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Ambiente Pace e Diritti
A chiederlo sono decine di organizzazioni preoccupate per i danni ambientali e alle popolazioni locali
Nigeria: Shell bonifichi le sue infrastrutture petrolifere prima di venderle
18 Aprile 2024
Articolo di Nigeria: Shell bonifichi le sue infrastrutture petrolifere prima di venderle
Tempo di lettura 3 minuti
(Credit: Friends of the Earth Europe)

La Shell non deve cedere le proprie strutture petrolifere in Nigeria senza avere prima effettuato una valutazione dell’inquinamento ambientale causato, provveduto a finanziarne la bonifica e pienamente consultato le comunità locali coinvolte.

A sostenerlo è un gruppo di 40 organizzazioni ambientali e per i diritti – tra cui Amnesty International, Friends of the Earth e l’italiana ReCommon – firmatarie di una lettera aperta all’autorità di regolamentazione dell’industria nigeriana (Nigerian Upstream Petroleum Regulatory Commission – NUPRC), nella quale chiedono al governo di bloccare la vendita delle attività petrolifere onshore di Shell nella regione meridionale del Delta del Niger – uno dei territori più inquinati del pianeta -, dove da molti decenni lo sfruttamento petrolifero causa gravi violazioni dei diritti umani e immensi danni ambientali.

“Le frequenti perdite di petrolio dalle infrastrutture e le pratiche inadeguate di manutenzione e pulizia hanno lasciato contaminate le acque sotterranee e le fonti di acqua potabile, avvelenato i terreni agricoli e la pesca e danneggiato gravemente la salute e i mezzi di sussistenza degli abitanti”, ha affermato Olanrewaju Suraju, presidente di Human and Environmental Development Agenda (HEDA).

“C’è ora un rischio sostanziale che la Shell si ritiri con miliardi di dollari dalla vendita di questa attività, abbandonando coloro che sono già danneggiati e affrontano continui abusi e danni alla salute… Non si deve permettere alla Shell di sottrarsi alle proprie responsabilità di ripulire e porre rimedio al diffuso retaggio di inquinamento nell’area”.

Il 16 gennaio Shell ha annunciato di aver raggiunto un accordo per vendere la sua controllata onshore nigeriana Shell Petroleum Development Company (SPDC) a Renaissance African Energy, un consorzio formato da quattro società di esplorazione e produzione con sede in Nigeria e da un gruppo energetico internazionale. Un’operazione del valore di 2,4 miliardi di dollari che deve essere approvata dal governo.

Ma, sostengono i firmatari dell’appello, il consorzio acquirente non ha i mezzi per far fronte agli ingenti investimenti necessari per ammodernare le infrastrutture obsolete che presentano perdite e per metterle in sicurezza, smaltrendo le parti dismesse.

“Renaissance è una nuova società. Non ha una storia finanziaria e ci sono poche informazioni disponibili di dominio pubblico sui dati finanziari di una qualsiasi delle società che compongono il consorzio” si legge. “Le dichiarazioni di Renaissance sono tutt’altro che rassicuranti”, in quanto “il consorzio precisa di avere una base patrimoniale di oltre 3 miliardi di dollari”.

Mentre la bonifica, nel solo stato di Bayelsa, stima la Commissione locale, costerebbe circa 4,2 miliardi di dollari.

Nella lettera si fa notare inoltre che il consorzio ha chiesto assistenza finanziaria alla Shell per l’acquisizione di SPDC, sotto forma di prestiti a termine fino a 1,2 miliardi di dollari. Un’ulteriore indicazione che “Renaissance non ha la forza finanziaria per affrontare una simile impresa” e che queste passività “potrebbero rendere la società insolvente”.

I firmatari ricordano un precedente simile, quando nel 2010 la Shell vendette la Oil Mining Lease 26 (OML 26) alla First Hydrocarbon Nigeria, società che fu poi messa in liquidazione, con l’amministratore delegato e il direttore operativo condannati nel Regno Unito per frode.

