Sudafrica, la filiera del commercio illegale di animali protetti - Nigrizia
Ambiente Sudafrica
Un traffico in aumento dopo il calo dovuto agli effetti del prolungato lockdown
Sudafrica, la filiera del commercio illegale di animali protetti
Uno studio analizza il flusso finanziario e il relativo riciclaggio del denaro frutto del traffico illecito di fauna selvatica. Un business tra i più redditizi che frutta ogni anno decine di miliardi di dollari
22 Novembre 2021
Articolo di Antonella Sinopoli
Tempo di lettura 8 minuti
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(Credit: iStock)

Valutato tra i 7 e i 23 miliardi di dollari all’anno, il commercio illegale di fauna selvatica è una delle imprese criminali più redditizie al mondo insieme al traffico di armi, droga e alla tratta di esseri umani. Ad averlo spesso sottolineato è il World Economic Forum.

Un recente lavoro del Samlit (task force sudafricana costituita nel 2019 che si occupa di controllare i flussi di denaro legati al riciclaggio) mette in luce una serie di aspetti che riguardano la catena di tale commercio nel paese.

In Sudafrica tra gennaio e dicembre nel 2019 sono stati effettuati 332 arresti e compiute 57 indagini solo per il bracconaggio di rinoceronti e il traffico di corna. Indagini che hanno portato a 139 condanne che vanno da 2 a 15 anni di carcere. Da gennaio a dicembre 2020 risulta che le uccisioni di rinoceronti siano diminuite drasticamente, addirittura del 33%. Gli arresti sono scesi a 156 e le indagini a 25, mentre su 45 casi 44 sono state le condanne.

La ragione di questo decremento sta nella pandemia che ha limitato i movimenti, anche quelli dei cacciatori di frodo e degli intermediari. Ma già quest’anno le cose sono cambiate. Tra gennaio e giugno nel solo Kruger National Park ci sono state 715 incursioni di bracconieri, assaltati 132 rinoceronti e un elefante, con 40 arresti eseguiti. Segno evidente della ripresa di tale attività.  

Bracconaggio, detenzione e traffico di prodotti della fauna selvatica, sono le accuse su cui si concentrano di solito le indagini dei governi. Ma è importante anche capire il flusso finanziario e il relativo riciclaggio del denaro che sta dietro queste lucrose attività e tutta la catena coinvolta in questi “affari”.

È un lungo percorso quello che parte da foreste e parchi e arriva all’acquirente finale ed è ripercorrendone le tracce che si può sperare – anche se il rapporto spiega quanto sia difficile – di smantellare reti illegali e perseguire i livelli più alti di chi opera in tali organizzazioni criminali.

L’ecosistema della criminalità organizzata comprende, infatti, molti strati: dai bracconieri locali e professionisti, ai trasportatori, dagli intermediari ai faccendieri in contatto con membri corrotti del governo centrale o delle municipalità, e poi funzionari e informatori che facilitano il flusso di tale “merce” illegale lungo varie rotte e quei facilitatori che emettono permessi o licenze Cites falsi o contraffatti.  

Reti logistiche, tra cui imprese esportatrici e di spedizione connesse, anch’esse, a personaggi politici, fino ad arrivare al personale delle dogane. Tutti elementi che partecipano su piccola o grande scala e sui vari punti di transito, e che a vario titolo facilitano lo spostamento di tali prodotti illegali grazie ad un capillare sistema di tangenti.

Insomma, si tratta di reti che operano come imprese multinazionali globali strutturate però a livello locale, un livello di cui è assolutamente necessaria la collaborazione per poter operare poi sulla vasta scala del mercato clandestino.  

Bisogna anche ricordare che i bracconieri locali sono quelli meno pagati dell’intera catena di questo commercio (anche se ovviamente il loro guadagno è molto alto rispetto a lavori regolari in quelle parti del mondo). E sono coloro che si accollano il maggior rischio. E la povertà è una delle principali cause dei crimini contro la fauna selvatica da parte di bracconieri locali. Persone scarsamente istruite e incapaci di sostenere le loro famiglie in altro modo.  

Forte è, dunque, la pressione sociale per unirsi a bande che operano nei parchi al soldo di commercianti forti e danarosi. Spesso provengono anche da altri paesi, armati di solito di un fucile (a volte un AK-47), un’ascia, un machete, una radio e dispositivi per la visione notturna. A volte vestiti semplicemente in jeans e t-shirt, alcuni a piedi nudi o con scarpe da ginnastica e sandali.  

I bracconieri professionisti invece utilizzano metodi ad alta tecnologia: pistole tranquillanti, elicotteri, farmaci veterinari, veleno al cianuro e armi di grosso calibro e spesso con silenziatore. Come è ormai noto, i più grandi mercati globali avidi di fauna selvatica proveniente dall’Africa, sono la Cina e altri paesi asiatici, soprattutto l’estremo oriente e il Vietnam. La maggior parte del corno di rinoceronte illegale – molto richiesto su queste piazze – proviene dal Sudafrica, dove oltretutto si trova circa l’80% degli ultimi rinoceronti al mondo.  

