216 milioni di migranti climatici entro il 2050 - Nigrizia
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Le previsioni del secondo Rapporto Growndshell della Banca mondiale
216 milioni di migranti climatici entro il 2050
La grande migrazione climatica è già iniziata. Con movimenti crescenti della popolazione nei prossimi trent’anni, in particolare nell’Africa sub-sahariana. Gli esperti avvertono: i governi e la comunità internazionale devono agire fin da ora
17 Settembre 2021
Articolo di Antonella Sinopoli
Tempo di lettura 6 minuti
Sub-Saharan-African-migrants

Entro il 2050 almeno 216 milioni di persone saranno costrette a migrare a causa di effetti e conseguenze del cambiamento climatico. Il numero più alto di queste moderne migrazioni di massa, interesserà – e già sta avvenendo – l’Africa sub-sahariana: 86 milioni di persone in fuga, il 4,2% della popolazione totale. Si parla di 49 milioni per l’Asia orientale e l’area del Pacifico, 40 milioni per l’Asia meridionale e poi a seguire con percentuali più basse, ma non per questo meno drammatiche, il Nord Africa, l’America latina e anche la vecchia Europa, soprattutto l’est europeo.

E a proposito dell’Africa settentrionale si prevede che sarà questa a registrare la più alta percentuale di migranti climatici, 19 milioni di persone, equivalenti a circa il 9% della sua popolazione, a causa principalmente dell’aumento della scarsità d’acqua nel nord-est della Tunisia, nel nord-ovest dell’Algeria, nel Marocco occidentale e meridionale e ai piedi dell’Atlante centrale.

È un nuovo report – il secondo Rapporto Growndshell della Banca mondiale – che avverte che tali migrazioni forzate saranno inevitabili se non si darà il via ad azioni più che mai urgenti per ridurre le emissioni globali ma anche mettere in atto iniziative a largo raggio per colmare il gap nello sviluppo che esiste ancora tra quella parte del mondo che produce più inquinamento a danno di quella che l’inquinamento sembra più che altro subirlo.

Nei prossimi trent’anni sono destinati a diventare migranti climatici singoli individui e intere comunità che si troveranno a fare i conti con la scarsità d’acqua, la diminuzione della produttività delle colture e l’innalzamento del livello del mare. Stress climatico dovuto all’aumento delle temperature (gli anni 2016, 2019 e 2020 sono stati i più caldi a livello globale), ma anche a eventi estremi – inondazioni, piogge continue, tifoni, lunghi periodi di siccità – provocheranno la riduzione costante di aree da coltivare. Senza terra fertile e senza acqua, andare altrove rimane l’unica chance.

Gli scenari prospettati dallo studio non vogliono essere totalmente pessimistici: chi ha redatto il report sembra voler lanciare un messaggio (a cui chissà quanti scienziati del clima si sentiranno di aderire): siamo ancora in tempo. Tutto dipende da quali (e se avverrà) azioni saranno intraprese.

Il numero di persone costrette a lasciare le proprie case potrebbe ridursi dell’80% – si parla di 44 milioni che comunque non sono pochi – se si procedesse alla riduzione dei gas serra, se si cominciasse a lavorare a piani di sviluppo realmente green, e già a pianificare le fasi di una migrazione ormai impossibile da contenere per assicurare almeno forme di adattamento in altre aree e climi.

Va anche affrontata la questione di leggi internazionali di tutela per la categoria dei “migranti climatici”. E a proposito dei gas serra, va ricordato che cinque anni dopo l’accordo di Parigi, il mondo procede ancora – e pericolosamente – verso un riscaldamento di almeno 3 gradi Celsius entro il 2.100. Mentre si dovrebbe assolutamente limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi.

