Contro la piaga del caporalato più interventi pubblici e territoriali
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L’immigrazione irregolare rappresenta la maggiore fonte di lavoro in schiavitù
Contro la piaga del caporalato più interventi pubblici e territoriali
Il fenomeno, diffuso in tutti i settori produttivi ma sopratutto nei comparti agroalimentari, è in aumento. Le vittime sono persone in stato di necessità, perlopiù stranieri. Necessari interventi di regolarizzazione e un maggior coinvolgimento sociale a livello locale
24 Novembre 2022
Articolo di Alessandro Monti
Tempo di lettura 7 minuti

Si tratta di un fenomeno in costante espansione nel nostro paese, di non facile soluzione per i troppi interessi ad esso legati e le migliaia di persone che lo alimentano, incapaci di reagire alle organizzazioni e ai racket che ne hanno il controllo.

L’attenzione mediatica prevalentemente rivolta alla cronaca dei singoli casi di sfruttamento del lavoro, richiamati spesso sotto l’etichetta di caporalato, non deve far perdere la visione d’insieme e depotenziare il messaggio di riprovazione di un fenomeno tanto aberrante quanto non episodico.

E dove la ricerca indiscriminata del profitto, più volte condannata anche da papa Francesco, induce a calpestare i diritti e la dignità delle persone coinvolte, fino ad attentare alla loro stessa incolumità fisica. 

Merita dunque approfondirne le dimensioni e le cause della sua vigorosa permanenza e dare indicazioni propositive per una più decisa e condivisa azione di contrasto. Praticato in tutta Europa con varia intensità, il caporalato è presente soprattutto in Portogallo, Romania, Grecia, Spagna e Italia, con modalità differenti ma sempre assai lucrose per chi le promuove.

Nel nostro paese, diffuso sull’intero territorio nazionale e in tutti i settori produttivi, opera con particolare pervasività e asprezza nei comparti agroalimentari. Lo fa attraverso forme illegali di reclutamento e organizzazione della manodopera – inclusa la tratta di esseri umani e la riduzione in schiavitù – che si esercitano nei confronti di persone in stato di necessità, spesso in fuga da guerre e povertà assoluta.

Al riguardo occorre ricordare come molte aziende agricole, strette tra la concorrenza interna e internazionale, e l’incertezza delle “aste a doppio ribasso”, per diventare più competitive e accrescere i profitti, anziché su innovazioni tecnologiche e di processo, abbiano preferito puntare sulla concorrenza sleale, comprimendo al massimo il costo della manodopera.

Non si tratta solo di paghe infime (2-3 euro l’ora) ma di condizioni di lavoro e di vita inumane e degradanti cui sono sottoposti i lavoratori, in gran parte stranieri, stipati in alloggi abusivi privi di servizi igienici, ubicati lontano dai centri abitati, in grado di sottrarsi a ogni controllo.

Fenomeno in espansione

Ufficialmente, le vittime dello sfruttamento sono quelle identificate nell’attività di vigilanza dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) che nel rapporto 2022, ricorda essere “svolta sulla base di preventive attività di intelligence”. In realtà quelle “identificate” sono solo la punta dell’iceberg, la minima parte delle numerose persone colpite da un fenomeno criminale sommerso e in costante propagazione.

Il forte aumento delle vittime scoperte dall’Inl nel 2021 rispetto al 2019 (da 1.488 a 2.192: + 47,3%) e il più che raddoppio dei lavoratori in nero (da 741 a 1.680), appaiono chiari indicatori della tendenza espansiva. Le accresciute ispezioni “mirate”, pure se riferite solo in parte all’agricoltura (11,7%), riflettono l’accresciuta presenza di braccianti in condizione di essere sfruttati che restano in gran parte invisibili.

L’European House Ambrosetti, nel 2020 stimava in 80 i distretti produttivi interessati al fenomeno, con circa 400mila persone coinvolte (oltre 600 milioni di euro l’evasione fiscale e contributiva); mentre nello stesso anno il quinto rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil calcolava in 180mila le persone sottoposte a sfruttamento lavorativo e caporalato nel solo settore agricolo: quasi due terzi in più rispetto al 2018 (110 mila).

Non si dispone di stime aggiornate ma lo sfavorevole contesto socio economico dell’ultimo biennio fa ritenere non invertita la tendenza pregressa e dunque ampliata la sua dimensione. L’immigrazione irregolare rappresenta la maggiore fonte di pescaggio di lavoratori indifesi da sfruttare e ricattare brutalmente.

Ad acuire la loro vulnerabilità ha contribuito la pandemia che ha accentuato fragilità e marginalità sociale di persone già soggette a violenze e torture durante il viaggio e la permanenza nei centri di detenzione in Libia. Il clima politico sociale poco favorevole ad accoglienza e integrazione ha finito per rallentare la regolarizzazione dei lavoratori stranieri che avrebbe ristretto la platea delle potenziali vittime.

