Falasha, un popolo in cammino - Nigrizia
Etiopia Migrazioni
Il ricordo delle vittime del viaggio verso Israele
Falasha, un popolo in cammino
Le più alte cariche dello stato ebraico hanno reso omaggio ai 4mila etiopici ebrei morti nella seconda metà del secolo scorso nei campi profughi sudanesi e durante la traversata a piedi del deserto, nel tentativo di raggiungere Israele
31 Maggio 2022
Articolo di Giuseppe Cavallini
Tempo di lettura 4 minuti

Si è celebrata domenica scorsa, 29 maggio, sul monte Herzl, a Gerusalemme, la memoria degli ebrei etiopici morti nel viaggio (Aliyah) compiuto nell’ultima parte del secolo scorso per raggiungere Israele dall’Etiopia. Alla commemorazione hanno preso parte il primo ministro israeliano Naftali Bennett, il presidente Isaac Herzog e altri ufficiali governativi insieme a numerosi Kesim, leader religiosi etiopici ebrei e numerosi familiari delle 4mila persone che si ritiene siano morte lungo gli anni nei campi profughi del Sudan, dove si erano rifugiati a causa della fame, della guerra e della discriminazione in Etiopia, o durante i pericolosi viaggi compiuti a piedi per migliaia di chilometri per raggiungere Israele.

Molti di questi ebrei neri, chiamati falasha (straniero) ma che preferiscono definirsi beta Israel (Casa d’Israele) vennero evacuati clandestinamente verso Israele dal Sudan negli anni ’80 e ’90 in due fasi: l’Operazione Mosè (1984) e l’Operazione Salomone (1991), poste in atto dal governo di Tel Aviv attraverso i servizi segreti, in cooperazione con il governo sudanese e la Cia. Furono allora quasi 25mila le persone trasferite in aereo dal Sudan e dall’Etiopia verso Israele (nel secondo viaggio forse con la complicità interessata del regime dispotico di Menghistu Haile Mariam che avrebbe ricevuto un lauto compenso per farli fuggire).

Riferendosi a chi intraprese il lungo cammino nel deserto, il presidente Herzog ha dichiarato: «Ѐ difficile capire se prima di lasciare l’Etiopia i viandanti fossero consapevoli in merito a quanto il deserto avrebbe avuto in riserbo per loro, difficile che immaginassero i pericoli che avrebbero corso lungo i sentieri impervi che li conducevano verso il Sudan. Solo la loro grande fede e tenace determinazione compensò per l’incertezza del cammino. Hanno dato prova, così come voi tutti, del loro amore senza limiti per la Terra Santa e per lo stato d’Israele».

«Siamo consapevoli che – ha poi proseguito – pur col passare del tempo, il vostro dolore come loro familiari è tuttora bruciante e doloroso, e non esiste cura per esso». «Ricordiamo oggi il loro tragico destino – concludeva il presidente – ma vogliamo conservare viva la loro memoria: le loro storie, eroismo, inimmaginabile forza, retaggio culturale, senso d’appartenenza e identità ebraico-etiopica, che rappresenta una parte inseparabile e inclusiva dell’ethos israeliano e giudaico, una dimensione organica dell’organismo della nostra nazione».

Tra i presenti anche la prima donna etiopica ebrea entrata nel governo come ministra dell’immigrazione e dell’integrazione, Pnina Tamano-Shata, lei stessa una tra i viaggiatori dell’Operazione Mosè, che ha dichiarato: «Per intere generazioni i nostri antenati hanno sognato di tornare a casa in Israele; la comunità beta Israel non ha mai perso la speranza o la fiducia e non ha mai cessato di sognare che questo avvenisse».

L’origine dei beta Israel (come anche di altri gruppi di ebrei presenti nelle nazioni del Nordafrica) rimane avvolta nel mistero o nella leggenda. Tra le varie ipotesi proposte dagli studiosi, sarebbero i discendenti degli ebrei che seguirono Menelik I (figlio di re Salomone e della regina di Saba) quando questi rientrò in Etiopia dalla Palestina.

Secondo un’altra versione, discenderebbero da un gruppo di ebrei che, invece di seguire Mosè nel suo viaggio verso la Terra promessa, risalì il Nilo fino al Lago Tana. Alcuni studiosi sostengono, invece, che le loro origini risalgano alla tribù scomparsa di Dan; altri ancora, infine, ritengono che i loro antenati sarebbero etiopici cristiani tornati allo studio dell’Antico Testamento. Comunque sia, in Israele l’integrazione dei falasha si è mostrata molto difficile.

Le profonde differenze culturali hanno creato numerosi casi di emarginazione sociale e più volte Israele è stata accusata di trattare i beta Israel come cittadini di serie b. Si sono tra l’altro verificati negli anni numerosi casi di giovani ebrei etiopici che, non riuscendo a integrarsi, hanno commesso suicidio. Qualche tempo fa, in ogni caso, incontrando in Israele uno dei reduci dell’Operazione Mosè, mi comunicò che lui stesso e quasi tutti i beta Israel con cui è a contatto non sceglierebbero mai di tornare nel paese di provenienza.

 

 

 

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