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Le responsabilità politiche della crisi umanitaria
Sud Sudan: due terzi della popolazione rischia la fame
Gli effetti della crisi climatica, economica e dei conflitti che ancora interessano buona parte del paese, stanno annientando le capacità di resilienza della popolazione, già stremata da anni di guerra civile. Nell’indifferenza dell’élite politica nazionale che appare sempre più concentrata unicamente sul mantenimento del proprio status quo
19 Novembre 2021
Articolo di Bruna Sironi (da Nairobi, Kenya)
Tempo di lettura 6 minuti
Sud Sudan aiuti alimentari
Distribuzione di aiuti alimentari in Sud Sudan (Credit: ICRC)

Da diverse settimane ormai le organizzazioni dell’Onu e della società civile locale e internazionale lanciano allarmi sulla situazione umanitaria del Sud Sudan, sottolineando l’impatto delle alluvioni, della crisi economica e della diffusa conflittualità sulla sicurezza alimentare di milioni di persone.

The New Humanitarian uno dei più autorevoli organi di informazione online sulle questioni umanitarie, già in agosto, nell’articolo Fighting, flooding, and donor fatigue: unpacking South Sudan’s food crisis (Combattimenti, alluvioni e stanchezza dei donatori: decifrare la crisi alimentare in Sud Sudan), descriveva la situazione con le seguenti parole: “Il Sud Sudan sta sperimentando la peggior crisi alimentare dall’indipendenza, dal momento che le alluvioni stagionali si collocano tra una regressione economica e un prolungato conflitto”.

Lo scorso agosto erano già almeno 7,2 milioni – su un totale stimato di 12 milioni – i sud sudanesi che non avevano cibo sufficiente, mentre decine di migliaia stavano già sperimentando la carestia e la fame nelle sue forme più gravi e drammatiche. Ora la situazione è ulteriormente peggiorata: sarebbero più di 8 milioni (due terzi della popolazione) le persone a rischio fame.

Il 3 novembre il sito della Bbc riportava le informazioni di Ocha, l’organizzazione dell’Onu per il coordinamento degli interventi umanitari: “Improvvise alluvioni e violenze ostacolano le operazioni umanitarie in diverse parti del Sud Sudan, mentre i bisogni della popolazione aumentano”. Sarebbero tra 760mila (dati Ocha) e 1,2 milioni (dati governativi) le persone colpite da una serie di inondazioni devastanti – senza paragoni negli ultimi decenni – che si sono abbattute sul Sud Sudan dallo scorso maggio.

Ne sono stati interessati 8 dei 10 stati federali di cui è composto il paese. Le situazioni più gravi si sono verificate negli stati settentrionali di Jonglei, Unity e Upper Nile, tra i più colpiti dalla guerra civile iniziata nel dicembre del 2013 e finita, solo formalmente purtroppo, con la firma di un fragile accordo di pace nel settembre del 2018.

I fenomeni climatici estremi non fanno che approfondire le tensioni già esistenti tra le varie comunità. Lo chiarisce Sheri Lim, un’esperta di Care, importante organizzazione internazionale impegnata nei soccorsi in numerosi paesi in crisi. «Sappiamo che il cambiamento climatico è un moltiplicatore dei problemi e può portare ad aumentare tensioni e conflitti nelle comunità e tra la popolazione, dal momento che la gente deve per forza competere per le già scarse risorse. Provoca inoltre un aumento negli spostamenti di popolazione e di conseguenza una maggiore pressione sulle comunità che ospitano gli sfollati. I paesi dove già ci sono conflitti armati sono colpiti in modo enorme dai fenomeni estremi e dalla variabilità del clima. I cambiamenti climatici aggiungono pesi, tensioni e stress su popolazioni già gravemente stressate, e riduce ulteriormente la loro possibilità di resistere».

In una situazione già così difficile, i bisogni della popolazione potranno essere soddisfatti solo molto parzialmente. I fondi scarseggiano. Di fronte a sempre nuove emergenze, la cronica crisi sudsudanese non desta più particolare preoccupazione e interesse. Se non per precisi calcoli regionali.

All’inizio di novembre il ministro sudsudanese per la gestione delle calamità, Peter Mayen Majongdit, annunciava l’arrivo di aiuti alimentari direttamente dall’Egitto, il cui governo è nel pieno di un’offensiva diplomatica tra i paesi del bacino del Nilo per isolare l’Etiopia nella crisi per la gestione delle acque del grande fiume originata dalla Gerd, la grande diga costruita da Addis Abeba sul Nilo Azzurro.