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Chiesa e Missione Congo (Rep. dem.) Pace e Diritti Politica e Società
Il cardinale Fridolin Ambongo accusato di «incitamento delle popolazioni alla rivolta e attentati contro vite umane»
Rd Congo: indagato il vescovo di Kinshasa, le opposizioni non ci stanno
Katumbi: «Colpita la voce degli ultimi». Per Fayulu è «goccia che fa traboccare il vaso»
29 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 3 minuti
Il cardinal Fridolin Ambongo durante una celebrazione a Parigi con l'arcivescovo emerito Michel Aupetit e il vescovo Theodore Mascarenhas

In Repubblica democratica del Congo le opposizioni politiche si schierano dalla parte dell’arcivescovo di Kinshasa, Fridolin Ambongo. Il religioso è stato messo sotto indagine dalla magistratura locale per alcune sue dichiarazioni ritenute sediziose, solo pochi giorni dopo aver lanciato un duro monito contro il governo del presidente Felix Tshisekedi durante la messa pasquale. Il religioso aveva già criticato l’operato del governo pochi giorno prima in un’intervista rilasciata ad Agenzia Fides. Sia durante la funzione che parlando con i cronisti il cardinale Ambongo aveva denunciato l’incapacità di esercito e governo nel far fronte al conflitto in corso nel nord-est della Rd Congo. La regione, ricca di riserve di minerali essenziali per la transizione energetica, come il coltan, è epicentro delle attività di decine di milizie armate e teatro delle ingerenze di diversi governi vicini. Kinshasa, ma anche attori della comunità internazionale e più volte lo stesso Ambongo, hanno accusato il Rwanda di essere presente militarmente nel paese e di finanziare e sostenere l’M23, una milizia che da mesi porta avanti un’offensiva nella provincia del Nord Kivu. 

Tornando alle procedure giudiziarie a carico del vescovo Ambongo, il procuratore generale della Corte di cassazione congolese Firmin M’Vonde ha ordinato a uno dei procuratori di Kinshasa di aprire un fascicolo giudiziario contro l’arcivescovo, accusandolo di affermazioni sediziose che costituiscono «false voci, incitamento delle popolazioni alla rivolta e attentati contro vite umane».

Il procuratore aveva emesso un mandato di comparizione al presule già lo scorso 22 aprile. Il cardinale, a detta dell’esponente della magistratura, avrebbe in quell’occasione «rifiutato l’invito». L’arcidiocesi, da parte sua, ha risposto che questo ordine non è mai arrivato né ai suoi servizi né al cardinale. In ogni caso ora l’arcivescovo potrebbe essere citato in giudizio. Monsignor Fridolin, membro del Consiglio ristretto di papa Francesco, durante la messa di Pasqua, aveva sottolineato la negativa prestazione del governo di Félix Tshisekedi, criticando soprattutto la cattiva gestione finanziaria e la grave crisi di sicurezza.

Frasi che «attaccano le coscienze»

«La giustizia è il primo potere che si fa beffe dei diritti dei cittadini comuni – aveva dichiarato il cardinale – e qui stiamo facendo discorsi come se fossimo forti. La realtà è che il Congo non ha un esercito efficiente». Per il pubblico ministero le uscite del cardinale «attaccano deliberatamente le coscienze». Nella sua lettera di istruzioni, il procuratore generale M’Vonde avverte tra l’altro il magistrato incaricato del caso che rimanendo passivo incorrerebbe in una accusa di e sarebbe pure passibile di procedimento giudiziario.

