Libia: mediazioni Onu tra accelerazioni e incognite
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Approvato l’emendamento alla Costituzione che stabilisce le procedure per l’elezione di presidente, primo ministro e deputati
Libia: la mediazione delle Nazioni Unite tra accelerazioni e incognite
Comincia a raccogliere consensi la proposta dell’inviato speciale dell’Onu, Abdoulaye Bathily, di istituire un Alto Comitato che includa tutte le fazioni libiche e supervisioni il processo elettorale. Anche se resta il “no” di Khaled el-Mishri, presidente del Consiglio supremo di stato. Continuano le pressioni Usa contro la presenza del gruppo russo Wagner nel paese
07 Marzo 2023
Articolo di Giuseppe Acconcia
Tempo di lettura 6 minuti
Abdoulaye Bathily,, inviato speciale delle Nazioni Unite,

Continua a raccogliere consensi il piano annunciato dall’inviato speciale delle Nazioni Unite, Abdoulaye Bathily, per avvicinare la data delle elezioni in Libia, attese dal 2014. Dopo l’endorsement britannico, anche il vicepresidente del Consiglio presidenziale, Abdullah Al-Lafi, ha parlato di un processo che legittimi le istituzioni libiche dichiarando il suo sostegno per il piano di Bathily.

Il piano Bathily per una roadmap che conduca al voto

La scorsa settimana Bathily aveva annunciato un piano, targato Onu, per superare lo stallo politico che ha impedito lo svolgimento delle elezioni nel dicembre 2021. Se i parlamenti di Tripoli e Tobruk non sono stati in grado di superare la diffidenza reciproca, Bathily ha proposto l’istituzione di un “Alto Comitato” che includa tutte le fazioni libiche e supervisioni il processo elettorale.

I membri del Comitato includerebbero i protagonisti dell’Accordo di Shkirat (2015), il Comitato militare 5+5 (che unisce gli alti ufficiali di Cirenaica e Tripolitania), insieme ai membri di Camera e Consiglio di stato. L’obiettivo dell’iniziativa sarebbe quello di impedire i veti reciproci, che fino a questo momento hanno ostacolato lo svolgimento del voto. In questo caso sarebbe l’“Alto Comitato” a proporre la roadmap che porti la Libia ad affrontare la scadenza elettorale entro il 2023.

A scoraggiare gli entusiasmi iniziali, dopo la proposta di Bathily, ci ha pensato però Khaled el-Mishri, presidente del Consiglio supremo di stato, che ha giudicato l’iniziativa come «un attacco alla sovranità nazionale». Non solo, el-Mishri ha anche chiesto al premier di Tripoli, Abdel Hamid Dbeibah, di non presentare la sua candidatura.

Particolarmente controversi sono i nodi della cittadinanza del nuovo presidente, la possibilità di avere candidati militari alla presidenza, voluti dal generale della Cirenaica Khalifa Haftar, e la divisione di poteri tra presidente e primo ministro. Proprio il dissenso su questi punti aveva portato al rinvio dell’incontro per avviare il percorso di mediazione, voluto dalle Nazioni Unite, e che avrebbe dovuto aver luogo a Ghadames lo scorso 11 gennaio.

L’approvazione del 13° emendamento

Che si prepari una fase di dialogo tra Tripoli e Tobruk lo aveva confermato nei giorni scorsi l’approvazione da parte dell’Alto consiglio di stato libico di Tripoli del 13° emendamento della Costituzione provvisoria che stabilisce le procedure per l’elezione di presidente, primo ministro e deputati.

Questi passi verso il voto stanno innervosendo, tuttavia, gli uomini forti della Cirenaica. Primo fra tutti il generale  Haftar, che dal 2014 ha tentato ininterrottamente di raggiungere con i suoi militari e le sue milizie, come la brigata 106, la capitale libica. «Non rinunceremo mai alla capitale, qualunque siano le circostanze», ha tuonato Haftar.

