L’Italia “fregata” dall’Egitto - Nigrizia
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Roma-Il Cairo: vendita di armi e assenza di giustizia
L’Italia “fregata” dall’Egitto
Mentre sta per salpare una delle due navi militari italiane Fremm acquistate per 1,2 miliardi di euro dal Cairo, ieri è arrivata la notizia che la Procura egiziana non considera soddisfacenti le prove dei magistrati italiani sulle responsabilità degli 007 egiziani nella morte di Giulio Regeni. La famiglia chiede il ritiro del nostro ambasciatore dalla capitale
01 Dicembre 2020
Articolo di Gianni Ballarini
Tempo di lettura 7 minuti
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I genitori di Giulio Regeni

La diplomazia resta, per natura, un’arte molto elastica. È tutto ciò che sta tra un rombo di cannone e un pourparler. E anche quando è un pourparler è spesso al servizio di un cannone. O di navi da guerra. Come nel caso delle due fregate Fremm (Fregate europee multi-missione) vendute dall’Italia all’Egitto per 1,2 miliardi di euro.

Vendita autorizzata dall’esecutivo il 7 agosto scorso. Quando la gente affollava le spiagge e i monti. E, infatti, la notizia è stata seppellita sotto gli ombrelloni. Eppure in primavera aveva provocato dei turbamenti.

Il 27 giugno la direzione del Pd aveva presentato una mozione nella quale si sosteneva che senza risposte vere sulla fine di Giulio Regeni (il ricercatore italiano rapito al Cairo il 25 gennaio 2016 e trovato morto in condizione pietose il 3 febbraio successivo lungo una strada che porta ad Alessandria d’Egitto) l’Italia non avrebbe ceduto armi all’Egitto. Mozione finita nel cestino più vicino.

Oggi torna di moda la vendita delle due fregate, abbinata alla presa in giro egiziana sul caso Regeni.

La prima nave, la Spartaco Schergat, (ribattezzata dagli egiziani al-Jalala, in onore di una delle montagne più famosa in Egitto) è pronta per salpare per Alessandria d’Egitto. È stata fotografata e pubblicata su twitter dall’analista militare Mahmoud Gamal. La seconda nave, l’Emilio Bianchi, salperà la prossima primavera.

E il servizio non prevede solo la cessione delle fregate. Per mesi almeno 200 militari egiziani sono stati ospitati a La Spezia per essere addestrati nell’utilizzo delle due navi.

Che rappresentano solo un anticipo di una commessa ben più sostanziosa, fra i 9 e gli 11 miliardi di euro, e che comprenderebbe altre 4 fregate, 20 imbarcazioni della categoria Falaj II per operazioni di pattugliamento, 24 jet Eurofighter Tycoon, 24 addestratori di jet M-346, elicotteri AW149 e un satellite militare. La quantità di velivoli e dispositivi, a detta di fonti egiziane, potrebbe aumentare.

Il Cairo, parco giochi delle aziende italiane

Già nell’ultima relazione governativa sull’import ed export di armi, l’Egitto è risultato il primo paese di destinazione delle nostre armi (872 milioni di euro). E solo all’azienda Leonardo (ex Finmeccanica) sono stati concessi, per quanto riguarda operazioni per la produzione e la vendita di sistemi militari all’Egitto, “finanziamenti e garanzie” da parte degli istituti di credito per un valore complessivo di almeno 86 milioni di euro.

Il Cairo, oltre a questo vasto programma militare, da anni si ritrova a essere uno dei maggiori esportatori di gas naturale dell’area mediterranea. Questo anche grazie all’Eni. Al largo delle coste egiziane ci sono ricchissimi giacimenti.

Solo il sito di Zohr (scoperto dal Cane a sei zampe) ha un valore stimato in 100 miliardi di euro. Giacimenti da proteggere e tutelare grazie a unità navali moderne indispensabili per contrastare le mire offensive della marina turca

Il Cairo, dunque, è il parco giochi delle aziende belliche ed energetiche italiane. Poco importa che sia governato dal faraone Abdel Fattah al-Sisi, il presidente-generale che guida con mano autoritaria il paese dal 2013. Il generale che arresta migliaia di oppositori. Che li tortura. Che li uccide.

Ciò che la legge impone

Il 6 luglio un po’ nascosto a pagina 29, il Corriere della Sera ha pubblicato un trafiletto a firma di Antonio Bultrini, professore associato di diritto internazionale nell’Università di Firenze. In poche righe, il docente sentenziò: «L’articolo 1 comma 6 lettera d della legge 9 luglio n.185 vieta (categoricamente) l’esportazione di armamento «verso paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’Ue o del Consiglio d’Europa (quindi delle Nazioni Unite per quanto riguarda l’Egitto). L’inchiesta condotta dal Comitato contro la tortura dell’Onu, i cui risultati sono stati pubblicati nel 2017, ha accertato che il ricorso alla tortura in Egitto è diffuso, deliberato, sistematico e che resta impunito. La violazione della Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite, accertata dall’organo competente, appare dunque grave. Sussistono pertanto i presupposti, nel caso dell’Egitto, per l’applicazione del divieto sopra citato (Legge 185/1990)».