L’azione intrapresa nei confronti del vescovo è stata subito oggetto di pesanti critiche. A partire da Moise Katumbi e Martin Fayulu, i due volti più rappresentativi delle opposizioni, rispettivamente il secondo e il terzo candidato a ottenere più voti alle elezioni dello scorso dicembre, vinte da Tshisekedi ma segnate da accuse di irregolarità e brogli. «Questo cardinale e arcivescovo – ha denunciato Katumbi riferendosi a monsignor Ambongo – porta solo la voce degli uomini e delle donne congolesi che sopportano incessantemente atroci sofferenze. La giustizia congolese tenta quindi di mettere a tacere questa voce degli afflitti, dei poveri, delle vittime dell’ingiustizia, delle guerre e della cattiva gestione della cosa pubblica», ha chiosato il politico. 

Le indagini a carico del prelato «sono la goccia che fa traboccare il caso» secondo Fayulu. «Il regime» di Tshisekedi, ha aggiunto il politico, sta prendendo una deriva «incontrollata e pericolosa» per il paese.

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AFRICA Cinema Politica e Società
Tre i film in concorso fra i lungometraggi, mentre i corti provengono tutti dal continente
Cinema: l’Africa si racconta al Fescaal di Milano
Fra i temi la riscoperta dell'appartenenza e la salute mentale, questione delicata e in genere poco affrontata
29 Aprile 2024
Articolo di Anna Jannello
Tempo di lettura 6 minuti
Un'immagine dal film Demba, del regista senegalese Mamadou Dia

Per la 33esima edizione del Festival del cinema Africano, d’Asia e America Latina, la zebra prismatica – dal 2016 simbolo della manifestazione – si moltiplica per tre come i tre continenti che vengono raccontati, attraverso le voci di registe e registi, nei 42 film selezionati nelle diverse sezioni (di 29 pellicole è possibile anche la visione in streaming su MYmovies).

E siccome “three is perfection” come recita il claim di quest’anno, il 33esimo festival inizia a Milano venerdì 3 maggio con la proiezione, al cinema Godard della Fondazione Prada, di Fremont del regista iraniano Babak Jalali, interpretato da una giovane rifugiata afghana Anaita Wali Zada e dalla star hollywoodiana Jeremy Allen White.
Alla fine di ogni proiezione i registi ospiti del festival (le direttrici Annamaria Gallone e Alessandra Speciale hanno segnalato la difficoltà di ottenere i visti soprattutto per i registi africani ) discuteranno con il pubblico, così pure sarà possibile un incontro più ravvicinato all’Ora del tè, classico appuntamento del pomeriggio al bar Il Girevole del San Fedele, sala “storica” nel centro di Milano che, sabato 11 maggio, come tutti gli anni ospiterà la premiazione Il film di chiusura, domenica 12 maggio alla cineteca Arlecchino, è Les Meutes del marocchino Kamal Lazraq, l’avventura “tutta in una notte” di un padre e figlio, piccoli criminali nel mondo brutale della periferia di Casablanca (uscirà in Italia con il titolo Noir Casablanca).

Africa Talks, l’approfondimento a cura del Coe e Fondazione Edu, è dedicato quest’anno all’industria culturale e creativa in Africa con un focus sulle arti visive. Alla tavola rotonda, martedì 7 maggio all’Arlecchino, partecipano quattro ospiti dal continente e dalla diaspora per discutere l’evoluzione e la spinta creativa nelle arti visive dell’Africa contemporanea.
A seguire, la proiezione di Over the Bridge del regista nigeriano Tolu Ajayi: ambientato nel quartiere degli affari della Lagos moderna, racconta la crisi di un affermato manager dinnanzi alle pressioni di una società sempre più corrotta e spietata.

Una panoramica dei film africani nelle varie sezioni

Al concorso lungometraggi “Finestre sul mondo” – in palio c’è il premio da 8mila euro del comune di Milano – partecipano tre film africani. Disco Afrika: une histoire malgache, opera prima di Luck Razanajaona, racconta il risveglio della coscienza politica di un ragazzo del Madagascar che sulle tracce del padre, musicista e rivoluzionario, scomparso durante una manifestazione negli anni 70, riflette sulla sua condizione e sulle ingiustizie del suo paese scoprendo anche in lui il desiderio di lottare. Mambar Pierrette della camerunese Rosine Mbakam, presentato a Cannes 2023, è il ritratto tra documentario e fiction di una sarta (la cugina della regista, che mette in scena sé stessa) che nel suo piccolo atelier nella periferia di Douala diventa la confidente dei clienti e affronta da sola mille avversità. In Demba il regista senegalese Mamadou Dia affronta il tema della salute mentale, considerato quasi un tabù nella cinematografia africana sub-sahariana.