Attacchi a convogli umanitari e commerciali

Per di più è difficile e rischioso portare a destinazione gli aiuti faticosamente raccolti. Il Sud Sudan è ritenuto uno dei paesi più pericolosi per gli operatori umanitari, presi di mira da frequenti attacchi. Secondo un rapporto delle agenzie dell’Onu, pubblicato su reliefweb, in Sud Sudan si sono verificati quest’anno la maggior parte degli episodi: 40 su 115 registrati in 41 paesi, il 35% del totale. Nella classifica, il paese si colloca accanto alla Siria e alla Repubblica democratica del Congo.

La violenza contro gli operatori umanitari è cresciuta negli ultimi due anni e ha fatto almeno 17 vittime solo dall’inizio del 2021. Per di più, i convogli che trasportano derrate alimentari vengono quasi regolarmente taglieggiati ai numerosi posti di blocco sulle strade del paese e spesso razziati, come i magazzini di stoccaggio, da bande criminali che contano sulla generale impunità.

Recentemente i camionisti che trasportano beni di prima necessità dall’Uganda a Juba sono scesi in sciopero chiedendo protezione. Anche per queste difficoltà logistiche il cibo scarseggia sui mercati locali e ha prezzi irraggiungibili per una buona parte della popolazione, enormemente impoverita da anni di guerra civile e instabilità generalizzata.

Responsabilità governative

Ma il governo non è capace di intervenire, o più probabilmente non è interessato a farlo, osservano diversi esperti. Secondo Abraham Kuol Nyoun, un politologo sud sudanese che insegna all’università di Juba, «Ai più alti livelli di governo si godono i dividendi della pace (alludendo ai frutti della corruzione, ndr) ma nelle comunità la gente è più frustrata che mai. Questa pace, così com’è, non è in grado di portare cibo sulle tavole».

Il problema è infatti la “qualitá” della pace. Gli accordi firmati nel settembre del 2018 non hanno fermato la conflittualità sul territorio. Il governo minimizza la situazione descrivendo gli scontri come conflitti intercomunitari. Numerosi esperti dicono invece che ciò che accade a livello locale è strettamente connesso a dinamiche politiche e militari nazionali. Secondo la loro analisi, mancherebbe dunque la volontà politica di mettere fine all’instabilità che provoca la fame.

A conferma, molti esperti e rapporti delle organizzazioni dell’Onu affermano che la volontà espressa a parole di portare avanti il processo di pace attraverso il governo di unità nazionale è smentita dai fatti. Secondo l’articolo di The New Humanitarian già citato, il presidente Salva Kiir e i suoi avrebbero lavorato indefessamente per indebolire il maggior partner dell’opposizione, l’Splm-Io, incoraggiando defezioni importanti che hanno finito per provocare conflitti con numerose vittime, migliaia di sfollati e l’interruzione delle operazioni umanitarie in una vasta regione dello stato dell’Upper Nile.

Negli ultimi mesi violenze particolarmente gravi hanno interessato anche l’Equatoria Occidentale, in particolare l’area di Tambura, una cittadina con circa 10mila abitanti, toccata marginalmente perfino dalla guerra civile e devastata in tempo di pace. Gli scontri tra reparti dell’esercito governativo (SSpdf), e delle forze di opposizione (Splm-Io), hanno provocato una carneficina tra i civili e la fuga della popolazione che ha cercato protezione anche presso il compound della missione di pace, Unmiss. Ma scontri violenti tra diversi gruppi armati sono segnalati quasi quotidianamente nell’Equatoria Centrale, nello stato dei Laghi, in quello di Warrap e di Unity.

Una buona parte del paese, insomma. Tanto che da più parti si teme che dai conflitti locali si possa passare presto ad una nuova fase di guerra civile su scala nazionale. Con buona pace di chi si preoccupa per le condizioni della popolazione e della crisi alimentare. Abuk Kat, madre di cinque figli che abita nella zona amministrativa di Pibor, ha detto a The New Humanitarian: «La vita quest’anno è anche peggiore (di prima, ndr). Ho coltivato, ma non posso neppure andare ad estirpare le erbacce perché ho paura di essere uccisa».

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