Elogiando l’operato dei miliziani, guidati da suo figlio Khaled Haftar, il nemico-amico dell’ex presidente Muhammar Gheddafi ha parlato, in un’intervista al quotidiano saudita al-Sharq al-Awsat, di una «nuova minaccia di guerra», esortando i militari a tenersi pronti a qualsiasi evenienza per un possibile imminente conflitto.

A rincarare la dose ci ha pensato il premier designato di Tobruk, Fathi Bashagha. Secondo il politico di Misurata, proprio le Nazioni Unite sarebbero state le responsabili del fallimento dell’insediamento a Tripoli del suo governo «non avendone riconosciuto la legittimità».

Nuovi arresti e censure

E così si restringe sempre di più lo spazio per la società civile libica nella costante crisi politica. La legge contro la criminalità informatica, approvata lo scorso 17 febbraio, ha consentito una nuova ondata di arresti di attivisti per i diritti umani, accusati di «offendere le tradizioni libiche». Lo scorso anno quattro esponenti della società civile libica erano stati arrestati con le stesse accuse. Nel dicembre 2022, i quattro attivisti sono stati condannati a tre anni di reclusione.

Stessa sorte era toccata, nel marzo scorso, al movimento Tanweer, campagna della società civile libica per l’uguaglianza di genere e i diritti sociali, dissolta dalle autorità libiche mentre i suoi leader sono stati costretti a lasciare il paese. Anche gli attivisti del gruppo al-Baraka e del Libyan Rational Dialogue sono stati minacciati a più riprese e attaccati da discorsi di odio online.

Le pressioni Usa contro gruppo Wagner

Ma in Libia si combatte ormai da dieci anni anche una guerra per procura tra le principali potenze regionali e mondiali. In particolare gli Stati Uniti, anche in seguito al prolungarsi del conflitto in Ucraìna, starebbero facendo pressioni sui loro alleati in Medioriente affinché i miliziani del gruppo Wagner, controllati da Mosca, lascino Libia e Sudan.

Il gruppo, guidato dall’oligarca Yevgeny Prigozhin, vicino al presidente russo, Vladimir Putin, ricopre un ruolo sempre più significativo nel conflitto in Ucraina e per questo è oggetto di sanzioni aggiuntive da parte statunitense.

Secondo l’Associated Press, che cita alti ufficiali libici, sudanesi ed egiziani, l’amministrazione Biden sarebbe impegnata da mesi a fare pressioni su Egitto ed Emirati Arabi Uniti affinché chiudano le porte e i loro legami con i mercenari del gruppo, impegnati in Libia a sostegno degli interessi russi, ben prima dello scoppio del conflitto in Ucraìna.

Nonostante i passi avanti in vista di un possibile voto entro l’anno, in Libia non si placano le divisioni interne tra il premier uscente, riconosciuto dalla comunità internazionale, Abdel Hamid Dbeibeh, e il governo della Cirenaica, guidato da Fathi Bashaga. Dagli accordi del 2019, Turchia e Russia si spartiscono la Libia in zone di influenza. Se, da una parte, il Cairo ha sempre appoggiato il generale Haftar e le istituzioni di Tobruk in Cirenaica, insieme ad Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Russia, i contractors del gruppo Wagner, milizie 106, 201 e 604, e al premier in pectore Bashagha che ha faticato non poco a prendere le redini del potere; dall’altra, la Turchia con il Qatar, mercenari siriani e turcomanni, si sono schierati con le autorità di Tripoli, le milizie di Misurata, prima al fianco del governo di unità nazionale di Fayez al-Serraj, e poi con il premier Dbeibah.

Non solo, la guerra per procura in Libia continua con l’uso dei droni cinesi Wing Loong, controllati dagli Emirati, messi a dura prova nei cieli di Tripoli e di Misurata dagli aerei turchi senza pilota Bayraktar, che hanno dominato per mesi la Tripolitania. E con il business delle migrazioni che ha trasformato i centri di detenzione del paese in lager e il Mediterraneo centrale in un cimitero per migranti.

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