La sezione cortometraggi è, come sempre, interamente dedicata al continente africano: sono in concorso dieci brevi fiction e documentari realizzati da giovani registi provenienti da tutta l’Africa e dalla diaspora con l’obiettivo di mostrare nuove tendenze e sperimentazioni. Tra i selezionati ci sono, in prima italiana, i lavori di tre giovani registi inglesi afrodiscendenti: Pray, dello scrittore Caleb Azumah Nelson al suo debutto nella regia, indaga il valore della fratellanza e della comunità dinnanzi al dolore di una perdita; in Muna la regista Warda Mohamed racconta il ritrovato senso di appartenenza alla propria cultura di una giovane di origine somala; nella commedia Festival of Slaps del regista Abdou Cissé, gli schiaffi di una madre nigeriana innescano una riflessione umoristica sugli stereotipi culturali e sulla comunicazione fra generazioni.

Sempre in anteprima italiana: Love, Your Neighbour di Jethro Westraad ironizza sui sistemi di sicurezza dei quartieri residenziali di Durban, Sudafrica, che rinchiudono i residenti in un perenne lockdown; dal Kenya arriva invece Stero, divertente omaggio al potere dell’immaginazione infantile di Tevin Kimathi e Millan Tarus, dove un bambino cerca di sfidare le regole repressive della sua scuola grazie all’aiuto di un immaginario maestro di arti marziali; il regista franco-algerino Azedine Kasri presenta The Kiss, storia di due giovani innamorati algerini che, non essendo sposati, devono affrontare una vera e propria corsa a ostacoli per scambiarsi il primo bacio. L’egiziano Morad Mostafa, porta per la terza volta al Fescaaal un suo corto, I Promise You Paradise: un giovanissimo migrante africano in Egitto in seguito a violenti scontri è costretto a vagare per Il Cairo insieme alla compagna e alla bimba appena nata per salvarle dalla miseria e raggiungere il “paradiso”.

Tre le registe donne: la senegalese Awa Moctar Gueye presenta Dusk , ambientato alla periferia di Dakar è un racconto tenero, dall’atmosfera fiabesca, sulla questione di genere e l’affermazione di una leadership al femminile; Fatima Kaci, sceneggiatrice e regista francese di origini tunisine, in La voix des autres descrive la storia di Rim, una interprete tunisina che lavora in Francia nelle procedure dei richiedenti asilo e vorrebbe aiutarli anche contravvenendo alle regole della sua professione; Elen Sylla Grollimnud, fotografa, videomaker e regista d’animazione, nel documentario autobiografico Villa Madjo riflette sui temi del meticciato e sul concetto di identità partendo dall’osservazione che suo padre, bianco, è nato in Africa, e che sua madre, nera, è nata in Europa.

