
In questi difficili anni di dopoguerra in Sud Sudan, nella speranza che il conflitto non venga riaperto, la Chiesa cattolica ha offerto assistenza umanitaria a popolazioni duramente provate. Nella parrocchia di Tonga, regione dell’Alto Nilo, un soldato ha recentemente commentato con il parroco: «È bene quanto la Chiesa ha fatto nel distribuire cibo ai più bisognosi, ma abbiamo bisogno anche di qualcosa per liberare la nostra mente».
Usando un linguaggio figurato, il soldato si riferiva al trauma psicologico lasciato da un lungo periodo di violenza. Un’altra espressione figurata, di una donna del gruppo etnico nuer, è diventata tristemente famosa fra le organizzazioni umanitarie: «A causa della sofferenza le nostre menti si sono oscurate».
Il programma di azione a favore della pace del Consiglio ecumenico delle Chiese del Sud Sudan include fra le sue priorità la guarigione dal trauma in vista della riconciliazione fra sudsudanesi che si sono trovati su fronti opposti durante la guerra civile (2013-2018). Lo stesso accordo di pace sottolinea la necessità di un processo nazionale di guarigione e riconciliazione. L’appello del soldato non cade dunque nel vuoto.
Personalmente ho partecipato ad attività mirate a creare consapevolezza del trauma e a ridurlo, conosciute anche come interventi di aiuto psico-sociale. La perdita di persone care, di proprietà, soprattutto la casa, e anche della terra, hanno lasciato tracce profonde nella psiche di molti. Dal 2015, epoca del primo (fallito) accordo di pace, alcune parrocchie hanno organizzato giornate per invitare la gente a riconoscere gli effetti negativi della violenza, a integrare in una prospettiva di fede quanto accaduto e, per quanto possibile, a superarlo. L’integrazione e il superamento, almeno parziali, sono necessari per entrare in una prospettiva di riconciliazione.
Una di queste attività ha avuto luogo recentemente ad Owechi, sempre in Alto Nilo, con la partecipazione congiunta di civili e membri dell’esercito. Durante le sessioni e presentazioni vedevamo a meno di 100 metri un carro armato e veicoli corazzati, di per sé un messaggio esattamente opposto alla riconciliazione in quanto mezzi atti a distruggere e quindi causa diretta dei traumi. La grossa struttura metallica del carro armato, arma costosissima, fa pensare a quanto lavoro vi è stato impiegato al fine ultimo di eliminare vite umane e di terrorizzare.
Gran parte di coloro che partecipano ad attività per la guarigione dal trauma della guerra affermano che guarire è veramente possibile solo quando vi sia pace. Il vicecomandante della guarnigione di Owechi ha dichiarato che la gente non sentirà più la “voce” del carro armato. È il «fragore delle armi» di cui parla la Bibbia.
I militari dei gruppi che si sono scontrati durante la guerra civile sono attualmente impegnati nel processo di unificazione delle forze previsto dall’accordo di pace. La promessa del vicecomandante ai civili è un segno positivo: le conseguenze dell’uso delle armi sono pesanti e durature. La violenza ha il potere non solo di eliminare vita ma anche di oscurare le menti di coloro che sopravvivono.
Accordo di pace
Siglato il 18 settembre 2018 ad Addis Abeba, prevede la formazione di un governo di transizione. La data prevista per il varo del nuovo esecutivo era il 22 febbraio. Il presidente Salva Kiir e l’ex capo ribelle Riek Machar si sono incontrati più volte a porte chiuse nella capitale dell’Etiopia. Uno dei nodi è il numero degli stati che devono formare la federazione sudsudanese: Kiir ne vuole 32, mentre Machar spinge per un ritorno ai 10 iniziali. Sul negoziato su sono espressi il 12 febbraio anche Usa, Gran Bretagna e Norvegia, incoraggiando le parti ad arrivare a un compromesso e rilevando che si sta mettendo a rischio la tenuta del cessate il fuoco