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Tunisia, il jihadismo ha perso appeal
Un report di International crisis group evidenzia come la violenza jihadista, aumentata tra il 2010 e il 2015, stia ora vivendo un accentuato declino. Molte le ragioni. Tra cui il crollo finanziario dell’universo jihadista e la presenza del partito islamista Ennahdha al governo. Diversi dei foreign fighters si considerano vittime della propaganda jihadista. Il pericolo ora è che il governo mantenga misure di antiterrorismo repressive che minino la coesione sociale
09 Giugno 2021
Articolo di Giba
Tempo di lettura 9 minuti
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Molto spesso le cronache o le analisi un po’ pigre raccontano che in Tunisia sopravvive l’islam radicale contiguo al terrorismo. Sopravviverebbe in quel brodo di coltura nutrito fra moschee estremiste, imam incendiari e internet.

A smantellare questa immagine ci pensa un nuovo rapporto del think tank International Crisis Group dal titolo Jihadismo in Tunisia: evitare l’ondata di violenza, nel quale si ricorda come «la violenza jihadista, aumentata tra il 2010 e il 2015, stia ora vivendo – contro ogni previsione – un accentuato declino».

E che proprio per questo, il fatto che il governo continui a mantenere misure antiterrorismo repressive e non sufficientemente mirate rischia di «minare la coesione sociale e la fiducia dei cittadini nelle istituzioni».

Per evitare questo rischio, secondo l’organizzazione no profit, «le autorità tunisine dovrebbero attuare riforme nel settore della giustizia e della sicurezza atte a evitare nuove ondate di violenza». In particolare, l’esecutivo «dovrebbe varare una nuova legge sullo stato di emergenza, modificare la legge antiterrorismo del 2015 e il codice di procedura penale, migliorare le condizioni di detenzione e garantire il coordinamento degli sforzi per prevenire e sopprimere il terrorismo».

Ma il punto di partenza è che la violenza jihadista è in calo dal 2016, in un paese dove gli islamisti del movimento Ennahdha partecipano da 10 anni al governo tunisino, mentre i movimenti jihadisti e salafiti vivono una stagione di difficoltà. Ciò potrebbe confermare che forse non avevano torto alcuni tra i sostenitori della Primavera araba del 2011 che volevano vedere la partecipazione dell’islam politico nella sfera pubblica.

Per quanto riguarda i dati, «sebbene i combattenti tunisini siano presenti in gruppi jihadisti all’estero, il loro numero sembra essere sopravvalutato, così come la minaccia del loro ritorno nel paese. Tra i giovani, che fino a qualche anno fa sembravano vedere nel jihadismo una soluzione praticabile alle loro difficoltà, il movimento salafita-jihadista sembra aver perso il suo fascino».

La svolta dell’attentato a Ben Guerdane

In costante crescita dalla rivolta del 2010-2011, la violenza jihadista in Tunisia ha raggiunto il picco nel 2015 con tre spettacolari attacchi rivendicati dal gruppo Stato islamico (Is) e, nel marzo 2016, con il tentativo di prendere il controllo della città di confine di Ben Guerdane da parte di un commando della stessa organizzazione.

Il fallimento di questo attacco ha segnato un calo notevole della violenza nel paese. Da allora, 16 persone sono morte, vittime del jihadismo, contro le 214 tra il 2011 e il 2016. Da marzo 2016 a marzo 2021, jihadisti o sospetti jihadisti hanno effettuato 5 operazioni in aree urbane, tutte limitrofi a Tunisi e a città della costa orientale. 

Is ne ha rivendicati 3. Come 3 sono le persone – appartenenti alle forze dell’ordine e della Guardia nazionale – rimaste uccise in quegli attacchi. Nelle zone rurali, nello stesso periodo, le violenze sono avvenute esclusivamente nelle aree montuose e forestali al confine tra Tunisia e Algeria, e hanno portato alla morte di 11 soldati e guardie nazionali, oltre a due pastori.

Ma questi piccoli gruppi terroristi avrebbero perso i due terzi delle loro truppe dal 2016. Sono passati da 250 combattenti a circa 60. Le forze armate hanno eliminato molti dei loro leader che si sono succeduti ai vertici delle organizzazioni. L’ ultimo comunicato stampa “jihadista” risale al 9 luglio 2018. 

