Egitto: caso Zaki, un processo divisivo - Nigrizia
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I cristiano-copti tra violenze islamiste e promesse mancate del regime
Egitto: caso Zaki, un processo divisivo
La lettera di Patrick Zaki che racconta le sofferenze dei cristiani copti e per la quale è stato rinviato a giudizio al Cairo, va letta nel contesto dell’Egitto di al-Sisi che ha fatto della lotta all’estremismo islamista la sua bandiera. Con il sostegno del leader copto Tawardos II. Un sostegno che non ha però garantito la sicurezza dei suoi fedeli
20 Settembre 2021
Articolo di Riccardo Cristiano
Tempo di lettura 6 minuti
Tawardos II e al-Sisi
Il papa copto Tawardos II e il presidente Abdel Fatah al-Sisi (Credit: Catholic News World)

Va capito bene l’articolo, pubblicato nel 2019 sul sito web Dardaj, per cui il regime del generale al-Sisi ha deciso, dopo una lunghissima e immotivata detenzione, il rinvio a giudizio di Patrick Zaki, con l’accusa di “diffusione di notizie false dentro e fuori il paese”. Il testo presenta una normale settimana dei copti nell’attuale Egitto raccontando i lutti, patiti per mano di estremisti islamisti, e poi le discriminazioni, compiute dalle autorità governative. Ma per capirne appieno la portata occorre tornare indietro, almeno fuggevolmente, fino alla spedizione napoleonica in Egitto.

Approdando, si voleva divulgare un proclama a nome della repubblica francese alla nazione egiziana, ma i termini “repubblica” e “nazione” in arabo non esistevano. Ѐ così che il termine usato al tempo per indicare le comunità religiose nell’impero, millet, è divenuto sinonimo di nazione: quella comunitaria era la sola diversa appartenenza che si conosceva. Queste comunità erano quella del sultano, religione di Stato, e quelle da lui protette degli altri monoteisti, cittadini di serie b che potevano regolare le questioni personali in base alle loro leggi religiose.

La situazione è peggiorata qualche tempo dopo, quando le grandi potenze europee pensarono di assumere sotto la loro protezione le “nazioni cristiane”, usandole come strumento di penetrazione per facilitare i loro intenti coloniali. Quando il nazionalismo europeo si tinse di nuove tinte nel Novecento, queste vennero copiate creando un terribile paradigma: “una nazione, una etnia, una fede, un capo”.

Il capostipite di questo nazionalismo è stato Ataturk, che ha ispirato un nazionalismo importato dall’Occidente ma usato nel mondo arabo contro l’Occidente “colonialista e corruttore” da leader panarabisti, presto falliti nelle derive militariste cominciate in Egitto e che hanno creato lo spazio per un nuovo estremismo, quello islamista, anch’esso animato da risentimento verso l’Occidente colonialista e corruttore.

Ѐ qui l’origine della trasformazione dei campus universitari del Cairo, dove Amin Maalouf nel suo stupendo saggio Il naufragio delle civiltà racconta di un’assemblea affollatissima che scoppiò a ridere quando Nasser raccontò di aver chiuso i negoziati con i Fratelli musulmani perché per votarlo chiedevano addirittura il velo per le donne. Ne parla come di una risata davvero fragorosa.

Quando però fu tradita la promessa di redistribuzione dei proventi della decolonizzazione, trattenuti da una ristretta élite, la promessa islamista “la redistribuzione verrà con la sharia” trasformò quei campus in islamisti.

Per molti è facile rimpiangere Nasser, ma dopo la crisi di Suez, espellendo ebrei e cittadini di origini europee, pose lui termine all’Egitto cosmopolita. Il suo slogan “nessuna voce si levi sopra la voce della battaglia”, sebbene abbia fatto arrestare e giustiziare Sayyid Qutb, il vero fondatore del sovversivismo islamico, oggi potrebbe essere quello dei sovversivi islamisti: non potrebbero dire anche loro “nessuno voce si levi sopra la voce della battaglia”?