Il rapporto 2022 del Centro Astalli, rileva che a fronte di oltre 207mila domande di sanatoria presentate nel 2019 dai migranti, a fine 2021 quelle accolte erano meno del 20%. Provenienti in prevalenza da Nigeria, India, Senegal ed Eritrea, i due terzi degli immigrati vengono trattenuti nei Cas (Centri di accoglienza straordinaria) in condizioni disumane, raggruppati in spazi ridotti (fino a 10 volte in più della prevista capienza) dai quali molti si allontanano per poi cadere nelle mani dei caporali, moltiplicando i casi di sfruttamento soprattutto nelle regioni meridionali.

Mappa del lavoro sfruttato

I comuni con più estesa presenza di alloggi fatiscenti dove sono tenuti i lavoratori agricoli – secondo un’indagine dell’Anci – sono infatti quelli ubicati al Sud. Dei 37 comuni individuati dal ministro del lavoro con il Decreto 55 del 29 marzo 2022 – ai quali destinare 200 milioni del Pnrr per risanare le strutture abusive – quelli con più alta presenza di lavoratori stranieri sono in Puglia (12 comuni, tra i quali spiccano Manfredonia e San Severo) e in Sicilia (8 comuni tra i quali Petrosino, Ispica e Castelvetrano) a ridosso dei luoghi di sbarco dei migranti.

Conferma questa prevalente dislocazione la Mappa geografica del lavoro sfruttato di recente costruita dall’Osservatorio Placido Rizzotto. Delle 405 aree e località individuate, la maggior parte è ubicata nelle regioni del centro-sud con ben 276 aree, di cui 39 nel Lazio, 41 in Puglia e 53 in Sicilia.

Contro il caporalato si sono rivelati efficaci soprattutto gli strumenti di repressione che ora colpiscono anche gli imprenditori corresponsabili (legge 199/2016), mentre le misure di prevenzione sono state del tutto insufficienti. 

Concepite, promosse e attuate prevalentemente a livello di amministrazioni centrali dello stato, ruotano attorno al Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura 2020-22 del ministero del lavoro. 

La stessa Rete di lavoro agricolo di qualità, fiore all’occhiello della politica ministeriale, non è riuscita a decollareIstituita nel 2014 e gestita dall’Inps per incentivare le aziende a rispettare i diritti dei lavoratori e gli obblighi contributivi in cambio di controlli meno penetranti e di offerta di manodopera regolare – lasciata senza adeguato sostegno sul territorio per arginare lo scontato ostruzionismo – ha finora avuto scarso seguito.

Al 7 dicembre del 2021 risultavano iscritte alla Rete soltanto 5.978 aziende: poco più del 2% dei 250/300 mila potenziali aderenti, appena 1.472 in più rispetto all’anno precedente.

Nella strategia ministeriale di prevenzione, un ruolo rilevante è affidato alla vigilanza operata dagli enti coordinati dall’Inl (con personale in aumento di 2.560 unità) che si muove all’insegna del “Più ispezioni, meno lavoro nero. Meno lavoro nero, meno concorrenza sleale”, i cui esiti dovrebbero confluire entro fine 2022 in un’unica banca dati nazionale.

Dipenderà da estensione, continuità e incisività dei loro controlli l’effetto deterrente della Clausola di condizionalità sociale di recente inclusa nella strumentazione d’intervento del Piano della politica agricola comune (Pac).

A partire dal 2023 la sua applicazione consentirà di sospendere, fino a sopprimere, l’erogazione degli aiuti europei alle aziende agricole che violano i diritti e gli obblighi dei contratti collettivi di lavoro e della legislazione sociale.

Interventi territoriali e cittadinanza attiva

Una più fruttuosa azione di contrasto potrebbe però scaturire da un maggior coinvolgimento sociale, sollecitando l’impegno di soggetti pubblici e privati operanti a livello locale: dai comuni ai sindacati, dalle diocesi alle parrocchie, dalle Ong ai semplici cittadini… 

È sul piano territoriale infatti che possono approntarsi interventi più rapidi e puntuali contro l’attività criminale in fieri, o fermarla-denunciarla al suo insorgere. Si attenuerebbero così gli inconvenienti dei defatiganti tempi di definizione e implementazione delle misure ministeriali, durante i quali operano le contromisure del caporalato e dei suoi protettori per neutralizzarne gli effetti. 

Determinante resta il ruolo etico dei cittadini-consumatori. Le loro scelte d’acquisto, maturate sulla base di corrette informazioni sul ciclo produttivo, dovrebbero cadere sui prodotti delle aziende virtuose che operano in regime di legalità.

Le grandi catene di distribuzione dovrebbero essere obbligate a indicare nelle etichette, accanto al prezzo di vendita, l’eventuale adesione del produttore alla Rete di lavoro agricolo di qualità (da rilanciare) e il prezzo di origine corrisposto al produttore, al fine di evidenziare il peso delle successive intermediazioni commerciali. 

L’insieme di attività pubbliche di contrasto sempre più decentrate e mirate, e comportamenti collaborativi individuali sempre più attenti al rispetto dei diritti umani e della dignità della persona, potrebbe essere una strategia finalmente risolutiva per la scomparsa di questo fenomeno aberrante, incompatibile con una vera convivenza civile.

  • L’autore dell’articolo, Alessandro Monti, è professore ordinario di Teoria e politica dello sviluppo, già facoltà di giurisprudenza, all’Università degli studi di Camerino
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