La doppia inchiesta

Svelato il marcio, qualcuno si è preoccupato di fare un po’ di pulizia, almeno in casa nostra? No. Il tappeto rosso steso ad al-Sisi copre ogni violazione di legge. E pure ogni senso di vergogna.

Mentre finivano per affievolirsi anche le poche voci che hanno gridato in questi mesi alla scandalo, la società italiana Sace, specializzata nel sostegno alle imprese italiane e allo sviluppo delle attività di export e internazionalizzazione, ha portato avanti le operazioni volte a fornire al governo del Cairo un prestito pari a circa 500 milioni di euro, il quale verrà erogato da banche e istituti di finanziamento europei e sarà volto a finanziare la seconda parte dell’accordo italo-egiziano sulle armi.

Stando a quanto riportato dal giornale al-Araby al-Jadeed, il paese nordafricano si farà carico delle spese della prima fase, stanziando 500 milioni di euro, mentre il prestito servirà a fornire ulteriori armi marittime che non erano state incluse all’inizio delle trattative.

Si comprende, quindi il sentimento di profonda solitudine che ha colto gli stessi magistrati italiani che stanno cercando di svelare una verità, conosciuta da tutti, sul caso Regeni. Il 4 dicembre scadranno i due anni previsti dalla legge per la chiusura delle indagini preliminari e per le eventuali richieste di rinvio a giudizio.

Dal 5 dicembre del 2018 ci sono 5 indagati: sono 5 agenti dei servizi segreti egiziani. Il procuratore Michele Prestipino e il suo sostituto Sergio Colaiocco da anni cercano di far saltare il tappo che tiene in ostaggio la verità sul sequestro, la tortura e l’assassinio del giovane ricercatore friulano.

Il 5 novembre hanno fornito ai loro colleghi egiziani ulteriori prove: 3-4 testimoni hanno visto Regeni in 2 diverse caserme in mano ad agenti della National security nelle ore successive al suo rapimento. Una delle due caserme si trova vicino alla metropolitana di Dokki, al centro de Il Cairo, luogo da cui è scomparso Giulio.

Ma le ricerche degli investigatori italiani sono sempre state ostacolate. Hanno trovato un muro di gomma. In particolare, non sono mai stati comunicati loro i domicili dei 5 a cui notificare gli atti. Passaggio fondamentale per chiudere le indagini. Basterebbe l’elezione di domicilio presso un avvocato difensore italiano da parte di un indagato imputato: sarebbe la garanzia che abbia a piena conoscenza del processo che si svolge a suo carico

La beffa, invece, è giunta ieri, quando la Procura generale egiziana si è espressa giudicando ancora insufficienti le prove a sostegno delle accuse formulate nei confronti dei 5 funzionari degli apparati di sicurezza.

Per la procura egiziana il fascicolo italiano è provvisoriamente chiuso. Anzi, ha detto di avere prove solide secondo cui il giovane ricercatore italiano sarebbe stato derubato da una banda di malviventi che avevano già commesso altri reati simili nei confronti di stranieri spacciandosi per funzionari degli apparati di sicurezza.

Una posizione che ha esasperato la famiglia di Giulio, che in una nota ha dichiarato come sia giunto il tempo che «il nostro governo debba prendere atto di questo ennesimo schiaffo in faccia e richiamare immediatamente l’ambasciatore. Una assoluta mancanza di rispetto nei confronti non solo della nostra magistratura ma anche della nostra intelligenza. Non solo non rispondono alle rogatorie e non sono in grado di fornire cinque indirizzi ma persino si permettono di giudicare il quadro probatorio delineato dalla nostra procura, insistendo nel rifilarci il vecchio sanguinario depistaggio dei 5 rapinatori che costò la vita a degli innocenti fatti spacciare per gli assassini di Giulio». 

Ma il cupio silenzio che avvolge questa storia non riguarda solo le istituzioni egiziane. Da quando, nell’agosto del 2017, Roma ha deciso di far tornare al Cairo l’ambasciatore Gianpaolo Cantini, di fatto ha rinunciato alla verità processuale. Un esecutivo imprigionato nell’imbarazzo.

La Commissione monocamerale d’inchiesta sull’omicidio di Regeni, prorogata il 25 novembre scorso, rischia di diventare la vetrina della difesa della ragion di stato. Il suo presidente Erasmo Palazzotto ribadisce che quello che abbiamo davanti «è un fallimento», non delle indagini «ma delle cooperazioni». Ma più in là non va

E il silenzio imbarazzato delle istituzioni italiane è lo stesso che sta avvolgendo il caso di Patrick Zaki, lo studente dell’Università di Bologna arrestato al Cairo il 7 febbraio scorso con l’accusa di propaganda sovversiva al regime. Il 21 novembre si è visto rinnovare la custodia cautelare nella sezione Skorpion 2 del carcere di Tora (il peggiore) per altri 45 giorni. Nessuna pressione diplomatica che lo aiuti a uscire.

Tempi lunghi, si risponde. Certamente non gli stessi serviti per firmare l’atto di vendita di 2 navi da guerra.

 

 

 

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