Italia multiculturale 

Il concorso Extr’a è dedicato ai film di registi italiani (o stranieri residenti in Italia): i 13 film selezionati, senza distinzione di genere o durata, hanno come soggetto le tematiche dell’Italia multiculturale. Parlano del legame dei protagonisti con l’Africa: Casablanca, di Adriano Valerio (in collaborazione con Institut Français) racconta l’immigrazione attraverso la storia d’amore tra Fouad, clandestino marocchino che vive da anni in Umbria, e Daniela, ex tossicodipendente dell’alta borghesia pugliese; Lonely di Michele Pennetta (in collaborazione con Consolato Svizzero) delicato docu-fiction descrive l’amicizia e l’amore condiviso per la musica di due adolescenti, lei nigeriana e lui italiano, in una provincia del Nord Italia; The Meatseller, film d’animazione di Margherita Giusti, prodotto da Luca Guadagnino e vincitore di un David di Donatello 2024, la storia vera di Selinna Ajamikoko, giovane ragazza nigeriana che vuole diventare una macellaia come sua madre e s’ imbarca in un lungo pericoloso viaggio verso l’Italia; in Maieti, cortometraggio di Matteo Boscolo Gioachina, Miriam è una ragazza di 17 anni, egiziana di seconda generazione che vive con la madre e le sorelline a Milano e tenta di evadere dalle responsabilità verso la famiglia cercando rifugio nel gruppo di amici.

Infine Eldorado di Mathieu Volpe sul difficile viaggio di un giovane africano per passare il confine nelle Alpi fra Italia e Francia e The strong Man of Bureng, odissea di un ex soldato Onu del Gambia che avvia con successo un’attività in Europa ma resta bloccato in Africa durante l’epidemia di Covid-19.

Il programma di ogni giorno https://www.fescaaal.org/programma/.

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Armi, Conflitti e Terrorismo Congo (Rep. dem.) Economia Politica e Società Rwanda
Per conto di Kishasa, uno studio legale ha chiesto a Cupertino di chiudere con questa pratica e di chiarire su una serie di punti
Rd Congo, Kinshasa contro Apple: «Usa i minerali rubati dal Rwanda»
Non è certo la prima accusa di questo tipo che coinvolge anche Kigali
26 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 5 minuti

 

 

Apple, il colosso tecnologico statunitense, sta beneficiando del saccheggio di risorse naturali che il Rwanda e milizie sue alleate starebbe commettendo nell’est della Repubblica democratica del Congo. È quanto sostengono un gruppo di avvocati di base in Francia, incaricato da Kinshsasa di indagare sulle catene di approvvigionamento della multinazionale Usa.

In una lettera, i legali hanno formalmente chiesto all’azienda di Cupertino di smettere di impiegare minerali che si ritiene siano contrabbandati dal Congo, minacciando azioni legali in caso contrario. Parallelamente, il team di esperti ingaggiato dal governo congolese ha inviato una serie di domande di chiarimento agli uffici francesi dell’Apple, richiedendo risposte entro tre settimane. Lo studio legale, che si chiama Amsterdam & Partners, ha anche pubblicato un report di oltre 50 pagine in cui si forniscono le prove relative al «riciclaggio» di minerali condotto da Kigali e da altri enti privati. Gli elementi oggetto del report sono noti come 3T: tungsteno, tantalio (derivato del cobalto) e stagno (in inglese, tin), minerali largamente impiegati nella realizzazione di prodotti ad alta tecnologia e essenziali in un’ottica di passaggio verso l’elettrico e di transizione energetica.

Il testo redatto dagli avvocati si chiama «minerali insanguinati». La copertina del documento mostra una protesta contro le violenze nell’est del Rd Congo che giocatori della nazionale di calcio di Kinshasa avevano reso virale durante l’ultima Coppa Africa, a febbraio. Il report si apre con una citazione di uno dei calciatori coinvolti, Cédric Bakambu: «Tutti vedono i massacri nel Congo orientale. Ma tutti tacciono».

Le azioni intraprese da Amsterdam & Partners rientrano in una lunga serie di accuse che Kinshasa ha rivolto all’indirizzo di Kigali. In sinstesi, l’Rd Congo afferma che il governo rwandese è presente militarmente nell’est del Congo e che sostiene sia sul campo che finanziariamente l’M23, una milizia composta per lo più da persone di origine rwandese della comunità tutsi che da tre anni porta avanti un’offensiva nel Nord Kivu. Il gruppo armato è arrivato ormai a circondare il capoluogo Goma, città già occupata per alcune mesi nel 2012. Gli strali di Kinshasa sono sostenuti però da valutazioni simili pubblicate negli anni da governi occidentali ed esperti indipendenti delle Nazioni Unite.

