Il “nostro” mondo – quello della famiglia comboniana e delle case missionarie in genere, del volontariato, delle associazioni e delle numerose persone che hanno sostenuto il diritto all’autodeterminazione del Sud Sudan e continuano a lavorare per fornire aiuto alla popolazione in questi lunghi anni di crisi, in attesa che si possa sostenere il suo sviluppo – è rimasto a dir poco scioccato dal ferimento del vescovo eletto di Rumbek, padre Christian Carlassare, nominato da Papa Francesco lo scorso 8 marzo e arrivato nella sua nuova diocesi il 15 aprile, dove dovrebbe essere insediato ufficialmente il 23 maggio prossimo, giorno di Pentecoste.
Non ci sono dubbi sulla dinamica dell’aggressione: due uomini armati, di notte, sono andati a cercare padre Christian nella sua camera, nel compound della diocesi, e gli hanno sparato alle gambe. Poi sono fuggiti. Non ci possono essere dubbi neppure sull’obiettivo dell’agguato: un pesante avvertimento sul pericolo per la sua vita, cui la carica che aveva accettato lo espone. Secondo informazioni di fonti attendibili, prima di lui un altro possibile vescovo era stato minacciato di morte se avesse accettato l’incarico.
La diocesi di Rumbek si estende su circa 65mila chilometri quadrati, è grande cioè come la Svizzera, è abitata da meno di un milione di persone, vi si trovano undici stazioni missionarie. È posta nel cuore del Sud Sudan ed è particolarmente nota e cara ai cattolici italiani, ma non solo, perché è stata retta per oltre un decennio da Cesare Mazzolari, vescovo comboniano originario di Brescia, che era stato capace di mobilitare risorse e solidarietà in favore della popolazione duramente colpita dalla più che ventennale guerra di liberazione dal nord del paese. Il conflitto si è concluso con l’indipendenza, raggiunta nel luglio del 2011, pochi giorni prima della morte di monsignor Mazzolari per infarto, durante la celebrazione della messa.
La diocesi è abitata in grandissima maggioranza da popolazione denka, il più numeroso e potente gruppo etnico sud sudanese, ed è tra le zone più turbolente e insicure di un paese giudicato tra i meno sicuri del pianeta. L’area è rimasta a lungo isolata durante gli anni della guerra di liberazione e poi durante la recente guerra civile, scoppiata nel dicembre del 2013 e terminata nel settembre del 2018, ma la pace è tutt’altro che consolidata. Ancora oggi è difficilmente raggiungibile via terra durante la stagione delle piogge. Lo stile di vita è perciò ancora fortemente radicato in schemi tradizionali.
L’economia denka è basata sull’allevamento dei bovini. Le mandrie sono spesso formate da migliaia di capi di bestiame, nonostante siano state gravemente ridimensionate a causa dei ricorrenti e duraturi conflitti. Sono alla base dei rapporti sociali e di potere tra i vari clan dello stesso gruppo etnico. I giovani, cui è delegata la difesa del patrimonio del clan, sono generalmente pesantemente armati.
Frequenti sono infatti le razzie che innescano veri e propri conflitti tra diversi clan, con numerose vittime. A causa dell’isolamento e della fragilità delle istituzioni governative, è diffusa l’abitudine di risolvere le controversie in modo tradizionale, spesso con l’uso delle armi.
Negli ultimi giorni in conflitti intercomunitari nella zona di Yirol ci sono state almeno 13 vittime. Contemporaneamente a Cuibet, in un’altra zona della diocesi, in scontri legati al bestiame, le vittime sono state 8. Ne dà conto l’emittente locale Radio Tamazuj, che sottolinea come si tratti solo di episodi di annose faide che le autorità non sono in grado di fermare.
