Sudan: sul conflitto l’ombra del regime islamista - Nigrizia
Armi, Conflitti e Terrorismo Sudan
Si moltiplicano i segnali di un rinnovato attivismo del movimento di El-Bashir
Sudan: sul conflitto l’ombra del regime islamista
Tornati in libertà, i vertici del dissolto Partito del congresso nazionale sfruttano la guerra in corso - e il loro sostegno all’esercito contro i paramilitari - per ottenere una riabilitazione. L'obiettivo è di restaurare il vecchio regime. A loro vantaggio gioca anche il caos di tentativi di mediazione plurimi e scoordinati
08 Agosto 2023
Articolo di Bruna Sironi (da Nairobi)
Tempo di lettura 7 minuti
Il generale islamista Omar El-Bashir prima della sua deposizione, avvenuta l'11 aprile 2019 (Credit: Middle East Monitor)

Nel Sudan devastato dallo scontro tra l’esercito regolare (SAF) e i miliziani delle Forze di supporto rapido (RSF), si ritorna a fare i conti con il passato regime, militare e islamista, del Partito del congresso nazionale (National Congress Party – NCP), guidato dal deposto presidente Omar El-Bashir.

I segnali erano già chiari da tempo. Dopo il colpo di Stato del 25 ottobre 2021, infatti, era stato sciolto l’Empowerment Removal Committee, voluto dal governo di transizione e incaricato di tagliare le estese radici del trentennale regime nelle istituzioni statali.

Molti esponenti e simpatizzanti dell’NCP rimossi dal comitato, erano ritornati al loro posto, parecchi sgravati dai carichi penali di cui avrebbero dovuto rispondere.

In carcere erano finiti, invece, i componenti del comitato stesso, accusati, in sostanza, di aver fatto il lavoro di cui erano stati incaricati.

I segnali sono diventati certezza nei primi giorni del conflitto, quando molti leader del passato regime sono evasi da Kober, il carcere di massima sicurezza posto a Khartoum Nord, uno dei tre insediamenti urbani che compongono la grande Khartoum.

Era il 23 aprile, una settimana dopo l’inizio degli scontri.

Le porte della prigione si erano aperte – o erano state aperte, non è chiaro – per l’ex ministro degli interni e degli affari umanitari, Ahmed Haroun, e per l’ex ministro della difesa, Abdelrahim Hussein, entrambi ricercati dalla Corte penale internazionale per numerosi crimini commessi in Darfur durante la guerra civile del primo decennio di questo secolo.

Insieme a loro erano evasi numerosi altri pezzi grossi del regime, tra cui: due vicepresidenti, Ali Osman Taha e Bakri Hassan Saleh, considerati come potenziali successori di El-Bashir alla presidenza; Nafi Ali Nafi, ex capo del NISS, il potente e famigerato servizio di intelligence; il presidente del parlamento, Al-Fateh Ezzedine e il ministro del petrolio Awad Ahmed al-Jaz.

L’ex presidente Omar El-Bashir – 79 anni – era stato già da tempo trasferito in un ospedale militare, sotto la diretta responsabilità, e protezione, dell’esercito.

Ahmed Haroun, in un messaggio audio fatto circolare attraverso i mass media pochi giorni dopo l’evasione, dichiarò che avevano dovuto mettersi in salvo nel caos del conflitto e che si trovavano sotto la salvaguardia dell’esercito.

Per quanto lo riguardava, si impegnava a consegnarsi alle autorità competenti appena il paese fosse ritornato alla normalità.

Intanto, però, perché non dare una mano alla risoluzione del conflitto restituendo il favore ai propri protettori?

Roccaforte orientale

Il loro attivismo si è sviluppato in modo particolare a Kassala, capoluogo dell’omonimo stato nella regione orientale del paese.

Secondo dichiarazioni rilasciate a Radio Dabanga da Hamrour Hussein, figura di spicco del Fronte popolare sudanese per la liberazione e la giustizia (Sudanese People’s Front for Liberation and Justice, movimento attivo nel Sudan orientale), Kassala è considerata una zona di influenza del passato regime, dal momento che non vi ha potuto operare l’Empowerment Removal Committee.

Dunque, tutti i funzionari fedeli all’NCP, ora bandito, sono ancora al loro posto, ad ogni livello dell’amministrazione locale e del potere economico e politico.

I partiti politici e i gruppi della società civile locale avevano protestato per le loro attività in favore dell’esercito e avevano chiesto le dimissioni del facente funzione di governatore, Khojali Hamed.

Poi avevano denunciato la loro presenza, dal momento che, dal punto di vista legale, erano da considerare degli evasi.