Mela insanguinata 

È questo il contesto da cui parte anche il report che i legali ingaggiati da Kinshasa hanno prodotto a sostegno delle loro richieste ad Apple. Nel documento si fa notare che nell’ambito del conflitto citato il Rwanda è riuscito a contrabbandare e poi a commerciare «grandi quantità di tungsteno, tantalio, stagno e anche oro» proveniente dal Congo. A fornire le prove di questi crimini sarebbero direttamene i dati sulle esportazioni del paese. Pur non avendo grandi riserve del minerale in questione, partirebbe da Kigali il 15% del totale di tutta il commercio mondiale di tantalio. Gli Usa, a esempio, prenderebbero il 36% del loro fabbisogno di tantalio dal Rwanda e solo il 7% dal Rd Congo, che è però il paese che dispone delle maggiori riserve.

Una tendenza simile è già stata osservata anche nella produzione mondiale di coltan. Stando a dati dell’Agenzia Ecofin, rilanciati anche da Nigrizia, il Rwanda detiene riserve inferiore del Congo del minerale eppure nel 2023 ne ha esportato più del paese vicino, noto per essere il principale forziere di questo elemento cardine di tutto il comparto delle batterie elettriche: 2.070 le tonnellate vendute da Kigali l’anno scorso contro le 1.918 partite da Kinshasa nello stesso periodo. Che molto del coltan messo in commercio dal Rwanda possa venire dal Rd Congo e dalle zone disputate o controllate lo afferma anche un report di Enact, un’iniziativa finanziata dall’Unione Europea e nata della collaborazione fra Global Initiative, Interpol e l’Istitute for Security Studies (Iss).

Entrando nel merito di ciò che riguarda Apple, lo studio legale accusa la multinazionale di «usare una serie di fornitori che acquistano minerali dal Rwanda, un paese povero di minerali che ha depredato la Rd Congo e saccheggiato le sue risorse naturali per quasi tre decenni». Lungo tutta la filiera dei minerali il gigante di Cupertino, ultimo fatturato trimestrale 120 miliardi di dollari, «fa affidamento principalmente sulla vigilanza dei suoi fornitori e sul loro impegno a rispettare il codice di condotta di Apple». Lo studio legale prosegue: «Sebbene Apple abbia affermato di verificare l’origine dei minerali che utilizza per fabbricare i suoi prodotti, tali affermazioni non sembrano essere basate su prove concrete e verificabili. Gli occhi del mondo sono ben chiusi: la produzione del Rwanda dei principali minerali 3T è vicina allo zero, eppure le grandi aziende tecnologiche affermano che i loro minerali provengono dal Rwanda».

La risposta di Cupertino 

A garantire sulla trasparenza del processo condotto da Apple e da altre aziende, dovrebbe essere la certificazione presentata dai fornitori, la Tin Supply Chain Initiative (Itsci). Quest’ultimo sistema però, si sottolinea nel report, «ha dimostrato di avere grandi e grave carenze». Va oltre l’ong specializzata Global Witness, secondo cui, si legge in un rapporto di due anni fa, questo schema finisce per «facilitare il riciclaggio di minerali provenienti da miniere controllate da milizie abusive o che utilizzano il lavoro minorile» e addirittura per servire come mezzo «per riciclare enormi quantità di minerali che sono stati contrabbandati e trafficati».

Apple, dal canto suo, ha risposto rilanciando il contenuto di un report pubblicato l’anno scorso sul tema dei cosiddetti “conflict minerals”, minerali dei conflitti: «Sulla base dei nostri sforzi di due diligence… non abbiamo trovato alcuna base ragionevole per concludere che una qualsiasi delle fonderie o raffinerie di 3TG [stagno, tantalio, tungsteno e oro] che fosse presente nella nostra catena di fornitura al 31 dicembre 2023 direttamente o indirettamente abbia finanziato o avvantaggiato gruppi armati nella Rd Congo o in un paese confinante».