Giudici, membri della polizia e analisti hanno raccontato in questi anni le difficoltà finanziarie e logistiche, soprattutto in termini di approvvigionamento, dei movimenti terroristici. Ed il furto di bestiame o di riserve di cibo da fattorie isolate ha spesso alienato loro il sostegno delle popolazioni locali.

Sconfitte jihadiste 

Per Crisis Group, e non solo per loro, questa diminuzione della violenza nel paese è in gran parte legata anche alle battute d’arresto militari delle maggiori organizzazioni jihadiste in Medioriente e in Libia, paese da cui sono stati organizzati gli attacchi mortali contro la Tunisia nel 2015-2016.

L’Is è stato cacciato da Derna nel giugno 2015 e da Sirte nel dicembre 2016. Anche se proprio lunedì 7 giugno il gruppo Stato islamico ha rivendicato l’esplosione di un’autobomba avvenuta il giorno prima nella città libica di Sebha, situata 750 km a sud della capitale Tripoli, e che ha provocato la morte di 2 persone e 5 feriti.

Comunque, secondo Crisis Group, dal 2016 al 2021 il numero dei combattenti dell’Is in Libia è sceso da 1.400 a poche centinaia. Il 19 febbraio 2016, gli Stati Uniti hanno bombardato un campo di addestramento jihadista a Sabratah, a circa 100 chilometri dal confine tunisino. Questo intervento aereo ha scatenato la replica jihadista con l’attentato a Ben Guerdane sul suolo tunisino. Ma la fretta con cui è stato realizzato spiega, in parte, il suo fallimento. 

Fantasmi tunisini, una minaccia sopravvalutata

Secondo Crisis Group, è stato spesso sopravvalutato il numero di volontari tunisini nei gruppi jihadisti in Medioriente e in Libia tra il 2013 e il 2016. Diversi analisti e giornalisti affermano che il loro numero è di circa 10mila, mentre il governo segnala 2.929 combattenti. Una stima probabilmente più vicina alla realtà, secondo il report del think tank. Più di due terzi di questi 2.929 combattenti sembrano essere stati uccisi o imprigionati all’estero.

Il possibile rientro dei jihadisti tunisini, i cosiddetti foreign fighters, solleva, poi, preoccupazioni esagerate, perché in parte basate sul precedente del ritorno di volontari algerini dall’Afghanistan, negli anni ’80. A differenza dei loro predecessori, accolti come eroi, gli 800 jihadisti rientrati in Tunisia tra il 2011 e il 2016 sono stati vissuti come combattenti sconfitti militarmente.

Per la maggior parte di loro, si è trattata di un’esperienza fallimentare. Alcuni sarebbero stati rifiutati da gruppi islamisti presenti in Medioriente. Un giudice istruttore li ha soprannominati «i jihadisti falliti». Altri avrebbero occupato posizioni subordinate all’interno di questi gruppi, con compiti logistici (finanziamenti, cure, trasporti).

Inoltre, mentre i volontari algerini si sono innestati, al loro ritorno in patria, in un movimento jihadista di massa, non esiste un’esperienza simile tra i tunisini. Anzi. Molti di loro, di ritorno dal Medioriente, sono stati criminalizzati e stigmatizzati. La giustizia tunisina ha condannato alcuni degli 800 rimpatriati a pene detentive comprese tra i 3 e gli 8 anni.

Dal loro ritorno, mancano prove per stabilire il loro possibile coinvolgimento nell’organizzazione di atti terroristici. Molti si dicono delusi dal loro impegno jihadista. Addirittura traumatizzati. Si considerano vittime della propaganda. L’Is, per alcuni di loro, è una creazione artificiale che nulla ha a che vedere con l’islam autentico.

Sarebbero pochissimi i jihadisti esperti attualmente detenuti nelle carceri tunisine. Delle circa 2.200 persone detenute ai sensi della legge antiterrorismo del 2015, sarebbero solo una decina i combattenti stranieri tunisini considerati molto pericolosi dai servizi di intelligence di diversi paesi.

