L’Eni patteggia per induzione indebita in Congo - Nigrizia
Congo Brazza Economia
La sentenza del tribunale di Milano
L’Eni patteggia per induzione indebita in Congo
Pur non ammettendo responsabilità, il cane a sei zampe ha accettato la sentenza che condanna l’azienda a un risarcimento di 11 milioni di euro e a un’ammenda di 800mila nel caso che riguarda il rinnovo di due licenze petrolifere nella Repubblica del Congo
25 Marzo 2021
Articolo di Comunicato Stampa Re:Common
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Eni Congo

L’organizzazione Re:Common esprime la sua soddisfazione per la sentenza di patteggiamento emessa oggi dal Gip Sofia Fioretta del tribunale di Milano che ha sanzionato Eni al pagamento di un risarcimento di 11 milioni di euro ed un’ammenda di 800mila euro per il reato di induzione indebita nel contesto del rinnovo delle licenze petrolifere Marine VI e VII, avvenuto nel 2014 nella Repubblica del Congo.
 
L’indagine sulla presunta corruzione internazionale in Repubblica del Congo è nata nel giugno del 2015 a seguito di un esposto presentato da Re:Common insieme a Global Witness alla procura di Milano. Oltre Eni, anche l’ex numero due del cane a sei zampe Roberto Casula, Alexander Haly, Ernest Akinmade e Maria Paduano sono finiti sotto indagine per corruzione internazionale, oggi derubricata al reato di induzione indebita.

L’indagine ha portato a diversi sequestri e perquisizioni, anche fuori dall’Italia, ma purtroppo sono ancora attesi da più di due anni i risultati di una rogatoria internazionale mossa a Montecarlo per acquisire documentazione sequestrata all’imprenditore inglese Haly. Un precedente molto negativo per la cooperazione penale dentro l’Ue.

Nel corso dell’indagine, anche l’ad Claudio Descalzi è stato indagato per presunta omessa dichiarazione di conflitto di interessi, in relazione al ruolo avuto dalla moglie Maria Magdalena Ingoba, di nazionalità congolese, in alcune società che avrebbero beneficiato di prestiti per 104 milioni di dollari per servizi forniti nel paese africano fra il 2012 e il 2017. Accusa sempre respinta dal manager, che ha affermato che le operazioni contestate non sono mai state oggetto di sue valutazioni o decisioni in quanto totalmente estranee al suo ruolo.

Nonostante la sentenza di patteggiamento nel diritto italiano sia equiparabile a una condanna, l’Eni non ha ammesso alcuna colpa, ma ha solo aderito alla pena concordata come proposta dalla procura. Eni ritiene che, in ogni caso, il suo sistema interno anti-corruzione, secondo il dettato della legge 231 sulla responsabilità amministrativa delle imprese, abbia tenuto.

«Questa sentenza di patteggiamento ci dà ragione”, ha dichiarato Antonio Tricarico di Re:Common, “visto che per primi abbiamo seguito il caso e lo abbiamo portato all’attenzione delle autorità inquirenti. Dopo l’esito giudiziario di oggi, in qualità di principale azionista il governo italiano dovrebbe pretendere da Eni un serio approfondimento interno sulla vicenda, quanto meno sul piano disciplinare e su quello del modello di organizzazione e gestione, che serve proprio a prevenire il rischio della commissione di reati da parte degli organi societari, secondo la logica della legge 231».

«Ci si aspetta, quindi, un chiarimento dal management della società nei confronti degli azionisti e in particolare del principale azionista, ossia lo stato italiano. E, sarebbe auspicabile, anche nei confronti della Consob, visto che l’Eni è tra le più grandi imprese quotate alla borsa di Milano. Chiediamo perciò che Eni renda pubblica la sentenza di patteggiamento», ha aggiunto Tricarico.

«Anche grazie al nostro esposto, 11,8 milioni di euro finiscono nelle casse dello stato, dimostrando così che l’operato della procura di Milano, nel perseguire reati economici transnazionali che coinvolgono imprese italiane, è stato efficace e utile per l’intera cittadinanza. Questo è il Sistema-Italia che ci piace».

«Al netto dell’esito giudiziario di oggi, rimane un’ombra sul coinvolgimento di Descalzi e di suoi familiari nelle operazioni di Eni nella Repubblica del Congo, qualcosa che non è possibile che l’ad della più grande multinazionale italiana ritenga non debba essere oggetto di sue valutazioni», ha concluso Tricarico.

 

 

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