 

 

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Armi, Conflitti e Terrorismo Nigeria Politica e Società
Ora la popolazione locale si sente ancora più insicura, in tanti hanno lasciato le loro case
Nigeria: ennesima imboscata, l’esercito lascia lo stato federale del Niger
26 Aprile 2024
Articolo di Redazione
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Nonostante le proteste della popolazione locale, le forze armate della Nigeria si sono ritirate da dallo stato federale del Niger, situato nell’ovest del paese, a seguito della morte di sei soldati nell’ennesima imboscata di “banditi” locali. La decisione dell’esercito è stata resa nota dalla stampa locale e poi confermata ai giornalisti anche da Bello Abdullahi, commissario per la sicurezza interna del Niger.

I militari nigeriani hanno deciso di lasciare la zona a causa delle continue perdite che si registrano sul campo. Ultimo episodio in ordine di tempo, la scorsa settimana, quando due ufficiali e quattro soldati sono stati uccisi nella comunità di Allawa, nell’area di Shiroro.

Dopo il ritiro dei soldati centinaia di residenti, tra cui donne, bambini e anziani, hanno lasciato le loro case per dirigersi verso località ritenute più sicure, tra le quali Erena, Gwada, Kuta e Zumba, temendo per la propria incolumità. Molta gente, scioccata nel vedere i soldati smantellare le loro tende e andarsene, ha chiesto al governo dello stato federale del Niger di intervenire rapidamente per prevenire altri attacchi da parte dei banditi.

Attacchi continui 

Secondo le ricostruzioni della stampa nigeriana, i soldati si sono ritirati due giorno dopo che un veicolo delle forze armate nigeriane è esploso a causa di una mina collocata lungo l’autostrada Allawa-Pandogari. Nella deflagrazione diversi militari hanno perso la vita mentre altri sono rimasti feriti.

L’incidente si è verificato meno di una settimana dopo che due ufficiali, quattro soldati, un guardiano e un cacciatore avevano perso la vita in un’altra imboscata, stavolta durante un attacco di uomini armati contro le località di Roro, Karaga e Rumace. «Abbiamo lasciato gran parte delle nostre cose perché non potevamo trasportarle, i mezzi di trasporto sono infatti pochissimi – hanno detto alcuni sfollati a causa dei combattimenti nella regione-. D’altro lato non possiamo restare inerti e essere uccisi dai banditi o dai jihadisti di Boko Haram».

In effetti, il ritiro del personale militare rischia di rendere gli abitanti della zona molto più vulnerabili alle violenze. Nell’ultimo anno, secondo le stime, non meno di 30 ufficiali e soldati hanno perso la vita in attacchi da parte di banditi e terroristi nello stato di Niger, che si estende da ovest della capitale Abuja fino al confine col Benin e fino a non lontano dalla frontiera con lo stato sovrano omonimo, con cui non è da confondere.

Voci governative hanno giustificato lo smantellamento affermando che questo si svolge nell’ambito di accordi volti a riconfigurare la presenza dell’esercito nazionale nella regione. Il quotidiano nigeriano Push ha tenato di mettersi in contatto con il maggiore generale Edward Buba, il portavoce delle operazioni di difesa, finora senza successo.

Il termine “banditi”, traduzione dell’inglese bandits, è usato da alcuni anni dalle autorità e dalla stampa nigeriana per riferirsi a gruppi di uomini armati che commettono rapimenti a scopo di riscatto, razzie nei villaggi e attacchi contro le forze armate. Questi gruppi, attivi in tutto il paese ma per l più negli stati settentrionali, non hanno in realtà una posizione politica o religiosa riconoscibile anche se a volte vengono associati a milizie riconducibili a organizzazioni jihadiste locali come lo Stato Islamico della provincia dell’Africa occidentale (Iswap) e il gruppo noto come Boko Haram. 

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