Gli impatti dei cambiamenti climatici si stanno in realtà manifestando già da tempo e sono destinati a modificare l’utilizzo e la disponibilità dei mezzi di sussistenza, le risorse nei sistemi rurali, costieri e urbani in tutte le regioni. Di conseguenza, è destinata a cambiare anche la distribuzione della popolazione e le dinamiche di mobilità che comunque hanno sempre caratterizzato le popolazioni sub-sahariane. Secondo gli autori del report, guai a farsi trovare impreparati, per evitare di aggiungere un problema ad un altro.

Ad esempio, i governi e le organizzazioni locali e internazionali dovrebbero già cominciare a preparare hotspot per gestire tali particolari flussi migratori. E nello stesso tempo pensare a forme di aiuto e assistenza per chi rimane. Certo, si tratta di misure transitorie che non considerano comunque l’enorme impatto sociale, sulla sicurezza, ma anche psicologico che la fuga forzata indotta da eventi climatici provoca nelle persone che vivono tale dramma.

Come dicevamo, l’area più vulnerabile tra le sei indicate nel rapporto è l’Africa sub-sahariana, a causa della desertificazione, della fragile tenuta delle coste – l’erosione è un altro problema – e della dipendenza della popolazione dall’agricoltura. Nonostante la crescente urbanizzazione, la popolazione rurale supera ancora, infatti, quella delle città. Va tra l’altro considerato – sottolineano gli esperti – che la questione climatica in molte aree spesso si somma ad altri fattori di crisi: conflitti, insicurezza, presenza di gruppi terroristici, povertà, disuguaglianza sociale. Tutti fattori moltiplicatori, a cui l’emergenza climatica aggiunge il suo peso.

Anche per quanto riguarda i migranti climatici, come per quelli economici, lo spostamento sta avvenendo – e si presume continuerà ad essere questa la tendenza – all’interno dei confini nazionali (si calcola che tre persone su quattro rimarranno nei loro paesi) o verso i paesi confinanti. Con ulteriori conseguenze che riguardano l’accoglienza, la sicurezza, la difficoltà di accedere ad aiuti, assistenza o anche a un lavoro.

Intanto, l’Internal Displacement Monitoring Centre (Idmc) stima che nel 2020 si siano verificati 40,5 milioni di nuovi spostamenti, di cui 30,7 milioni sono stati innescati da disastri. La stragrande maggioranza, 30 milioni, sono stati il risultato dei rischi e conseguenze legati a condizioni meteorologiche come tempeste (14,6 milioni) e alluvioni (14 milioni). La maggior parte dei nuovi sfollati nel 2020 sono stati registrati in Asia orientale e Pacifico (12,1 milioni) e in Asia meridionale (9,2 milioni), dove cicloni tropicali, piogge monsoniche e inondazioni colpiscono aree dove vivono milioni di persone.

Oltretutto, dopo quasi un quarto di secolo di costante declino globale delle condizioni di povertà estrema, si stima che già lo scorso anno la pandemia abbia spinto dagli 88 ai 115 milioni di persone in quella “categoria”. E si pensa che il numero potrebbe salire fino a 150 milioni durante il 2021, a seconda delle condizioni economiche dei singoli paesi.

L’impatto della crisi climatica sulle popolazioni e categorie più vulnerabili, dunque, si sta manifestando assai velocemente, più di quanto previsto in precedenza. Basti pensare che, solo tre anni fa, il primo rapporto Groundswell della Banca mondiale prevedeva che, entro il 2050, il cambiamento climatico avrebbe provocato la migrazione di 143 milioni di persone (Asia meridionale, America Latina e Africa sub-sahariana).

Da allora, il mondo è stato colpito dalla pandemia di Covid-19 e da un’inversione di decenni di progressi per ridurre la povertà. «Nello stesso tempo – ha affermato Juergen Voegele, vice presidente della Banca mondiale per lo sviluppo sostenibile –  gli impatti del cambiamento climatico sono sempre più visibili. Abbiamo appena vissuto il decennio più caldo mai registrato e stiamo assistendo ad eventi meteorologici estremi in tutto il mondo».

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