Gli “stati ombra” che minacciano le democrazie in Africa - Nigrizia
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Due studi analizzano i livelli di penetrazione di entità esterne negli apparati statali
Gli “stati ombra” che minacciano le democrazie in Africa
Le analisi concentrano l’attenzione su nove nazioni del continente nelle quali gruppi o individui di potere sviluppano pressioni politiche ed economiche in grado di dirottare le scelte dei governi a proprio vantaggio
21 Settembre 2021
Articolo di Antonella Sinopoli
Tempo di lettura 7 minuti
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(Credit: Shutterstock)

Reti di potere private, gruppi economici influenti, network di individui e organizzazioni in grado di orientare i policy maker. E ancora faccendieri, apparati legislativi, decisori ministeriali. Ma anche commissioni elettorali e persino i media. Messi insieme, ma anche presi singolarmente, contribuiscono a creare i cosiddetti “stati ombra”. Che operano per manipolare gli apparati politici di stati e governi per dirottare decisioni, leggi, scelte economiche a proprio vantaggio anziché a beneficio dei cittadini.

Insomma, una vera e propria minaccia sia alle libertà civili che allo sviluppo inclusivo in Africa. E, in una parola, alla democrazia. Una situazione che non solo mina la trasparenza e responsabilità degli apparati di governo, ma facilita la corruzione e l’abuso di potere, soprattutto in contesti più autoritari.

Cose che si sanno da tempo, che si cerca – spesso goffamente – di nascondere ma che oggi due report mettono nero su bianco. Uno è stato pubblicato dal Ghana Center for Democratic Development e si concentra su cinque paesi: Benin, Ghana, Kenya, Mozambico e Nigeria. Lo studio dimostra il livello di presa di potere e sovversione delle istituzioni democratiche da parte di entità esterne allo stato.

Il secondo rapporto, curato da Democracy in Africa, esamina come reti non elette possono infiltrarsi e sovvertire le strutture statali. In questo caso, gli esperti hanno studiato i casi di stati ombra nella Repubblica democratica del Congo (RdC), Uganda, Zambia e Zimbabwe.

Ciò che salta agli occhi, innanzitutto, è che gli “stati ombra” operano anche in contesti di sviluppo e di riconosciuta democrazia – pensiamo al Ghana, con il più alto indice di Pil di tutti i paesi analizzati, con una stampa libera e una lunga alternanza di governi democraticamente eletti – e soprattutto dove gli interessi economici, per esempio lo sfruttamento di risorse minerarie e petrolifere, è molto forte.

Naturalmente, il livello di penetrazione negli apparati dello stato e quindi di capacità di agire all’interno di esso, varia a seconda della storia dei singoli paesi. È relativamente più basso o meno pronunciato in paesi come il Ghana, appunto, con un’esperienza di molteplici trasferimenti di potere attraverso elezioni libere e sempre molto partecipate, e molto più alto in stati come lo Zimbabwe, invece, dove il governo non ha mai in sostanza cambiato mano.

Entrambi i rapporti dimostrano, comunque, che in molti paesi africani (ovviamente non in tutti), importanti decisioni politiche ed economiche non sono prese da individui e apparati statali responsabili nei confronti dei cittadini, ma da reti che comprendono membri dell’esecutivo, faccendieri politici, famiglia del presidente, giudici, uomini d’affari, alti funzionari, capi militari e finanzieri internazionali.

In alcuni casi, queste reti attraversano i confini nazionali, sia attraverso profondi legami con società internazionali, sia attraverso l’integrazione in reti criminali organizzate transnazionali, in modo che risorse significative vengano portate fuori dal paese.

Oltre al livello di espansione e di presenza di realtà esterne allo stato che quello stato però “amministrano”, varia anche la forma che assumono queste reti di controllo. In Uganda, lo “stato ombra” è gestito da un’asse della famiglia del presidente Yoweri Museveni e dall'”aristocrazia militare” del paese, insieme a un numero selezionato di interlocutori della comunità imprenditoriale.

In Benin, le cose sembrano molto diverse. Qui, il presidente Patrice Talon ha sfruttato la debolezza del sistema legale, giudiziario e legislativo, per trasformare una delle democrazie più vivaci del continente in uno stato quasi a partito unico.

Nella Repubblica democratica del Congo, le alleanze militari internazionali intorno agli ex presidenti Laurent Kabila prima e Joseph Kabila poi, hanno svolto un ruolo fondamentale nella creazione di uno “stato ombra” intimamente connesso alle reti transnazionali di contrabbando, soprattutto di minerali preziosi.

