Africa, dal land grabbing al land squeeze - Nigrizia
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L’altra faccia della transizione verde
Africa, dal land grabbing al land squeeze
Piccoli agricoltori, popolazioni indigene e piccole comunità rurali schiacciate nella morsa di grandi aziende che estendono il dominio su sempre più ampi appezzamenti di terre. Un fenomeno sospinto dalla corsa alle materie prime, dal mercato dei crediti di carbonio e da progetti di sviluppo energetico “green”
11 Giugno 2024
Articolo di Antonella Sinopoli
Tempo di lettura 5 minuti
(Credit: IPES-FOOD)

È stato definito land squeeze e si tratta, in sostanza, della compressione delle terre a disposizione di chi della terra vive o anche, solo, sopravvive. Land squeeze è più della riduzione degli spazi. Significa carenza, sfruttamento massiccio, intensificazione di colture, pressione sui terreni agricoli per… scopi ambientali.

È un’altra forma di land grabbing che – secondo gli esperti – ha visto il suo peggiore momento negli anni della crisi finanziaria globale del 2007-2008.

L’Africa è il continente che forse ne ha subito le peggiori evidenze. Un recente rapporto di IPES-FOOD rivela che 15 anni dopo, i prezzi globali dei terreni sono raddoppiati, l’accaparramento delle terre è tornato con violenza e gli agricoltori continuano a subirne i danni.

Secondo il report è in atto una massiccia speculazione, una nuova corsa per impossessarsi delle terre, per esempio per sfruttare le miniere, per realizzare mega-insediamenti e per colture di tipo industriale.

Crediti di carbonio

Ma soprattutto, oggi a ricadere sui piccoli agricoltori, le popolazioni indigene, le piccole comunità rurali sono i programmi di compensazione del carbonio e della biodiversità. Tutte situazioni che aumentano la povertà delle aree rurali, l’insicurezza alimentare e la disuguaglianza fondiaria, mettendo a rischio il futuro dell’agricoltura su piccola scala.

I mercati di compensazione del carbonio e della biodiversità – si legge nel report – stanno facilitando l’accesso a vasti territori e a transazioni che stanno portando terreni agricoli e foreste sotto il controllo di grandi inquinatori.

Nel 2023, i mercati di compensazione delle emissioni di carbonio erano già valutati 414 miliardi di dollari a livello globale, cifra destinata a salire fino a 1.800 miliardi di dollari entro il 2030.

Il gigante dei combustibili fossili Shell ha stanziato più di 450 milioni di dollari per progetti di compensazione. Si tratta del cosiddetto carbon offsetting che al di là delle intenzioni con sui sarebbe nato sta provocando gravi danni.

L’emiratina Blue Carbon

Tanto per cominciare, in Africa sono stati distrutti circa 25 milioni di ettari di terreno accaparrato da un’unica società con sede negli Emirati Arabi Uniti, Blue Carbon, attraverso accordi con i governi di Kenya, Zimbabwe, Tanzania, Zambia e Liberia. Ovviamente con grande rischio per le comunità pastorali e indigene.

In Kenya, tanto per capire gli effetti di questi accordi, a novembre dello scorso anno si è verificato il trasferimento forzato di circa 700 membri del popolo Ogiek in relazione proprio agli investimenti di Blue Carbon.

Nata soltanto un paio di anni fa, è un’agenzia privata dello sceicco Ahmed Dalmook Al Maktoum. Con il pretesto di “soluzioni green”, a vincere come al solito sono il business e i soldi. Terreni e risorse vengono destinati ai biocarburanti e alla produzione di energia verde – compreso l’“idrogeno verde” o la conversione di terreni agricoli in parchi solari – compromettendo così la produzione alimentare locale.

Insomma siamo passati dal land grabbing al green grab. E, come è stato già sottolineato, “quasi 150 anni dopo la prima scrumble for Africa, la narrativa sulle ‘transizioni verdi’ e il ruolo che in queste avrà l’Africa si stanno formando principalmente nelle capitali europee e per gli interessi occidentali”.

Insomma, governi e potenti aziende si appropriano di terreni per farne aree di compensazione di carbonio e progetti di biocarburanti e idrogeno verde, che tra l’altro richiedono grandi quantità di acqua.

Attività mascherate da iniziative ambientali, ma in realtà dannose per il clima e la sostenibilità e che poi spostano l’onere della riduzione delle emissioni di carbonio dagli inquinatori del nord del mondo sulle terre dell’Africa.

Accordi fondiari su terreni agricoli

Lo fanno minacciando le stesse comunità che sopportano il peso maggiore del cambiamento climatico e sfollando gli agricoltori locali. Come ricorda African Arguments già il 20% dei grandi accordi fondiari sono green grab e spesso prendono di mira le terre indigene – dato che potrebbe aumentare nei prossimi anni.

Gli impegni dei governi per la riduzione del carbonio in tutto il mondo ammontano già a quasi 1,2 miliardi di ettari di terreno, circa la stessa quantità di terra utilizzata oggi in tutto il mondo per le coltivazioni.

Inoltre, secondo la Land Matrix Initiative, l’Africa è in prima linea nella crisi dell’accaparramento di terre nel sud del mondo, con quasi 1.000 accordi registrati in tutto il continente dal 2000.

Il paese più colpito è il Mozambico con 110 accordi sui terreni agricoli su larga scala. Seguono Etiopia, Camerun e Repubblica democratica del Congo.

A tutto questo, dicevamo, vanno aggiunte le attività minerarie, la crescente urbanizzazione e progetti infrastrutturali. L’effetto è la fuga da aree rurali troppo compresse e non più generatrici di reddito e il riposizionamento degli agricoltori verso lavori salariati.

Oggi, circa il 90% degli accordi fondiari su larga scala deviano i terreni dalla produzione alimentare locale alla produzione di biocarburanti, colture commerciali per l’esportazione, estrazione di petrolio, gas e minerali o compensazione del carbonio.

Sovranità alimentare a rischio

I principi della sicurezza e sovranità alimentare a cui per la prima volta si fece riferimento nel Forum mondiale ospitato in Mali nel 2007, sono quindi fortemente in pericolo.

È proprio per questo motivo che è partito l’appello alla collaborazione con i movimenti popolari di tutto il mondo in vista del prossimo incontro previsto nel 2025.

Appello necessario, si legge, “di fronte al peggioramento del cambiamento climatico, all’aumento della fame, alla strisciante presa di potere da parte delle multinazionali in luogo della democrazia e al sovrapporsi di crisi sociali”.

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