Etiopia: Abiy Ahmed riparte a muso duro - Nigrizia
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Il primo ministro ha iniziato il suo secondo mandato quinquennale
Etiopia: Abiy Ahmed riparte a muso duro
Inizia con un deciso inasprimento delle relazioni con Stati Uniti e Nazioni Unite il secondo mandato del premier etiopico, alle prese con un conflitto, quello nel Tigray, che si sta incancrenendo e che sta provocando una sempre più drammatica crisi umanitaria
06 Ottobre 2021
Articolo di Bruna Sironi (da Nairobi, Kenya)
Tempo di lettura 6 minuti
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Il 4 ottobre Abiy Ahmed è stato confermato primo ministro dal parlamento di Addis Abeba. Governerà perciò il paese per i prossimi 5 anni. Non è stata una sorpresa. Nelle elezioni dello scorso giugno il suo partito, il Partito del Progresso, aveva conquistato la stragrande maggioranza dei seggi (410 su 436) in palio in elezioni parziali.

Diverse regioni non erano infatti andate alle urne a causa di instabilità locali o difficoltà organizzative. Hanno votato il 30 settembre e i risultati non sono ancora noti, ma non potrebbero comunque cambiare i rapporti di forza nel parlamento nazionale. Non sono previste, invece, elezioni nella regione del Tigray, devastata dalla guerra civile iniziata nel novembre dell’anno scorso.

Nel suo discorso di insediamento, il primo ministro ha detto che avrebbe protetto il paese da influenze esterne. La presidente Sahle-Work Zewde, che presiedeva la cerimonia, ha invece elencato come priorità per il nuovo governo il controllo dell’inflazione che quest’anno ha raggiunto il 20%, quello del carovita – che sta rendendo la vita impossibile a molti etiopici -, e la riduzione della disoccupazione. Priorità davvero peculiari per un paese in cui il conflitto nel Tigray, apertissimo, ha messo in moto altri numerosi conflitti locali, ha provocato gravi tensioni nella regione e con la comunità internazionale ed è la causa prima dell’attuale grave crisi economica e umanitaria del paese.

Ѐ da osservare che il primo ministro e la presidente hanno pronunciato le loro dichiarazioni pochi giorni dopo il decreto di espulsione – come persona non grata e dunque con il massimo peso nelle relazioni diplomatiche – di sette dirigenti di organizzazioni delle Nazioni Unite impegnati nel portare soccorso alle popolazioni, proprio nel Tigray.

Tra di loro, la rappresentante dell’Unicef, quella di Unocha, l’organizzazione per il coordinamento degli interventi umanitari, il vicedirettore dell’Ufficio per gli affari umanitari, il cui direttore rappresenta generalmente il segretario generale dell’Onu, e altri funzionari di alto livello di uffici competenti per i diritti umani e per la soluzione politica dei conflitti. A tutti è stato intimato di lasciare l’Etiopia in 72 ore perché accusati di interferire negli affari interni del paese.

Gli affari interni cui il decreto si riferisce non possono che essere le operazioni di soccorso alla popolazione del Tigray. Non si può non notare, infatti, che la decisione è stata presa a ridosso della pubblicazione, il 30 settembre, di un rapporto periodico che Unocha diffonde di routine nelle situazioni di emergenza. Nel documento esprime una crescente preoccupazione per la fame che ormai attanaglia la regione. 400mila persone sono già in pericolo di vita; 1,2 milioni sono in una situazione estremamente critica.

Complessivamente, dipendono dagli aiuti alimentari 5,2 milioni di persone su una popolazione stimata di 6, mentre ci sono ancora restrizioni nell’accesso al Tigray per i camion che trasportano carburante, medicinali e aiuti d’emergenza.

Il rapporto afferma che, dal 12 luglio, quando il governo di Addis Abeba, sotto pressione internazionale, ha permesso l’apertura di un corridoio umanitario che raggiunge il capoluogo Macallé passando per Semera e Abala, nella regione Afar, sono arrivati nella regione 606 camion, l’11% di quelli che sarebbero necessari, stimati in almeno 100 al giorno. All’inizio di ottobre, inoltre, l’Onu ha denunciato che dei 466 camion che sono entrati in Tigray tra metà luglio e metà settembre, solo 38 avevano fatto il viaggio di ritorno.