Il primo agosto il pubblico ministero di Kassala ha emesso un ordine di cattura per cinque esponenti del vecchio regime particolarmente attivi in città, e precisamente: Ahmed Haroun, Ali Osman Taha, Awad al-Jaz, Abdelrahman El Khidir, ex governatore di Khartoum, e El Fateh Ezzeldin.

Incontri pubblici e a vari livelli delle istituzioni locali in favore dell’esercito sono stati organizzati fin dallo scorso giugno anche a El Gedaref e Port Sudan, gli altri due stati della regione orientale del paese.

Jaafar Khidir, un attivista politico di El Gefaref, ha dichiarato a Radio Dabanga: «L’attivismo di questi islamisti ha l’obiettivo di restaurare il regime del NCP, ora dissolto, mascherandolo da sostegno all’esercito contro le Forze di supporto rapido».

Nella regione l’esercito sta reclutando attivamente.

Molti volontari stanno ricevendo addestramento militare di base in decine di “Campi dell’orgoglio e della dignità” (Pride and Dignity Camps), alcuni organizzati nella stessa città di Kassala, dopo la chiamata alla mobilitazione del generale Abdel Fattah al-Burhan, comandate in capo dell’esercito e presidente del Consiglio Sovrano, la maggiore istituzione sudanese del periodo di transizione.

Analisti ed esponenti della società civile esprimono la crescente preoccupazione che il reclutamento avvenga in base all’appartenenza etnica.

RSF in Darfur

Intanto le Forze di intervento rapido rafforzano la loro presenza in Darfur. Dopo aver fatto piazza pulita dei masalit – gruppo etnico di radici africane – a El Geneina e aver preso il controllo di diverse località nel Darfur occidentale, lo scorso 4 agosto hanno dichiarato di controllare totalmente anche il Darfur centrale.

Nel Darfur meridionale fin dall’inizio di luglio avevano incassato il pubblico supporto dei leader tribali di sette gruppi arabi, e precisamente i beni halba, i tarjam, gli habaniya, i fallata, i misseriya, i taaysha e i rizeigat.

Ѐ chiaro che le due forze combattenti stanno ormai rafforzando i propri ranghi contando sulle regioni in cui hanno radici più sicure, in definitiva contando sul supporto politico di certi gruppi etnici dei cui interessi sono portatori.

La guerra di potere tra l’esercito e le RSF si sta dunque trasformano, o forse si è già trasformata, in guerra civile “tradizionale”, mettendo pericolosamente a rischio la stessa unità del paese.

Mediazioni scoordinate

Se sul piano interno gli schieramenti sembrano essere ormai definiti, su quello internazionale sembra regnare ancora una certa confusione.

I processi di pace seguono almeno tre direttrici.

Quello di Jeddah, guidato dall’Arabia Saudita e dagli Stati Uniti, con andamento altalenante e risultati per ora scarsissimi.

Quello dell’IGAD sostenuto dall’Unione Africana, per ora bloccato dal rifiuto del governo sudanese di riconoscere il presidente kenyano, William Ruto, come capo mediatore.

Infine quello del Cairo, convocato dai leader regionali.

Ognuno sta esplorando le possibilità di un’intesa in campi leggermente diversi.

Tutti si dicono impegnati a cooperare ma, sostiene il The Sudan Conflict Observer nella newsletter n.5: “Molto bisogna ancora fare per fare in modo che tutti gli sforzi di mediazione siano coerenti e coordinati”.

Nel frattempo, esponenti del passato regime cercano di insinuarsi anche nei negoziati, in particolare di quelli che dovrebbero tenersi a breve ad Addis Abeba facilitati dall’IGAD.

Si starebbero muovendo per assicurare la presenza di esponenti dell’NCP due ex ministri degli esteri, Dirdeiri Mohamed Ahmed e Ibrahim Ghandour.

Se ne dice particolarmente preoccupato Yassir Arman, politico di lungo corso, esponente di spicco delle FFC-CC (uno dei due bracci in cui si sono divise le Forze per la libertà e il cambiamento) e capo del SPLM-N (Democratic Revolutionary Movement).

Secondo Arman, il coinvolgimento di esponenti del passato regime non porterebbe alla stabilità né in Sudan né nella regione.

«Sarebbe piuttosto percepita come una vittoria per coloro che hanno cercato di minare il periodo di transizione del paese e hanno spinto per il colpo di stato del 25 ottobre».

In definitiva, porterebbe le lancette dell’orologio della storia sudanese a prima dell’aprile del 2019, quando un movimento popolare determinato e numeroso aveva portato alla fine del regime dell’NCP, che tenta di risorgere approfittando della guerra civile che, da ormai quasi quattro mesi, imperversa nel paese.

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