In Zambia le forze di sicurezza hanno giocato un ruolo scarso nella “cattura della democrazia” che invece è guidata dalla collaborazione tra politici civili, funzionari governativi e uomini d’affari privati. Individui che, con l’ex presidente Edgar Lungu, hanno portato il paese sull’orlo del fallimento. C’è da dire che tutto questo in Zambia non ha impedito, proprio quest’anno, un trasferimento di potere.

In Zimbabwe, al contrario, dall’inizio degli anni 2000 è andata sempre aumentando l’importanza dell’esercito che man mano è penetrato in aree dello stato e dell’economia, tant’è che ormai ci si domanda se a detenere il potere e ad agire come rappresentante del paese sia il presidente Emmerson Mnangagwa – peraltro finito di recente nell’occhio del ciclone per l’emersione i torbidi affari del potente magnate zimbabweano suo ex consigliere – oppure siano i vertici militari.

Capire come ci si appropria della democrazia – si legge nell’introduzione ai report – aiuta a spiegare la mancanza di progressi in molti paesi verso il consolidamento democratico. Ma anche a rispondere alla domanda di come sia possibile che governi che non riescono a rispondere alle esigenze dei cittadini, a colmare i gap nello sviluppo e nella giustizia sociale, riescano comunque a rimanere alla guida del paese. E a lungo.

Nelle analisi dei report si fanno esempi concreti di come i gangli del potere occulto riescano a manovrare ogni ambito e sempre a danno o svantaggio della popolazione. Si sottolinea come, in Nigeria “giudici miliardari” facciano fortuna accettando tangenti per scagionare leader politici e organizzazioni criminali, facilitando la corruzione e creando una cultura di impunità che mina sia la responsabilità democratica che lo stato di diritto.

Come funzionari della sicurezza, direttori di banca, funzionari elettorali, giudici e giornalisti colludano con i membri del partito al governo per impedire a quelli dell’opposizione di condurre efficacemente una campagna elettorale. Questo in paesi come Mozambico, Uganda e Zimbabwe, dove si impedisce di fatto il trasferimento democratico del potere a fine mandato.

Si analizza, inoltre, il modo in cui la polizia e i militari nella RdC abbiano istituito posti di comando vicino a nuovi pozzi minerari, non per proteggere i lavoratori, bensì per emettere “tasse” non ufficiali. Si è arrivati ad una situazione in cui alcuni operatori minerari sono costretti a pagare 40 gabelle – solo 9 delle quali sono quelle ufficiali imposte del governo nazionale.

Ma anche come le aziende con legami con il partito di governo e l’esercito in Zimbabwe abbiano usato le loro “amicizie” e network per creare artificialmente una carenza di carburante che ha permesso poi di gonfiare i prezzi a spese degli automobilisti, creando grandi difficoltà per imprese e cittadini.

O il modo in cui presidenti come l’ugandese Yoweri Museveni rilascino esenzioni fiscali ai loro alleati commerciali in cambio di contributi finanziari alla loro campagna elettorale, in un capitale denominato addirittura “fondo di guerra”. In tal modo le entrate del Tesoro si assottigliano per centinaia di milioni di dollari, riducendo contemporaneamente i fondi che avrebbero dovuto essere destinati alla salute e all’istruzione.

Infine, altro esempio concreto è quello del Ghana, dove la conquista parziale della democrazia ha contribuito all’emergere e consolidarsi della “classe alta” di ghaneani ma non sempre per meriti personali. Anzi. Moltissimi – individui e famiglie – sono diventati ricchi, e anche molto ricchi, grazie al loro accesso privilegiato allo stato, ai politici del partito di governo e di opposizione, e ai loro “amici” nel settore degli affari e nella direzione degli apparati burocrati dello stato.

Ovvio che la popolazione di questi nove paesi analizzati sia ampiamente consapevole delle “debolezze” (in questo caso il termine è davvero un eufemismo) dei loro apparati e rappresentanti statali, e questo mina profondamente sia la fiducia nella democrazia sia il senso civico che scarseggia a partire dai più alti livelli istituzionali. Situazioni di sfiducia e mancanza di certezze che mettono ulteriormente a repentaglio la sicurezza e il vivere civile.

E i cui danni sono evidenti: dalla creazione di una cultura dell’impunità, che facilita la corruzione e distoglie risorse dagli investimenti produttivi, alla manipolazione della spesa e risorse pubbliche per sostenere le reti clientelari, dirottare investimenti in mani private e garantire così la sopravvivenza politica dello “stato ombra”.

Dall’esistenza di reti di monopolio e oligopolio che aumentano i prezzi e consentono alle aziende legate allo “stato ombra” di realizzare profitti eccessivi. Tutte situazioni che mantengono le popolazioni in stato di bisogno e povertà. Capovolgere questo quadro è la vera sfida delle democrazie africane.

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