Sace: stato di garanzia - Nigrizia
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L’inchiesta di Re:Common
Sace: stato di garanzia
L’azienda italiana per il credito all’esportazione ha erogato negli ultimi tre anni 77 miliardi di euro per la copertura di aziende “nostrane” che operano in “paesi a rischio”, molti dei quali in Africa. Molti di questi soldi finanziano progetti ad alto impatto ambientale, come quelli in Uganda e in Mozambico
31 Marzo 2021
Articolo di Luca Manes (Re:Common)
Tempo di lettura 4 minuti
sace

In Italia c’è un’agenzia statale di cui si sa molto poco, che non fa certo della trasparenza il suo tratto distintivo e che maneggia miliardi di euro. Si chiama Sace, è controllata al 100 per cento della Cassa depositi e prestiti, ma a breve potrebbe tornare sotto il controllo diretto del ministero dell’economia, come accadeva in passato.

La Sace è la nostra agenzia di credito all’esportazione, ovvero assicura le imprese italiane contro i rischi commerciali e politici in paesi “a rischio”. Se questi ultimi non pagano, ci pensa Sace – con fondi in buona parte pubblici – per poi rivalersi sui governi inadempienti. In teoria tutte le aziende, di qualsiasi dimensione, possono beneficiare dei servizi della Sace. In pratica “l’aiuto” va ai soliti noti, i campioni nazionali (e partecipati dallo Stato) come Eni, Leonardo o Fincantieri.

Di Sace spiega l’importanza sullo scacchiere nazionale e internazionale l’ultima pubblicazione di Re:Common, Stato di garanzia, partendo da alcuni dati tutt’altro che banali: 77 miliardi di euro di risorse a disposizione negli ultimi tre anni, 46 miliardi di operazioni nel solo 2020 (6 in più dell’ultima legge di bilancio italiana), 8,6 miliardi per il comparto dei combustibili fossili dal 2016 (anno di entrata in vigore dell’Accordo di Parigi sul clima) al 2020.    

Spicca la “presenza” in Africa, dove la Sace ha concesso due garanzie a Eni e Saipem per 700 e 900 milioni di euro per i progetti di estrazione di gas offshore in Mozambico, denominati Coral South e Mozambique Lng. Una terza garanzia è in arrivo per Rovuma Lng, sempre in favore dell’Eni.

Nell’area di Cabo Delgado, dove sono presenti gli impianti e le sedi della stessa Eni, della statunitense ExxonMobil e della francese Total, si stanno registrando continui attacchi terroristici da parte di gruppi locali. Si contano in circa 3mila le vittime e oltre mezzo milione gli sfollati, in quella che è ormai un’emergenza umanitaria tra le più gravi al mondo.  

Il governo mozambicano ha risposto con la militarizzazione del territorio, dando priorità alla protezione delle infrastrutture del gas, a volte su richiesta e dietro pagamento delle stesse multinazionali. L’afflusso di compagnie di sicurezza private francesi, americane, russe e sudafricane ha contribuito a spargere benzina sul fuoco. Gli abusi da parte dei soldati sulle popolazioni locali non si contano più, come certificano i video e le testimonianze diffuse dalla Ong Amnesty International.

Nel frattempo, il governo si è nuovamente indebitato al punto che, pur di ottenere la ristrutturazione del suo debito, ha dovuto dare in dote le entrate previste dalla vendita di gas nei prossimi dieci anni a investitori nord-americani. La popolazione locale non ne avrà neanche un metro cubo per le sue esigenze.

La Sace non ha poi smentito la possibilità di un suo coinvolgimento nella contestata East african crude oil pipeline (Eacop), che vede impegnate anche Saipem e Nuova Pignone – e forse Bonatti – per l’incipiente costruzione del più lungo oleodotto riscaldato del pianeta, con i suoi 1.443 chilometri. Un’opera che dal lago Alberta arriverà fino in Tanzania, comportando forti ricadute negative sulle popolazioni locali e sull’ambiente. 

Anche criticare l’Eacop porta con sé crescenti rischi, come possono testimoniare gli attivisti e giornalisti ugandesi arrestati per aver manifestato pacificamente la loro opposizione al progetto ad Hoima, località che ospiterà la raffineria da cui partirà l’oleodotto. Misure restrittive che hanno colpito anche gli attivisti locali di Fridays for Future.    

«Il nuovo esecutivo guidato da Mario Draghi ha sbandierato ai quattro venti l’intenzione di puntare forte sulla transizione ecologica, istituendo addirittura un ministero ad hoc. Dovrebbe allora partire dal rivedere alla radice l’impegno di Sace nei confronti del comparto dei combustibili fossili, esigendo dall’agenzia un cambio di linea in merito all’erogazione dei suoi finanziamenti, per esempio facendo come il governo britannico, che ha annunciato lo stop agli investimenti pubblici in progetti fossili all’estero» ha affermato Alessandro Runci, autore del rapporto Stato di garanzia insieme ad Antonio Tricarico.

Re:Common auspica un cambio di passo anche in materia di trasparenza, visto che anche rispetto ad altre omologhe internazionali l’agenzia lascia a desiderare e troppo spesso si trincera dietro la comoda barriera della “confidenzialità commerciale”.

Scavare nelle operazioni e nei provvedimenti legislativi e amministrativi che regolano il funzionamento della Sace, visto il suo ruolo e il budget a disposizione, dovrebbe diventare una delle priorità della società civile, nonché del mondo dei media.

 

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