attività di questo tipo, secondo la loro visione tutto questo è da considerarsi “spionaggio”.

Può darci qualche dettaglio in più?

In particolare, cos’è accaduto: hanno usato la piattaforma di traduzione di Google per tradurre 54 articoli che ho scritto per Global Integrity, un’organizzazione statunitense che collabora con ricercatori e giornalisti locali per tracciare le tendenze in materia di governance e corruzione in tutto il mondo. Hanno interpretato la parola “indicatori”, in arabo “mouasher”, utilizzata come “strumenti di valutazione” di democrazia, come “informatore” – “indicateur” nel linguaggio colloquiale della polizia e dell’intelligence è usato per intendere chi fornisce informazioni ai servizi segreti – e “spia”. Di conseguenza, erano convinti che avessi 117 spie sotto la mia supervisione per danneggiare l’Algeria. Hanno messo in piedi un intero dossier sulla base di ciò. Mi sono ritrovato, così, a essere una vittima collaterale non dell’affare Amira Bouraoui, ma della traduzione di Google.

Come ha vissuto i quasi 15 mesi di reclusione?

È stato un po’ duro specialmente all’inizio, perché temevo che mi avrebbero dato un minimo di 12 o 20 anni di prigione. Dopodiché, è stato soprattutto noioso. Data la condizione dei giornalisti, sapevo benissimo che un giorno o l’altro sarei finito in prigione. L’ho evitato per diversi casi. Tuttavia, hanno trovato l’occasione per rinchiudermi, e ovviamente si è trattato di un pretesto. Penso che il mio lavoro – che, evidentemente, svolgo bene – dia fastidio.

 Mi ha detto di essere attualmente disoccupato. Perché non lavora più con Le Provincial?

Perché tecnicamente e legalmente hanno il diritto di licenziarmi dal momento che sono stato assente senza giustificazione per 15 mesi. Se fossi stato rilasciato, avrei potuto giustificare la mia assenza con il fatto di essere stato in prigione, ma agli occhi della legge ero colpevole.

Come cambierà la sua professione dopo questa esperienza?

Non so nemmeno quando potrò tornare a fare il giornalista dato che in questi mesi è stata messa tutta la stampa nazionale sotto i riflettori, è stata preclusa una certa indipendenza a quei media che rifiutavano di stare al gioco del sistema. Per tornare a fare il giornalista, dovrei trovare un altro media che voglia assumermi, e penso che sia impossibile perché nessuno vuole avere problemi con il potere algerino. Poi, c’è un’ulteriore questione: il finanziamento della stampa algerina avviene sulla base della pubblicità che è gestita dall’Agenzia nazionale dell’editoria e della pubblicità (Anep), la quale distribuisce gli introiti derivanti dalla pubblicità ai giornali cartacei e online, decidendo chi può ottenerla e chi no. Si tratta del miglior mezzo di pressione. Quando sono stato arrestato, Le Provincial è stato pesantemente sanzionato, venendo privato di pubblicità per diversi mesi. Ciò li ha spinti a “prendere un po’ le distanze” dal mio caso per salvare il giornale, anche se mi hanno dimostrato piena solidarietà.

Ha delle riflessioni da condividere?

Prima di essere imprigionato, avevo cominciato ad appassionarmi meno al mio lavoro, dal momento che riscontravo tanti problemi nell’esercizio libero della professione. Stavo evitando argomenti spinosi e “di oltrepassare i limiti”. Poi sono stato condannato. In carcere ho avuto modo di ricordare il “perché” del mio impegno nel giornalismo: non possiamo sopportare o assistere all’ingiustizia, e restare in silenzio. Ne sono uscito, quindi, più impegnato che mai e, se avrò l’opportunità, ancora più determinato. Ho conosciuto persone magnifiche, avvocati, veri difensori dei diritti umani, giornaliste e giornalisti che non hanno avuto paura di prendere una posizione. Nonostante i rischi che loro stessi correvano, hanno fatto di tutto per difendere me e gli altri detenuti d’opinione. Non potrò mai dimenticare tutto questo ed è qualcosa che mi dà speranza nell’Algeria e nel popolo algerino.

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