Sudan: le RSF puntano ad un Darfur autonomo? - Nigrizia
Armi, Conflitti e Terrorismo Sudan
Combattenti saheliani arabi e arabizzati tentano di trasformare la regione in una loro roccaforte
Sudan: le RSF puntano ad un Darfur autonomo?
Sotto lo sguardo indifferente della comunità internazionale, nella vasta regione occidentale le Forze di supporto rapido, alleate a milizie ciadiane e locali, stanno portando avanti da sei mesi un’operazione di “pulizia etnica” per il controllo totale del territorio e delle sue risorse
13 Ottobre 2023
Articolo di Bruna Sironi (da Nairobi)
Tempo di lettura 6 minuti

Fin dal giorno dello scoppio del conflitto tra l’esercito sudanese (SAF) e le Forze di supporto rapido (RSF), il 15 aprile, tutti gli osservatori si aspettavano che il Darfur ne sarebbe stato investito in modo particolare.

La previsione era basata sulla storia degli ultimi vent’anni, caratterizzati da una devastante guerra civile con forti connotazioni etniche – popolazioni arabe o arabizzate contro quelle africane autoctone – che aveva lasciato strascichi di problemi irrisolti, un forte senso di frustrazione tra le vittime, una generalizzata impunità tra i colpevoli e una diffusa instabilità.

Per di più una delle parti in conflitto, le RSF, sono originarie della regione. Hanno radici nelle famigerate milizie janjaweed, che l’hanno devastata nel primo decennio di questo secolo per conto del governo islamista di Khartoum, allora guidato dal presidente Omar El-Bashir, deposto grazie ad una mobilitazione popolare nell’aprile del 2019.

Per la conduzione di quel conflitto, sul capo dell’ex presidente pendono ben dieci capi d’accusa della Corte penale internazionale, tra cui tre per genocidio.

Il processo non si è mai celebrato perché El-Bashir non è mai stato consegnato al tribunale dell’Aja per rispondere dell’operato del suo governo e anche ora è protetto dall’esercito.

Infine il comandante delle RSF, generale Mohamed Hamdan Dagalo, conosciuto come Hemeti, e la sua famiglia, originariamente commercianti di cammelli, fondano ora la loro ricchezza e il loro potere sul controllo dell’oro, abbondante nella regione.

Per questo sono in affari con il gruppo russo Wagner e hanno uno speciale rapporto con gli Emirati Arabi Uniti, dove il prezioso minerale, anche se di provenienza illecita, entra facilmente nel mercato legale.

Le previsioni degli esperti erano molto ben fondate. In pochissimi giorni il Darfur era diventata la regione più colpita dai combattimenti, insieme alla capitale Khartoum.

Ma gli scontri, che nella capitale erano chiaramente per il controllo del potere politico nel paese, in Darfur hanno assunto immediatamente l’usuale connotazione etnica, con l’obbiettivo di controllare prima ed insediarsi poi sul territorio di altri.

El Geneina, epicentro dell’orrore

I primi episodi si sono verificati nel Darfur occidentale, con epicentro il capoluogo El Geneina.

Le prime informazioni, diffuse da gruppi della società civile locale attraverso i social media, avevano cominciato a girare già attorno al 20 aprile. Erano così gravi da essere poco credibili senza conferme indipendenti. E già c’era chi metteva in guardia sul pericolo di un genocidio.

Radio Dabanga, un autorevole sito con informatori in ogni angolo della regione, era forse l’unica fonte credibile sul terreno.

Il 5 luglio pubblicava un articolo riassuntivo delle prime settimane di conflitto dal titolo significativo: ‘Ethnic cleansing’ continues in West Darfur (La pulizia etnica continua nel Darfur occidentale) basato su testimonianze precise.

Un omda, il capo tradizionale di una comunità, da un campo profughi del Ciad raccontava: «Uomini armati hanno liste con nomi di attivisti, medici, mercanti e leader comunitari. Li stanno cercando nella zona per assassinarli».

L’intenzione era chiaramente quella di decapitare la comunità in modo da renderla facilmente manipolabile e subalterna. Tra gli assassinati anche quattro avvocati, impegnati nel documentare gli abusi.

Il sultano dei masalit, il gruppo etnico maggioritario nella zona, dallo stesso campo profughi, affermava che circa il 70% della popolazione di El Geneina aveva cercato rifugio in Ciad e che numerosi membri della sua famiglia erano stati uccisi.

Tra i leader assassinati, anche il governatore del Darfur occidentale, Khamis Abakar, dopo che, in un’intervista televisiva, aveva accusato le RSF di attacchi indiscriminati contro i civili.

I numeri sono impressionanti: diverse migliaia di persone – donne, bambini e anziani compresi – sono state uccise in poche settimane; i corpi che hanno potuto trovare sepoltura sono stati deposti in fosse comuni perche non era possibile scavare fosse individuali; decine di migliaia di profughi hanno passato il confine con il Ciad in pochi giorni.

Villaggi bruciati, quartieri deserti, fosse comuni… Tutto documentato da fotografie satellitari e altri dispositivi. E tutto consegnato alla Corte penale internazionale che a luglio ha aperto un’inchiesta.

Ma le RSF non erano sole. Già alla metà di giugno l’allora capo della missione di pace in Sudan (UNITAMS), Volker Perthes affermava ufficialmente che in Darfur si osservavano attacchi su larga scala contro i civili, di cui erano accusati “uomini armati arabi e miliziani vestiti con le uniformi delle RSF”.

Ben presto gli scontri si diffondevano anche negli altri Stati della regione del Darfur, con caratteristiche molto simili, tanto che ormai si torna a parlare di genocidio di gruppi etnici africani originari della regione.

Particolarmente dettagliata in proposito un’inchiesta della Reuters, pubblicata nei giorni scorsi: How arab fighters carried out a rolling ethnic massacre in Sudan (Come combattenti arabi hanno realizzato un graduale massacro etnico in Sudan).

Ritorno al passato

Anche il contesto politico mostra segnali preoccupanti e fa pensare alla trasformazione del conflitto in guerra civile.

All’inizio di giugno nel Darfur Meridionale sette gruppi etnici locali, in particolare gli allevatori di radici arabe o arabizzati, si sono schierate ufficialmente con le RSF, nel cui “ambiente” socio-politico avevano sempre gravitato.

Non manca neppure il coinvolgimento regionale, non a livello statale, almeno non ufficialmente per ora, ma quello di milizie etniche saheliane, schierate con le RSF con cui si sono spinte fino a Khartoum, razziando beni, soprattutto autoveicoli, che hanno poi trasferito nelle zone di provenienza.

La situazione è tale che, a latere dell’Assemblea generale dell’ONU recentemente svoltasi a New York, ne hanno parlato il facente funzioni del ministro degli esteri sudanese, Ali Al-Sadiq, e quello del Niger, Bakary Sangaré. Quest’ultimo si è detto disponibile a collaborare per la restituzione del mal tolto.  

In Darfur, dunque, il conflitto sembra aver ormai ripreso i connotati del passato. I gruppi arabi e arabizzati di allevatori locali supportati da gruppi saheliani similari, cercano di espandersi a spese dei gruppi di agricoltori africani locali.

Ѐ una dinamica sponsorizzata dal regime del deposto presidente El-Bashir che fa ora il gioco delle RSF che potrebbero utilizzarla per crearsi una roccaforte da cui trattare una pace al prezzo di molte concessioni, sul piano politico, economico e amministrativo.

Copyright © Nigrizia - Per la riproduzione integrale o parziale di questo articolo contattare previamente la redazione: redazione@nigrizia.it