Sudan: le tappe della crisi - Nigrizia
Conflitti e Terrorismo Politica e Società Sudan
I due ex alleati si combattono per consolidare i rispettivi interessi, appoggiati da potenze straniere
Sudan: le tappe della crisi
Ripercorriamo i punti salienti del percorso che ha portato agli scontri armati di questi giorni tra l’esercito e i paramilitari Rsf, dalla deposizione del regime islamista di Omar El-Bashir ad oggi
17 Aprile 2023
Articolo di Michela Trevisan
Tempo di lettura 5 minuti
Il generale Abdel Fattah al-Burhan (a sinistra) e il leader dei paramilitari Mohamed Hamdan Dagalo

Dal 15 aprile il Sudan è piombato in un conflitto armato che vede opposti l’esercito nazionale guidato dal presidente del Consiglio sovrano (la suprema istituzione sudanese), generale Abdel Fattah al-Burhan, e il vicepresidente Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti, capo dei potenti paramilitari Forze di supporto rapido (Rsf).

Uno scontro che era nell’aria da mesi e i cui esiti restano al momento incerti.

Ma come si è arrivati a questo punto? Ripercorriamo le tappe che hanno portato agli scontri di questi giorni tra i due ex alleati, responsabili della deposizione, l’11 aprile 2019, del trentennale regime militare islamista di Omar El-Bashir, dopo mesi di incessanti proteste popolari, iniziate nel dicembre 2018.

Un’alleanza, quella tra i due uomini forti sudanesi che ha cominciato a vacillare subito dopo il rovesciamento del dittatore ed è crollata definitivamente nei giorni scorsi, sotto il peso di enormi interessi politici, militari, geostrategici ed economici, ai quali le due parti avrebbero dovuto rinunciare, in base a un percorso che avrebbe dovuto portare alla nascita di un governo interamente guidato da civili. E poi a libere elezioni.

E, probabilmente, anche sotto la spinta di interferenze straniere cresciute nei due campi in questi anni: in primis Egitto e Arabia Saudita (dalla parte di al-Burhan), e Russia, Etiopia, Eritrea ed Emirati Arabi con Hemetti. Paesi che possono trarre vantaggi non indifferenti dalla crescente lotta tra i due per conservare ed espandere il proprio potere.  

– Nell’agosto del 2019, pochi mesi dopo la caduta di El-Bashir, viene firmata la dichiarazione costituzionale e creato un governo di transizione composto da civili e militari e guidato da un tecnico, il primo ministro Abdallah Hamdok. L’esecutivo inizia ad attuare una serie di riforme per smantellare gli apparati del regime e avviare un percorso di democratizzazione.

– Il 31 agosto 2020 viene firmato a Juba, in Sud Sudan, un accordo di pace tra il governo di Khartoum e la maggioranza dei movimenti di opposizione armata operanti in diverse regioni del paese. L’accordo prevede, tra l’altro, l’assegnazione agli ex gruppi armati del 25% dei posti nel governo e nell’assemblea legislativa (che non verrà mai nominata), e del 3% di quelli nel Consiglio sovrano.

– Il 21 settembre 2021 un golpe fallito fa emergere crescenti tensioni nella leadership del paese tra l’ala militare e quella civile. Ai militari non va giù che le forze di polizia e i servizi di intelligence debbano far capo direttamente ai civili. Sul fuoco soffiano anche gli islamisti fedeli a El-Bashir rimasti all’interno dell’esercito e le Rsf di Hemetti, contrari a una riforma delle forze armate.

– Il 25 ottobre 2021 i militari rovesciano il governo guidato da Hamdok. Riprendono con rinnovato vigore le proteste di piazza dei movimenti rivoluzionari pro-democrazia. Le manifestazioni sono represse con crescente violenza dalle forze di sicurezza, con oltre un centinaio di morti e migliaia di feriti. 

– Il 21 novembre 2021, in seguito alla forte pressione internazionale, Hamdok viene reinsediato ma con poteri limitati e sotto il controllo dell’esercito. Nell’accordo che firma con il generale al-Burhan chiede tra l’altro che cessino le uccisioni di manifestanti.

– Il 2 gennaio 2022 il primo ministro annuncia le sue dimissioni. Comincia la restaurazione del regime militare islamista e lo smantellamento delle iniziative messe in campo dal governo Hamdok. Vertici militari e Rsf rafforzano il loro controllo anche sui principali settori economici e finanziari del paese.
Gli Stati Uniti e altri partner occidentali sospendono i finanziamenti. Iniziano le pressioni internazionali.

– L’8 giugno 2022 al-Burhan annuncia l’apertura di un dialogo nazionale al quale non partecipano i movimenti della società civile e i partiti che li appoggiano. L’apertura di un tavolo di trattativa per uscire dalla crisi è chiesto dal meccanismo tripartito, costituito dall’Unione africana, dalla Missione integrata di assistenza alla transizione delle Nazioni Unite in Sudan (Unitams) e dall’Autorità intergovernativa per lo sviluppo regionale (Igad). L’iniziativa fallisce pochi mesi dopo. Ma le rinnovate pressioni internazionali sulla giunta militare e sulle opposizioni civili portano a tenere aperte le trattative.

– Il 5 dicembre 2022 è firmato un primo accordo quadro per il trasferimento del potere. L’intesa stabilisce due anni di governo a guida civile prima delle elezioni. Iniziano nuove trattative per definire i dettagli della road map di transizione. Il 1 aprile 2023 è indicato come il giorno della firma dell’accordo definitivo, l’11 aprile quello della nascita di un nuovo esecutivo dal quale sono esclusi i militari.

Le date fissate saltano per il mancato raggiungimento di un’intesa sui tempi per lo smantellamento dei paramilitari e il loro reintegro nell’esercito. Si chiedono 2 anni, ma Hemetti ne pretende 10. Il capo delle Rsf inizia a spostare e radunare le sue truppe – si parla di circa 60 mila uomini – in luoghi strategici della capitale e del paese.

– Il 13 aprile 2023 l’esercito denuncia pubblicamente che le Rsf stanno mobilitando uomini senza autorizzazione e in violazione della legge.

– La mattina del 15 aprile iniziano i combattimenti e gli scambi di accuse.

 

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