In Etiopia il governo sostiene che gli orrori della guerra in Tigray siano stati superati e cerca di ricostruirsi un’immagine positiva a livello internazionale, al tempo stesso sperando che le situazioni conflittuali tuttora in atto possano essere risolte.
Ma gli sforzi fatti in tal senso hanno in realtà incontrato grandi ostacoli, specie nella perdurante violenza nello stato-regione Amhara, dove il governo ha imposto lo stato di emergenza e da sette mesi sta combattendo i gruppi di milizie locali (FANO) in rivolta contro l’esercito federale.
Un conflitto che sta registrando una preoccupante escalation con nuovi, violenti combattimenti che da ieri coinvolgono anche la città santa di Lalibela, patrimonio dell’umanità UNESCO per le sue chiese scavate nella roccia, risalenti al XIII secolo.
Preoccupato anche per il declassamento del paese, decretato il 2 novembre dall’agenzia di rating statunitense Fitch a causa del crescente rischio di default, il portavoce del ministero degli esteri Meles Alem, ha dichiarato nei giorni scorsi che «l’agenda seguita oggi nei forum internazionali e multilaterali riguardo all’Etiopia è molto diversa da quella di un anno fa».
E che «l’accordo di pace di Pretoria ha rafforzato la procedura diplomatica dell’Etiopia che ha migliorato le sue relazioni con paesi e organizzazioni internazionali», evidenziando che «il fatto che il paese sia stato accolto tra i membri dei paesi BRICS ne è una chiara conferma».
L’accordo firmato in Sudafrica a inizio novembre 2022 con i ribelli tigrini aveva posto fine al conflitto tra Addis Abeba e Macallé.
L’accordo era stato mediato da un gruppo di alto livello dell’Unione Africana composto tra gli altri dall’ex presidente nigeriano Olusegun Obasanjo, l’ex presidente kenyano Uhuru Kenyatta e l’ex vicepresidente sudafricano Pumzile Mlambo-Ngcuka.
Il trattato di pace prevedeva disposizioni per ripristinare la legge e l’ordine sociale, garantire la ripresa dei servizi basilari, l’accesso senza ostacoli alle forniture umanitarie e, più specificamente per l’intera Etiopia, l’unificazione militare per la difesa nazionale.
Genesi del conflitto in Amhara
Fin da subito, tuttavia, questa disposizione suscitò controversie. Mentre alcune milizie si sono schierate con le Forze di difesa nazionale etiope (ENDF), all’inizio di quest’anno molti combattenti della regione Amhara, rifiutandosi di consegnare le armi, avevano lanciato una nuova offensiva contro l’esercito.
Una ribellione che è andata aggravandosi e ad oggi vede proseguire intensi combattimenti in tutta l’area, con pesanti ripercussioni per la popolazione civile e per la politica del governo centrale.
Che in agosto aveva imposto nella regione lo stato di emergenza, tagliando i servizi di base nelle zone di conflitto e avviando una campagna di arresti e detenzioni di attivisti (o presunti tali) di etnia amhara.
Situazione in Tigray
In merito all’evolversi della situazione nello stato-regione del Tigray, l’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch (HRW) la scorsa settimana ha invitato le Nazioni Unite e la comunità internazionale a continuare a fare pressione su Addis Abeba affinché si occupi anche della giustizia per le vittime del conflitto.
“Mentre il governo etiopico e i partner internazionali pubblicizzano i progressi compiuti nell’ultimo anno nella regione, i civili nelle aree tuttora non pacificate stanno ancora subendo il peso di ripetute atrocità”, ha affermato Laetitia Bader, vicedirettrice per l’Africa di HRW.
I cui rappresentanti affermano inoltre che le truppe eritree, che hanno sostenuto l’Esercito federale durante la guerra ma non hanno firmato l’accordo di pace, dovrebbero essere poste sono processo per le uccisioni, le violenze sessuali, i rapimenti e i saccheggi perpetrati.
Nell’anniversario del trattato di pace, il segretario di stato americano Antony Blinken ha dichiarato: «L’accordo di Pretoria ha messo a tacere le armi e ha posto fine alla terribile guerra durata due anni che ha fatto centinaia di migliaia di vittime e costretto milioni di persone a fuggire dalle proprie case».
Ma, ha proseguito, «è importante riconoscere le sfide che rimangono. Si devono portare avanti ulteriori azioni per garantire nell’intera regione un duraturo clima di pace e di stabilità. E l’Eritrea, affinché questo avvenga, deve ritirarsi completamente».
Anche il presidente della Commissione dell’Unione Africana (UA) Moussa Faki Mahamat, è intervenuto ribadendo «la piena solidarietà e l’impegno dell’UA a intensificare il sostegno all’attuazione dell’accordo di pace nelle sue fasi di disarmo, smobilitazione e reintegro dei combattenti nel conflitto».
Gli ex ribelli del TPLF, peraltro, hanno già consegnato armi pesanti e avviato la smobilitazione, mentre il governo ha ripristinato i servizi di base e un’amministrazione provvisoria, guidata da Getachew Reda, che ha già preso decisioni coraggiose, rimpiazzando vari amministratori locali ritenuti incapaci di portare avanti con efficacia lo sviluppo delle proprie aree.
L’UA ha interpretato da subito l’accordo di pace tra Addis Abeba e Macallé come un esempio di successo nella soluzione africana a problemi africani.
Ma una pace concreta e globale per il paese appare purtroppo ancora lontana.