La guerra in Sudan blocca l’export di petrolio dal Sud Sudan
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Juba sull’orlo dell’ennesima crisi, questa volta connessa al conflitto sudanese
La guerra in Sudan blocca l’export di petrolio dal Sud Sudan
Il danneggiamento di una stazione di pompaggio controllata dalle forze paramilitari ha quasi bloccato il flusso di greggio proveniente dal Sud Sudan e diretto all’hub commerciale di Port Sudan. Con importantissime conseguenze economiche per entrambi i paesi. Che per Juba significano anche un rischio di aumento dell’instabilità
27 Marzo 2024
Articolo di Bruna Sironi (da Nairobi)
Tempo di lettura 4 minuti

Doveva succedere. Era solo questione di tempo. Le operazioni militari in Sudan non potevano non avere un impatto anche sull’esportazione del petrolio sudsudanese e di conseguenza sulla già fragilissima economia del paese, che dal greggio ricava il 80% del Pil e il 98% del budget operativo dello stato.

Infatti la sola via di commercializzazione del minerale estratto nei campi petroliferi del Sud Sudan passa per il territorio sudanese, da un anno devastato da operazioni militari che hanno danneggiato infrastrutture chiave per l’economia del paese, e ora anche per quella del paese vicino.

Dal 10 febbraio il governo sudanese sapeva di non poter garantire l’esportazione del petrolio estratto in Sud Sudan dal suo terminal sul Mar Rosso, a Port Sudan. La situazione è stata resa pubblica alla metà di marzo con la formula giuridica di force majeure usata per evitare le penali previste per il mancato rispetto di impegni contrattuali.

Una lettera, datata 16 marzo, inviata alle controparti cinesi e malesi del contratto da Mohyeldin Naeem, facente funzione di ministro dell’Energia e del Petrolio del governo sudanese, e riassunta in un articolo di Radio Dabanga, dice che “a causa di operazioni militari nella zona, una stazione di pompaggio operata dalla compagnia statale Bashayer Pipeline Company (BAPCO) aveva finito il carburante, causando l’ostruzione del condotto per l’addensarsi del minerale” (il petrolio sudsudanese deve essere riscaldato per diventare abbastanza fluido da poter scorrere facilmente nei tubi dell’oleodotto, ndr) e che l’impianto ne era stato gravemente danneggiato.

Secondo il Sudan War Monitoring, un notiziario online specializzato nel confermare le notizie dai campi di battaglia attraverso strumenti informatici, l’incidente si sarebbe verificato in territorio controllato dalle Forze di supporto rapido (RSF) in una zona dello stato del Nilo Bianco vicina alla linea del fronte, che la separa dal territorio controllato dall’esercito governativo (SAF).

Il team di specialisti inviati nella zona per riparare il danno aveva prima dovuto garantirsi sicurezza contrattando la propria presenza con le forze belligeranti. La mancanza di comunicazione aveva complicato ulteriormente la situazione. Ma, anche a danno riparato, la stazione di pompaggio potrà riprendere a funzionare solo quando potrà disporre di carburante, non si può prevedere quando.

Con la rottura dell’oleodotto, il settore petrolifero si è quasi bloccato in entrambi i paesi, con importantissime conseguenze economiche sia in Sudan, che dal passaggio del greggio ricava ricche royalty, che in Sud Sudan dove i proventi della sua commercializzazione sono linfa vitale per il budget statale.

Rimane attivo un braccio dell’infrastruttura che però trasporta al massimo il 25% del greggio complessivamente prodotto.

Oleodotti dal Sud Sudan al Sudan (Fonte: S&P Platts, ministero del Petrolio del Sud Sudan)

Il conflitto in Sudan aveva già causato una riduzione dell’estrazione dai campi petroliferi sudsudanesi, che si era attestata sui 140mila barili per giorno di media nel 2023. Nel 2022 era stata di 160mila, in ogni caso ben lontana dai 350mila barili prodotti giornalmente prima della guerra civile scoppiata in Sud Sudan nel 2013 e conclusasi cinque anni dopo.

La drastica riduzione dei proventi del petrolio potrebbe aumentare l’instabilità del paese, mai davvero pacificato anche dopo la fine della guerra civile. Lo dicono diversi analisti osservando che una parte significativa di questi proventi sono sempre serviti per finanziare “progetti speciali” controllati direttamente dall’ufficio del presidente, Salva Kiir, accusato anche di corruzione e di appropriazione indebita.

Insomma, invece che entrare nel bilancio statale, una notevole parte dei proventi del petrolio sarebbero serviti per finanziare progetti privati di cordate di sostenitori, politici, amici e familiari del presidente e della leadership del paese che ora si vedrebbero tagliati i fondi.

Questo potrebbe portare al diffondersi di un malcontento che potrebbe sfociare in proteste, magari mascherate da azioni per sottolineare i gravi e numerosi problemi del paese.

Edmund Yakani, autorevole esponente della società civile sudsudanese, osserva che la drastica diminuzione dei proventi del petrolio porterebbe anche alla svalutazione della già debole valuta del paese, con un conseguente aumento della povertà, che è già fin troppo diffusa. Questo aumenterebbe l’impatto della microcriminalità e forzerebbe parecchi ad imbracciare le armi per procacciarsi i mezzi di sussistenza in modi illegali.

Le sue parole sintetizzano in modo preciso i timori sul futuro del Sud Sudan: «Con il peggioramento dell’economia, aumenterebbe l’instabilità politica e collasserebbe la legalità. Questo potrebbe portare ad un’impennata dei crimini e delle violazioni dei diritti umani».

Secondo queste analisi, il conflitto in Sudan finirebbe dunque per costituire una diretta aggravante della già grave instabilità del Sud Sudan.

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