Gli indici di sviluppo umano disponibili, seppur ormai molto datati e probabilmente non particolarmente accurati, dipingono una situazione grave. Il tasso di alfabetizzazione sarebbe del 18%; alla scuola primaria si iscriverebbero il 67,2% dei bambini, moltissimi dei quali non raggiungono la fine del primo o del secondo anno. Le iscrizioni alla scuola secondaria riguarderebbero il 3,6% dei ragazzi. Il 48,9% della popolazione vivrebbe sotto la soglia di povertà; il 13,6% sperimenterebbe la vera e propria miseria.
In questo contesto si colloca l’azione sociale della Chiesa cattolica, che offre una buona parte dei servizi alla popolazione, diventando per forza di cose un centro di potere che raccoglie e dispensa rilevanti risorse.
La diocesi di Rumbek è rimasta senza vescovo per una decina d’anni. Dal 2014 è stata gestita dal clero locale, per cui è estremamente difficile, anche volendo, resistere alle pressioni e alle richieste economiche e di servizi del proprio gruppo, familiare e clanico. Raccogliere e dispensare risorse è inoltre fonte di grande potere personale.
In Sud Sudan le élite hanno fatto di questa dinamica un modello di gestione politica, definito da molti analisti politici come cleptocrazia, che ancora oggi rischia di far sprofondare il paese in una nuova guerra civile. Non sorprende che anche la Chiesa ne sia stata in qualche modo contagiata.
Con ogni probabilità questa è la dinamica alla base dell’agguato al vescovo, estraneo alla società locale e che avrebbe inevitabilmente messo in gioco equilibri consolidati. La pista è stata indicata da subito dalle autorità locali.
Già ieri il ministro ad interim dell’informazione dello stato di Lakes aveva rilasciato a Radio Tamazuj la seguente dichiarazione: «Ogni caso criminale qui ha una ragione. Ci sono casi relativi a fughe con ragazze, altri a razzie di bestiame, altri a vendette. Questo è diverso e lo stiamo trattando come un caso politico all’interno della stessa Chiesa cattolica… sembra essere qualcosa all’interno della sua stessa amministrazione perché (il vescovo eletto) è appena arrivato e non ha problemi con nessuno». Nello stesso articolo si dice che erano già state arrestate 24 persone che dovevano sapere qualcosa, perché non si può entrare armati nel compound della diocesi e arrivare alla residenza del vescovo senza essere fermati.
L’agenzia di stampa cattolica ACI Africa fa anche qualche nome. Il più importante è quello dello stesso coordinatore della diocesi, padre John Mathiang, in carica dal dicembre 2013. Nell’articolo si dice che una dozzina di nomi, tra cui evidentemente anche quello del coordinatore, sono emersi dall’analisi di un cellulare caduto ad uno degli assalitori e involontariamente nascosto nella caduta, dal corpo di padre Christian.
Che si tratti di una questione politica, di bassa politica veramente, è chiaro anche dalla dichiarazione rilasciata ieri sera dal presidente Salva Kiir, denka, membro di uno dei clan residenti nella diocesi, che va probabilmente interpretata come un forte richiamo ai suoi, in cui sottolinea che il vescovo eletto è al di sopra e al di fuori delle beghe dei denka della zona.
Certo, San Daniele Comboni affermava che bisogna “salvare l’Africa con l’Africa”. Ma in Sud Sudan il contesto generale è talmente problematico, per non dire degradato, che sembra essere necessario un importante percorso propedeutico di formazione e conversione, anche all’interno della stessa Chiesa.
L’aggessione al vescovo eletto di Rumbek non è infatti isolato. Anche il nuovo arcivescovo di Juba è passato attraverso le forche caudine di alcuni esponenti della curia che hanno cercato di diffamarlo perché il Papa ripensasse alla sua nomina.
Padre Christian già ieri ha chiesto di pregare per la gente sud sudanese che soffre e sembra fortemente motivato a non lasciarsi intimidire. Ma è chiaro che il suo ministero come vescovo inizia in salita e avrà bisogno di tutte le nostre preghiere, ma anche di un forte ombrello “politico” che lo salvaguardi da altri problemi che potrebbero mettere a rischio la sua sicurezza personale e anche la sua azione come pastore al di sopra delle parti.