Rd Congo: le guerre fanno bene all’ambiente - Nigrizia
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Il peccato originale dell'articolo dell'Atlantic è che si è scordato delle vittime, a milioni, delle violenze dei vari conflitti
Rd Congo: le guerre fanno bene all’ambiente
La provocazione è contenuta in un pezzo uscito nella rivista liberal americana. Le continue violenze non incentiverebbero le multinazionali a investire nello sfruttamento della foresta pluviale. Una posizione che ha destato scandalo nel paese dei Grandi Laghi. Tre esponenti della società civile hanno scritto una lunga replica al giornale
30 Gennaio 2024
Articolo di Gianni Ballarini
Tempo di lettura 5 minuti

Talvolta i paradossi si trasformano in provocazioni irriverenti.

È quello successo in Rd Congo nelle ultime settimane. Che cosa è accaduto?  Il 5 dicembre 2023 è uscito per la rivista statunitense The Atlantic un articolo spiazzante che ha destato scandalo e indignazione non solo nel paese dei Grandi Laghi. L’autore è il Senior Editor della storica rivista liberal (è nata nel 1857), Ross Andersen.

Il titolo originario era War in the Congo Has Kept the Planet Cooler (La guerra in Congo ha mantenuto il pianeta più freddo). Il giornalista descrive nei dettagli come la guerra e la violenza nella Repubblica democratica del Congo possano essere tra i fattori (forse perfino “il” fattore) che sta impedendo lo sfruttamento della foresta pluviale del Congo.

In sostanza: la guerra fa bene all’ambiente.

I conflitti hanno ridotto la deforestazione?

Decenni di conflitti nell’Ituri, nel Kivu e in altre aree del paese avrebbero ridotto le opportunità di deforestazione di massa. La continua instabilità, questo il pensiero di Andersen, avrebbe fatto fuggire a gambe levate «le società multinazionali, più caute nell’avviare grandi operazioni di taglio e incendio rispetto a quanto fatto in passato» lasciando in gran parte intatti, finora, «i 500 milioni di acri di foresta del Congo».

Quando i dissesti e i dissensi suscitati dall’articolo, soprattutto sui social, sono giunti nella redazione di Washington, i responsabili si sono affrettati a cambiarne il titolo in un più morbido The grim ironies of climate change (Le tristi ironie del cambiamento climatico). Con il sommarietto riparatorio: Guerra e deforestazione hanno un rapporto complicato.

Un passo indietro, tuttavia, che non ha convinto. Le polemiche erano già innestate e non si sono affatto attenuate. Se la difesa delle foreste è una battaglia sacrosanta, dicono le associazioni congolesi, il peccato originale dell’articolo è l’essersi scordato dei morti dei vari conflitti. Ha cancellato dal suo orizzonte la vita umana. Come se quei morti congolesi contassero di meno delle vittime per il cambiamento climatico.

Il bilancio dei conflitti nella sola area orientale dell’Rd Congo, dal 1996 ad oggi, è di circa 6 milioni di morti. Quasi 7 milioni gli sfollati anche a causa dei conflitti legati all’attività mineraria. Sarebbero più di un milione i congolesi che hanno chiesto asilo in altri paesi tra cui Angola, Uganda, Tanzania e Zambia.

Uno scenario mortificante.

La lunga lettera all’Atlantic

Per questo tre esponenti della società civile congolese (Nteranya Ginga – consulente per lo sviluppo internazionale, impegnata nel campo della riabilitazione, riconciliazione e reintegrazione degli ex bambini soldato –, Tshimundu – scrittore e artista congolese – Koko Ginga – studentessa di Scienze politiche e sociologia e scrittrice emergente – J. Munroe – dottorando  di ricerca presso l’Università di Oxford) hanno deciso di prendere carta e penna e di scrivere una lunga lettera inviata alla redazione del giornale americano.

Netta la loro presa di posizione: «Sostenere che la guerra sia benefica per il clima senza sottolineare le vittime umane consente discussioni che possono essere perverse e non etiche. Una tesi che implica come le vite, le vite africane, siano usa e getta in funzione della ricerca di soluzioni climatiche». L’articolo dimostra «l’incapacità di vedere gli esseri umani come parte dell’ambiente», impedendo loro di essere inclusi tra i soggetti che si spendono per la soluzione climatica. «La via da seguire per salvare l’ambiente non è uccidere le persone».

Ricordano ad Andersen che un approccio articolato del suo pezzo poteva dimostrare come la guerra consenta devastazioni climatiche, «principalmente derivanti dall’estrazione mineraria illegale e dal contrabbando, dal furto della terra e dall’erosione del suolo».

«Un rapporto del Servizio internazionale di informazione sulla pace (IPIS) e di USAID  (l’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale) spiega come i gruppi armati non statali utilizzino le miniere come parte del loro meccanismo di finanziamento». Non solo. Il Rapporto 2017 dell’UNEP punta il dito contro quelle stesse attività indicandole tra le responsabili «di risultati ambientali allarmanti, tra cui l’inquinamento da metalli pesanti, quello del territorio e l’aumento della deforestazione».

Non trascurando, poi, come la continua violenza e la guerra forniscano copertura per violazioni dei diritti umani e della protezione ambientale. «Secondo la Coalizione forestale globale», scrivono gli autori, «l’estrazione del coltan rimane tra i principali fattori della continua deforestazione nella Rd Congo. Permane lo sfruttamento del lavoro minorile, con oltre 40mila bambini minatori».

La lunga lettera elenca rapporti, testimonianze, denunce che in questi anni collegano le violenze sulla popolazione con lo sfruttamento del territorio e del suo equilibrio ambientale.

Alla fine, i quattro firmatari si chiedono perché realtà editoriali come The Atlantic non si impegnano a pubblicare i loro lavori nel modo più accurato possibile, «soprattutto quando tale lavoro può costituire un precedente per argomenti e dibattiti non etici e perversi. L’articolo di Andersen, forse non oggi, ma tra cinque, dieci, vent’anni, potrà essere utilizzato come base per tesi estremiste che propongono la guerra come soluzione per la preservazione del clima».

Postilla: gli arsenali viaggiano a braccetto con le emissioni di gas serra

Postilla finale che non si trova nelle righe vergate da Ginga, Tshimundu e Ginga.

In occasione della Cop27 del Cairo, sul finire del 2022, è uscito un rapporto intitolato Climate Collateral. How military spending accelerates climate breakdown (Clima collaterale. Come la spesa militare accelera il collasso climatico) presentato da Transnational Institute, Stop Wapenhandel, Tipping Point North South, Global Campaign on Military Spending.

Queste organizzazioni della società civile hanno dimostrato come la spesa militare e le emissioni di gas serra viaggino a braccetto sulla stessa ripida curva ascendente. Cosa significa? Che ogni dollaro speso per i militari e per la vendita di armi, non solo distoglie risorse finanziarie, competenze e attenzione nell’affrontare la grave minaccia rappresentata dalla crisi climatica. Ma aumenta in modo considerevole le emissioni di anidride carbonica.

Infatti, c’è una correlazione così stretta, che i paesi più incontinenti nello spendere grosse somme per i loro arsenali sono anche i principali emettitori storici e attuali di schifezze nell’aria. Forse dalle armi dei conflitti congolesi spuntano fiori?

Con buona pace di Andersen: le guerre africane contribuiscono al collasso ambientale.

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