Ora lo sguardo è verso il Sahel

I membri di al-Qaida e Is si stanno spostando verso aree in cui è debole il controllo. In particolare nel Sahel. È ipotizzabile, quindi, che il paese nordafricano resti immune per un po’ dal ritorno dei “veri” jihadisti. Anche perché la Tunisia rimane un territorio dove organizzarsi è complicato. Territorio che, peraltro, resta strategicamente secondario come obiettivo.

Secondo diversi esperti, sarebbero circa 200 questi “veri” jihadisti tunisini che starebbero ancora combattendo in Medioriente, e un centinaio nel Sahel. Si dice che quasi 600 facciano ancora parte di gruppi jihadisti in Libia, soprattutto nel sud.

È probabile, quindi, che il costante aumento del loro numero nel Sahel rafforzi i legami jihadisti tunisini-maliani che esistono da più di dieci anni. Per il momento, tuttavia, secondo Crisis group questo rafforzamento non si vede ancora.

Il jihadismo è passato di moda tra i giovani 

L’impegno salafita-jihadista ha in gran parte perso il suo fascino tra i giovani, che erano ricettivi a questo richiamo meno di 5 anni fa. Nelle università, prima di tutto, sembra essere scomparso il gruppo Ansar al-Shari’a, il principale collettivo salafita-jihadista tunisino, costituitosi negli anni 2012-2013. 

Sono cessate le proteste coordinate da questo gruppo, come i movimenti degli studenti che volevano conservare il niqab durante gli esami (il niqab è stato inoltre vietato nei locali dell’università).

Dal 2016 l’impegno all’interno del movimento salafita-jihadista è diventato estremamente rischioso in Tunisia, a differenza del periodo dall’inizio del 2011 al 2013. E ha contribuito a indebolirne il potere di attrazione. Questo tipo di attivismo è stato infatti criminalizzato da quando (agosto 2013) Ansar al-Shari’a è stata inserita nell’elenco delle organizzazioni terroristiche.

Tra le poche organizzazioni politiche legali che si battono apertamente, ma pacificamente, per il ristabilimento di un califfato governato dalla rigorosa applicazione della legge islamica è il Partito della Liberazione (Hizb ut-Tahrir). Proveniente dal movimento dei Fratelli Musulmani, questa formazione politica è poco incline al compromesso. Anche nel 2021 continua a tenere incontri pubblici e si dice che sia stata rimpolpata dall’arrivo degli ex sostenitori del gruppo salafita-jihadista Ansar al-Shari’a. 

Secondo Crisis Group, altri militanti stanno affluendo nella corrente salafita-jihadista “hazimista”. Una corrente già molto popolare tra i combattenti tunisini all’interno dell’Is in Siria nel 2014. Potrebbe rappresentare una minaccia significativa nel medio termine, se riuscirà ad aumentare i suoi ranghi. Ma tale scenario rimane improbabile nel contesto attuale, secondo il think tank.

Questi tipi di “attivismi” sono tuttavia molto marginali nei giovani. La maggior parte di loro è profondamente delusa sia dalla rivoluzione del 2010-2011 sia dal jihadismo. Anche la religiosità è in netto declino in questo segmento della popolazione. Così, «anche il jihadismo non è più un sogno», così come era vissuto da molti giovani tunisini qualche anno fa. Lo vivevano come «l’ultima ideologia veramente anti-sistema».

 Il crollo finanziario, fonte del declino jihadista

Le difficoltà finanziarie delle organizzazioni jihadiste hanno contribuito a diminuire il loro appeal. Alcuni esperti sostengono che l’attrazione dei giovani tunisini verso il jihad in Medioriente e in Libia, soprattutto tra il 2014 e il 2016, sia stata guidata da considerazioni economiche. 

Al-Qaida e Is avevano offerto l’opportunità di lasciare il paese per guadagnare denaro, in un contesto in cui il dinamismo economico dell’Europa era diminuito ed erano aumentati i rischi di attraversamento irregolare del Mediterraneo. Nel 2021, agli occhi delle frange più vulnerabili della gioventù, i gruppi jihadisti offrono poche prospettive di arricchimento.

Un’alternativa che sta attirando sempre più frange giovanili è quella dell’organizzarsi in bande criminali, per «prendere soldi dai ricchi con ogni mezzo» e dedicarsi a traffici illeciti, come la droga.

 

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