C’è chi traffica addirittura animali vivi, solitamente via terra ma anche con voli diretti, ma nella maggior parte dei casi i trafficanti di corni di rinoceronti usano rotte “tortuose”, che non presuppongono controlli accuratissimi. Ovviamente tali trafficanti sono anche in grado di sfruttare scappatoie legali per l’importazione e l’esportazione di trofei, per contrabbandare i corni, appunto, o altri prodotti vietati.  

Per esempio è stato scoperto che bracconieri e trafficanti che fanno capo al Xaysavang Network (un vero e proprio gruppo organizzato dedicato al traffico di specie selvatiche e al bracconaggio di elefanti, rinoceronti, pangolini e altri animali in via di estinzione) usa lo stratagemma di montare le corna di rinoceronti su trofei di caccia da inviare ai tassidermisti.  

Oltre al corno di rinoceronte utilizzato per scopi medicinali, i pangolini rimangono la specie più ricercata e in pericolo. La loro carne è considerata una prelibatezza, le loro squame sono usate nella medicina tradizionale e la loro pelle trasformata in prodotti in pelle. Secondo lo studio del Samlit esistono poche informazioni sulle rotte del traffico globale utilizzate per trasportare questi pangolini, ma la Cina e gli Stati Uniti sono state identificate come le destinazioni più comuni per tale traffico, mentre l’Europa è un importante snodo di transito

E poi c’è il traffico dell’abalone, prelibato mollusco, che cresce in una sola conchiglia madreperlacea e che per questo motivo viene anche chiamato “orecchio di venere”. In Sudafrica è illegale pescarlo proprio perché ormai in pericolo di estinzione. E così, abbonda il contrabbando. In questo caso ci si avvale di una rete che comprende l’ausilio di barche, skipper, subacquei.

L’Asia orientale è la principale meta di tonnellate di queste prelibatezze e, in particolare, Hong Kong costituisce l’epicentro del commercio internazionale, importando non solo dal Sudafrica, ma anche da Australia, Indonesia e Giappone e da una manciata di altri paesi, per rifornire un mercato locale in forte espansione. Attive nel traffico di abalone sono addirittura le bande della Triade cinese, specializzate anche nel traffico di droga e esseri umani.  

Il commercio di specie vietate si intreccia spesso, dunque, con altre forme di criminalità organizzata nel mercato transnazionale. Spesso i paesi confinanti giocano un ruolo essenziale in questa catena dello smercio illegale. È il caso del Lesotho, per esempio, attraverso cui passa il mollusco chiuso in sacchi camuffati come se trasportassero patate. Gli abalone vengono quindi trasportati nello Zimbabwe e poi da qui in Estremo Oriente.  

In generale, quando la merce contrabbandata viene trasportata a destinazione, si muove attraverso vari percorsi per evitare il rilevamento e oscurarne l’origine. Può essere camuffata in vari modi, avvolta in un foglio di stagno o di alluminio per evitare che gli scanner a raggi X producano immagini chiare del prodotto, nascosta con del carico legittimo o con animali destinati alla tassidermia, dentro tronchi, nel bagagliaio di un’auto, avvalendosi del trasporto pubblico o aereo.  

Merce che è stata trasportata anche all’interno di scatole di vino, vestiti su misura o… bigodini. Una pratica preferita è nasconderla tra oggetti con un forte odore, prodotti come pelli di animali, pesce essiccato o caffè, per nascondere l’aroma del prodotto della fauna selvatica o confondere i cani da fiuto. È chiaro che spedizioni di grandi dimensioni richiedono una rete di persone coinvolte in vari tipi di reati: frode, contraffazione e corruzione di funzionari.

Per non parlare delle comunicazioni, soprattutto quelle con potenziali acquirenti, che possono avvenire anche attraverso gruppi privati ​​su piattaforme di social media o tramite piattaforme di messaggistica mobile crittografate.

La vera sfida è risalire ai flussi finanziari di tale commercio. L’indagine del Samlit ha evidenziato che l’86% delle istituzioni finanziarie intervistate non ha un sistema specifico per identificare un flusso di denaro derivante dal commercio illegale della fauna selvatica, il 59% non ha predisposto un training specifico per rilevare questi flussi e il 79% non ha eseguito valutazioni specifiche del rischio riguardante l’Iwt (Illicit Wildlife Trade).

Inoltre, il 55% delle istituzioni finanziarie intervistate ha ammesso di non aver compiuto alcuna indagine – nel corso degli ultimi 3 anni – su casi correlati a Iwt e solo il 18% ha confermato che i casi segnalati hanno portato al perseguimento dei trasgressori delle leggi in materia.

Ciò che è emerso, comunque, è che le transazioni Iwt sono difficili da rintracciare. Pagamenti in contanti, fondi che entrano ed escono rapidamente dai conti, transazioni multiple, sono tutti meccanismi legati al passaggio di questo denaro. Denaro che, quando arriva agli alti livelli della catena, viene reinvestito (riciclato) in barche, case di lusso, attività commerciali.

 

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