Etiopia, lo stupro come arma di guerra - Nigrizia
Armi, Conflitti e Terrorismo Etiopia
Amnesty International, rapporto sulle violenze nel Tigray
Etiopia, lo stupro come arma di guerra
L’organizzazione per i diritti umani ha raccolto le testimonianze di 63 donne tigrine violentate da militari di Addis Abeba, dagli alleati eritrei e dalla milizia amhara. In spregio a ogni trattato internazionale sulla protezione dei civili. Ed è solo la punta dell’iceberg
11 Agosto 2021
Articolo di Bruna Sironi (da Nairobi, Kenya)
Tempo di lettura 5 minuti
(No credito)
Un particolare della copertina del rapporto di Amnesty International

Le informazioni che arrivano dalle zone di guerra dell’Etiopia sono poche e non facili da confermare, dato il blocco delle reti telefoniche e di internet nel Tigray e nelle altre regioni risucchiate nel conflitto scoppiato all’inizio dello scorso novembre tra Addis Abeba e Macallè, a cui si aggiunge il clima di sospetto, minaccia e paura che grava sul mondo dell’informazione indipendente.

Ma quello che riesce a trapelare è, in genere, di una gravità estrema: violenze, stupri, assassinii a sangue freddo, massacri di civili, attacchi a campi profughi, uso di armi chimiche, blocco degli aiuti alimentari ad una popolazione allo stremo, distruzione di scuole, centri di salute e luoghi storici fondamento dell’identità nazionale e patrimonio dell’umanità intera. In sintesi: violazione di ogni trattato internazionale in materia di gestione dei conflitti armati e di protezione dei civili e dei profughi.

Amnesty International, con il rapporto I don’t know if they realised I was a person: rape and other sexual violence in the conflict in Tigray (Non so se si sono accorti che ero una persona: stupri e altre violenze sessuali nel conflitto in Tigray), presentato oggi, 11 agosto, apre un’autorevole finestra su una delle più gravi violazioni finora denunciate: lo stupro sistematico, usato come arma di guerra.

Si tratta di un documento di 39 pagine che raccoglie le testimonianze di 63 donne sopravvissute a violenze inenarrabili. 15 sono state intervistate di persona, nei campi dei profughi tigrini nell’est del Sudan; 48 hanno rilasciato la loro testimonianza dall’interno del paese, grazie all’uso di mezzi di comunicazione sicuri.

È un susseguirsi di racconti di una violenza disumana, da cui si desume che non ha limite la fantasia malata di uomini in divisa, sguinzagliati dai discorsi d’odio dei loro leader, ubriachi dell’adrenalina del combattimento e che si aspettano l’impunità. Stando alle testimonianze raccolte e verificate da Amnesty International, nel Tigray si sono passati i limiti, già estremi, raggiunti nella ex Jugoslavia, in Darfur e in Sud Sudan.

Crimine sistematico

Emerge che il crimine non è stato perpetrato episodicamente. Si potrebbe dire che abbia caratterizzato l’andamento stesso del conflitto ed è stato commesso dai militari di Addis Abeba e da tutti i loro alleati, i soldati eritrei e le milizie amhara. Tra febbraio e aprile di quest’anno, i centri di salute del Tigray hanno registrato 1.288 interventi per violenza sessuale. L’ospedale di Adigrat, da solo, ne ha registrato 376 casi, dall’inizio del conflitto a giugno di quest’anno.

Si tratta certamente della punta di un iceberg. Gli estensori del documento stimano che una percentuale minima di vittime si sia rivolta alle strutture sanitarie, dato lo stigma che nella regione colpisce le donne violate, l’insicurezza degli spostamenti e la distruzione di molti presidi sanitari. A conferma, gran parte delle donne intervistate per la ricerca non vi erano passate.

Inoltre, i loro racconti riguardano non solo sé stesse, ma innumerevoli donne con le quali hanno subito violenza. Componenti della stessa famiglia o abitanti dello stesso villaggio. Ma anche sconosciute ammassate nello stesso luogo, spesso un campo militare, da usare come schiave sessuali dalla soldataglia, a turno. Nessun rispetto per l’età e per le condizioni: anziane, bambine e donne vicine al parto hanno subito gli stessi assalti, generalmente di gruppo.

Assalti pubblici, effettuati di preferenza davanti ai familiari, ai figli, agli uomini di casa, poi passati per le armi. Assalti fisici accompagnati da insulti legati al gruppo etnico di appartenenza o individualmente e umanamente degradanti. In diversi casi gli assalitori hanno spinto nella vagina delle loro vittime oggetti come chiodi, pietre aguzze e pezzi di plastica dura allo scopo di provocare danni permanenti e l’impossibilità di procreare. Una volontà di sterminio impressa nel corpo delle donne.

Molte delle vittime hanno riportato danni irrecuperabili e si trovano in stato di precaria salute mentale: depressione, insonnia, incubi le accompagnano di giorno e di notte senza che possano trovare un’assistenza adeguata, sottolinea il rapporto. Molte saranno segnate per sempre da azioni aberranti, che si configurano come crimini di guerra e contro l’umanità, forse anche come tentativi di genocidio che, ci si augura, saranno presto giudicati dai tribunali competenti.

Processo “per le allodole”

Per ora, il governo di Addis Abeba, che si dice estraneo a simili atrocità, ha portato in giudizio una manciata di soldati semplici. L’esito del processo non è ancora noto. L’impressione, anzi la quasi certezza, è che si tratti di uno specchietto per le allodole ad uso e consumo dell’informazione ufficiale, costantemente manipolata, da dare in pasto all’opinione pubblica interna e, soprattutto, internazionale.

Altre notizie terribili aspettano di essere confermate e chiarite. L’ultima riguarda l’assalto ad un campo di sfollati, nella regione Afar, in cui ci sarebbero stati almeno 200 morti, più di un centinaio dei quali bambini. Le notizie sono ancora frammentarie, le responsabilità non ancora accertate. Così come non è ancora chiaro di chi siano i corpi ripescati nel fiume Setit, o Tacazzé come è conosciuto in Etiopia.

Certamente persone giustiziate sommariamente, a giudicare dalle ferite, e forse buttate nel fiume perché i coccodrilli li facessero sparire per sempre. Se così fosse, i corpi ripescati e a cui è stata data sepoltura potrebbero essere una frazione delle vittime di un massacro, un altro tra i tanti che hanno caratterizzato questo periodo della storia etiopica.

Si sta assistendo, insomma, alla discesa verso un inferno ogni giorno più profondo che renderà ancor più difficili le già complesse relazioni tra i diversi gruppi etnici e le diverse regioni che compongono lo stato federale dell’Etiopia. Sempre che sia possibile ricucire strappi tanto dolorosi.

Diversi analisti cominciano a pronosticare una conclusione del conflitto simile a quella che mise fine alla Jugoslavia… Non è un caso che il Fonte popolare per la liberazione del Tigray (Tplf), che ha ripreso il controllo di gran parte della regione, avanzi ormai chiaramente il diritto di autodeterminazione.

Un’Etiopia polverizzata in diversi staterelli è una eventualità certamente non auspicabile per il paese e neppure per l’equilibrio complessivo delle già instabili relazioni regionali.

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