Mozambico: 11 condanne per lo scandalo del debito occulto
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Un processo che ha messo in luce schemi corruttivi ad alti livelli nel partito al potere
Mozambico: 11 condanne per lo scandalo del debito occulto
Concluso con 11 condanne e 8 assoluzioni il processo sulla frode per oltre 2 miliardi di dollari ai danni dello stato. Le pene maggiori (12 anni) al figlio dell’ex presidente Guebuza e a due alti funzionari dell’intelligence
12 Dicembre 2022
Articolo di Luca Bussotti
Tempo di lettura 4 minuti

È stato il processo più mediatico che mai si sia visto in Mozambico, quello relativo al maggior scandalo finanziario di un paese africano, con un ammanco di 2,2 miliardi di dollari per l’erario pubblico, scoppiato nel 2016.

Mediatica è stata anche la lettura della sentenza da parte del giudice Efigenio Baptista: ci sono voluti cinque giorni per leggere le motivazioni, stampa presente, delle circa 1.500 pagine che hanno preceduto la sentenza. In mezzo, speculazioni e guerre intestine all’interno del partito che da sempre ha governato il Mozambico, il Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico).

Dei 19 accusati, 8 sono stati assolti e 11 condannati. Chi ha avuto le pene maggiori è stato Ndambi Guebuza, il figlio dell’ex presidente Armando Emílio Guebuza che si sarebbe messo in tasca 33 milioni di dollari, funzionando da intermediario fra i vertici del governo (cioè il padre, ascoltato come semplice teste) e Privinvest, la società con sede ad Abu Dhabi che avrebbe dovuto realizzare un investimento nell’area della sicurezza marittima in Mozambico, ben presto trasformatosi in un enorme schema di corruzione.

Insieme a Ndambi Guebuza, 12 anni di prigione sono stati comminati anche ai due alti funzionari del Sise (l’intelligence locale): il direttore generale Gregório Leão, ex-ambasciatore del Mozambico a Lisbona, e António Carlos do Rosário, il responsabile economico e vero deus ex-machina dell’operazione.

Insieme a loro ha ricevuto la stessa pena il consigliere politico di Guebuza, Renato Matusse, così come due mediatori, Bruno Langa e Teofilo Nhangumele. Altri imputati, fra cui la moglie di Gregório Leão, Ângela Leão, l’ex-segretaria del presidente Guebuza, Maria Inês Moiane, e due imprenditori che avrebbero avuto il ruolo di riciclare il denaro proveniente dalle mazzette, Bruno Langa e Sérgio Namburete, sono stati condannati a 11 anni, mentre 10 anni sono stati inflitti a Cipriano Mutota, ex capo del contro-studi del Sise.

La sentenza ha subito diviso l’opinione pubblica mozambicana. In particolare, i critici hanno sottolineato come in un processo per certi versi simile, quello contro l’ex-ministra del lavoro, Maria Helena Taipo, la condanna sia stata di 16 anni, ma l’ammanco fosse stato di “soli” 2 milioni di euro, contro i più di 2 miliardi del processo appena conclusosi.

Inoltre, i condannati hanno, in media, già scontato 4 anni di prigione preventiva. In base al nuovo codice penale essi potranno uscire – godendo della libertà condizionale – una volta scontata la metà della pena, ossia a febbraio del 2025.

Il giudice Baptista, secondo quanto affermato dal presidente dell’associazione mozambicana dei giudici, Carlos Mondlane, avrebbe scelto di non considerare le aggravanti dei reati economici contro gli imputati.

Secondo Mondlane, uno dei redattori del nuovo codice penale, le condanne avrebbero potuto essere fissate fino a 30 anni di reclusione, nel caso in cui le aggravanti fossero state previste, visto anche l’atteggiamento degli accusati, che in nessun caso hanno mostrato un pentimento sincero nel corso del dibattimento.

Le speculazioni di una sentenza politicamente pilotata sono immediatamente circolate. Tuttavia, l’avvocato di Ndambi Guebuza ha già affermato che tutto il processo, condanna compresa, è il risultato di una volontà persecutoria nei confronti dell’ex-presidente e della sua capacità di influenza politica all’interno del Frelimo, mentre il legale di Gregório Leão ha già preannunciato ricorso.

Quel che a tutti è parso evidente è che un intero sistema di potere, quello del Frelimo, è ormai da anni entrato in una modalità di governo in cui le pratiche corruttive fanno da pandant con l’impunità e l’arroganza, grazie anche a una magistratura sonnolenta che si sveglia soltanto se sollecitata dal potere politico.

La via giudiziaria, infatti, sta diventando un modo per risolvere conflitti interni talvolta insanabili, contando sull’incapacità, da parte delle opposizioni, di proporsi come reali alternative a un sistema di potere ormai logoro, ma che non accenna a mollare l’osso.

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