Poi Sadat, dopo la firma degli accordi di Camp David, fece della legge islamica la principale fonte giurisprudenziale. Mubarak tornò al sistema dei millet: liberò il papa copto Shenouda III e gli offrì la tutela dei diritti dei copti, garantiti attraverso il suo patriarcato, non quali cittadini. Così i cristiani sono indotti a sostenere regimi, sebbene autoritari, e gli oppositori ad attaccarli quali amici di regimi dittatoriali.

In questo meccanismo di opposti estremismi gli anni Novanta hanno fatto scuola, con i servizi segreti coinvolti in stermini di copti che non hanno precedenti nella storia egiziana. Molti ricorderanno il massacro di Kosheh, villaggio a maggioranza copta: nato da un litigio tra due commercianti, uno copto e uno musulmano, lasciò sul terreno i corpi di ventuno copti. L’intervento delle forze di sicurezza garantì l’estensione del conflitto e la magistratura non condannò alcun colpevole delle violenze. La conseguenza non poteva che essere odio comunitario.

Eppure il vero fronte anti-regime, la madre di piazza Tahrir, nacque grazie ai copti, che diedero vita al movimento di resistenza civile Kefaya (Basta!) presto divenuto interconfessionale. Per un noto avvocato copto, Mamdouh Ramzy, i servizi segreti volevano costringere i copti a sostenere il regime, arrivando a ordire la strage di Natale 2011 ad Alessandria per creare il terrore tra i copti.   

Erede di questo regime, amico dei copti e delle donne, a differenza degli islamisti, non è il generale al-Sisi che difese i “test di verginità” imposti a 17 manifestanti nel marzo del 2011? Poi il suo golpe, alla fine di una vera insurrezione popolare contro il regime liberticida dell’islamista Morsi, non ha prodotto l’arresto di molti protagonisti di quella rivolta? Il dramma del papa copto è tutto qui.

Tawardos II, consapevole dell’identità liberticida e discriminatrice del governo dell’islamista Morsi, ha applaudito da subito il generale al-Sisi, fino a diventare per molti copti più il patriarca del regime che il loro. Perché? Limitiamoci a un esempio noto. L’11 dicembre del 2016 ebbe luogo l’attentato terrorista contro la cattedrale del Cairo, San Marco, che uccise 25 fedeli.

Ai funerali partecipò lo stesso al-Sisi, ma la cerimonia ebbe luogo in periferia e fu riservata ai parenti delle vittime. Gli altri non furono autorizzati a entrare. Ma non per paura di altri attentati, bensì per paura di altre manifestazioni di protesta contro il ministro dell’interno, accusato delle gravi negligenze della sicurezza. Ma non da Tawardos II. 

Così a febbraio 2017 il sedicente Stato islamico lanciò una feroce campagna d’aggressione contro i copti nel Sinai. Il regime trasferì con la forza i 546 copti del Sinai ad Islamilia, sull’altra sponda del canale. Erano cittadini minacciati nel loro paese e furono costretti dalle forze dell’ordine a lasciare case, beni e proprietà, per andare a vivere altrove. Non solo i copti, ma molti musulmani e gruppi per i diritti umani, criticarono il regime.

Il ragionamento di chi sosteneva Tawardos II era ed è molto semplice: “meglio al-Sisi che i Fratelli musulmani”. Questo facilita chi, dal campo opposto, dice “i cristiani, che in passato furono agenti dei colonialisti europei, oggi sostengono un regime che ci perseguita e deruba”.

Le storie di discriminazione che racconta Zaki nella sua lettera si iscrivono nella stessa logica. Perché non intestare una scuola a un soldato copto ucciso mentre serviva la sua patria se si vuole creare una vera identità nazionale unitaria? Gli egiziani sanno che solo la cultura della cittadinanza può salvarli dagli opposti estremismi, tanto è vero che a Piazza Tahrir sventolarono solo la bandiera nazionale. Ѐ per seguitare a dividere che Zaki va processato?

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