Il rapporto elenca altri particolari drammatici. 
L’ultimo carico di carburante è arrivato in Tigray il 29 luglio, mentre 8 autobotti stanno aspettando l’autorizzazione governativa a Semera. La mancanza di carburante ha costretto gli operatori umanitari a ridurre drasticamente il loro intervento e la programmazione di quelli futuri.

L’ultimo rifornimento di medicine cui è stato permesso di entrare nella regione è arrivato alla fine di luglio. Per di più i centri sanitari sono sistematicamente razziati dalle parti in conflitto e dunque non sono mai efficienti. Senza medicine, vaccini e servizi di assistenza sanitaria essenziale un numero crescente di bambini, donne, malati cronici sono in grave rischio. Ad esempio, il 79% delle 15mila donne in allattamento visitate durante l’ultima settimana di settembre erano affette da malnutrizione gravissima. Tra i bambini, la malnutrizione gravissima è del 2,4%, cioè sopra il livello di allarme del 2% ma le possibilità di cura sono estremamente limitate.

Restrizioni subiscono anche i commerci privati, bloccati dal 28 giugno, tanto che i beni di prima necessità scarseggiano e hanno ormai prezzi proibitivi, mentre si riduce ogni giorno il potere d’acquisto delle famiglie a causa della drastica riduzione del reddito. Ad esempio, i funzionari governativi non sono stati pagati da giugno. Ma al mercato, il prezzo dell’olio alimentare è aumentato del 400%, il sale del 300%, il riso del 100%, il teff, il cereale alla base dell’alimentazione nella regione, del 90%. Il prezzo di un litro di carburante, che era di 28 Birr, la moneta locale, all’inizio di giugno ha ormai raggiunto i 300.

Nel Tigray la situazione è dunque catastrofica, anche per precise responsabilità governative. Nelle altre due coinvolte nel conflitto, le confinanti regioni Amhara e Afar, la situazione è grave, ma le organizzazioni umanitarie possono facilmente portare soccorso alla popolazione e il commercio privato non ha subito restrizioni. Questo ha fatto dire a diversi osservatori, e non solo ai tigrini stessi, che gli aiuti alimentari sono usati dal governo di Addis Abeba come un’arma e che nella regione è in atto un tentativo di genocidio.

Quelli riportati sono solo alcuni tra i dati, drammatici, elencati nel rapporto, e l’espulsione dei responsabili delle operazioni umanitarie non fa che aggravare di molto la situazione, come sottolineato dal segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, e, tra gli altri, dal segretario di stato americano Tony Blinken.

Il ministro degli esteri etiopico ha giustificato il decreto di espulsione emesso dichiarando che i funzionari Onu hanno diffuso notizie false allo scopo di suscitare allarme nella comunità internazionale e dunque provocare reazioni contro il governo etiopico. In più, secondo accuse veramente improbabili, avrebbero dirottato gli aiuti umanitari e sistemi di comunicazione agli uomini del Tdf, l’esercito del Tigray che combatte quello nazionale di Addis Abeba.

L’espulsione dei funzionari Onu, che godono di status diplomatico, è stata discussa dal Consiglio di sicurezza in una riunione a porte chiuse. Guterres avrebbe presentato una lettera – vista dalla Reuters – al governo di Addis Abeba chiedendo che i funzionari espulsi possano riprendere al più presto il loro lavoro. Un atto significativo, segno di una crescente pressione sul governo etiopico che si rifiuta di sedersi ad un tavolo negoziale e inasprisce il conflitto, causando una vera e propria emergenza umanitaria e impedendo alla comunità internazionale di svolgere il proprio lavoro di soccorso alla popolazione civile.

La missione di Addis Abeba al Palazzo di vetro ha risposto sollecitando l’invio dei sostituti dei funzionari espulsi, di fatto chiedendo che l’Onu accetti le motivazioni dell’espulsione. I funzionari dichiarati non graditi hanno per ora lasciato il paese. Vedremo se sarà l’ultimo atto di questa bruttissima storia.

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