Etiopia, le debolezze di una “quasi pace” - Nigrizia
Armi, Conflitti e Terrorismo Editoriali Etiopia
L'editoriale di dicembre 2022
Etiopia, le debolezze di una “quasi pace”
05 Dicembre 2022
Articolo di Redazione
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Redwan Hussein (a sinistra), rappresentante del governo etiopico, e Getachew Reda (a destra), rappresentante del Fronte di liberazione del popolo tigrino, firmano l'accordo di pace a Pretoria, il 2 novembre in Sudafrica (Credit: Addis Standard)

Il cessate il fuoco nel conflitto tra Etiopia e Tigray, siglato in Sudafrica il 2 novembre e confermato in Kenya dieci giorni dopo, fa sperare in una definitiva conclusione della guerra che ha provocato morte, violenze e devastazione nella regione confinante con l’Eritrea e nelle aree limitrofe di Afar e Amhara.

Ancora una volta, in questi due lunghi anni, prima vittima della guerra è stata la verità. Ognuna delle parti in campo ha costruito il proprio muro di menzogne, e l’impossibilità di raccogliere informazioni dirette ha complicato il lavoro dei media e di tutti coloro che si sono prodigati ad aprire strade di dialogo.

Chiudere il 2022 con almeno la possibilità che una nazione dell’Africa torni alla pace nella congerie di conflitti che affliggono il continente, segnerebbe un notevole successo per l’Unione Africana rappresentata nelle trattative da Olusegun Obasanjo, ex presidente della Nigeria, oltre che per il primo ministro etiopico Abiy Ahmed.

Purtroppo, è complicato tradurre in fatti concreti le condizioni definite dall’accordo di pace e sottoscritte da Addis Abeba e dal Tigray. Finora l’unica condizione attuata è stata la ripresa degli aiuti umanitari verso la regione nel nord dell’Etiopia, dove la crisi alimentare e la mancanza di medicinali hanno portato a un quasi collasso umanitario.

Per il resto, sono ancora molte le incognite. Il disarmo, la smobilitazione e la reintegrazione dell’esercito tigrino in quello federale, da realizzarsi entro 30 giorni dalla firma del cessate il fuoco, secondo le dichiarazioni dei leader del Tplf (Fronte popolare di liberazione del Tigray), potranno avvenire solo una volta che le condizioni condivise sulla carta diverranno effettive.

A tale riguardo, nessuno può sapere se, come e quando il contingente militare eritreo si ritirerà dal Tigray: una clausola dell’accordo che non ha sortito finora alcun risultato, mentre Asmara ha finora mantenuto un assoluto silenzio.

Lo stesso accade nell’area del Tigray confinante con il Sudan, dove sono tuttora stanziate le milizie amhara che avevano conquistato il territorio considerandolo parte integrante dello stato regionale Amhara. Non si registra alcun segnale di ritiro di queste truppe verso la propria regione.

Nulla inoltre è finora successo riguardo alla condizione che il Tplf venga cancellato dalla lista di gruppi terroristi stilata dal governo di Addis Abeba. L’assenza di ogni consultazione con il governo eritreo, che ha internazionalizzato il conflitto schierando le sue truppe al fianco dell’esercito federale, e con i leader delle milizie delle regioni amhara e afar, pure a fianco di Addis Abeba e tuttora sul campo, rende certamente molto più difficile l’implementazione degli accordi di Pretoria e Nairobi.

Per rimuovere i tanti ostacoli sulla via di una pace effettiva e duratura sarebbe necessario che una delle parti in conflitto compisse un gesto forte. Riteniamo che il primo ministro dell’Etiopia, premio Nobel per la pace 2019, dovrebbe adoperarsi con fermezza per indurre l’esercito eritreo a fare un passo indietro. Da qui si potrà ripartire per un dialogo politico a tutto campo.


Guerra

La ragione del conflitto è chiara. La regione del Tigray non aveva accettato il rinvio delle elezioni generali, previste nell’agosto 2020, a causa del Covid-19, e il prolungamento quindi di un anno del mandato di Abiy Ahmed. La tensione era culminata, il 4 novembre, nella dichiarazione dello stato di emergenza da parte del governo federale. Poi, gli scontri.

 

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