Nigrizia

Armi, Conflitti e Terrorismo Congo (Rep. dem.) Economia Politica e Società Rwanda
Per conto di Kishasa, uno studio legale ha chiesto a Cupertino di chiudere con questa pratica e di chiarire su una serie di punti
Rd Congo, Kinshasa contro Apple: «Usa i minerali rubati dal Rwanda»
Non è certo la prima accusa di questo tipo che coinvolge anche Kigali
26 Aprile 2024
Articolo di Redazione
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Apple, il colosso tecnologico statunitense, sta beneficiando del saccheggio di risorse naturali che il Rwanda e milizie sue alleate starebbe commettendo nell’est della Repubblica democratica del Congo. È quanto sostengono un gruppo di avvocati di base in Francia, incaricato da Kinshsasa di indagare sulle catene di approvvigionamento della multinazionale Usa.

In una lettera, i legali hanno formalmente chiesto all’azienda di Cupertino di smettere di impiegare minerali che si ritiene siano contrabbandati dal Congo, minacciando azioni legali in caso contrario. Parallelamente, il team di esperti ingaggiato dal governo congolese ha inviato una serie di domande di chiarimento agli uffici francesi dell’Apple, richiedendo risposte entro tre settimane. Lo studio legale, che si chiama Amsterdam & Partners, ha anche pubblicato un report di oltre 50 pagine in cui si forniscono le prove relative al «riciclaggio» di minerali condotto da Kigali e da altri enti privati. Gli elementi oggetto del report sono noti come 3T: tungsteno, tantalio (derivato del cobalto) e stagno (in inglese, tin), minerali largamente impiegati nella realizzazione di prodotti ad alta tecnologia e essenziali in un’ottica di passaggio verso l’elettrico e di transizione energetica.

Il testo redatto dagli avvocati si chiama «minerali insanguinati». La copertina del documento mostra una protesta contro le violenze nell’est del Rd Congo che giocatori della nazionale di calcio di Kinshasa avevano reso virale durante l’ultima Coppa Africa, a febbraio. Il report si apre con una citazione di uno dei calciatori coinvolti, Cédric Bakambu: «Tutti vedono i massacri nel Congo orientale. Ma tutti tacciono».

Le azioni intraprese da Amsterdam & Partners rientrano in una lunga serie di accuse che Kinshasa ha rivolto all’indirizzo di Kigali. In sinstesi, l’Rd Congo afferma che il governo rwandese è presente militarmente nell’est del Congo e che sostiene sia sul campo che finanziariamente l’M23, una milizia composta per lo più da persone di origine rwandese della comunità tutsi che da tre anni porta avanti un’offensiva nel Nord Kivu. Il gruppo armato è arrivato ormai a circondare il capoluogo Goma, città già occupata per alcune mesi nel 2012. Gli strali di Kinshasa sono sostenuti però da valutazioni simili pubblicate negli anni da governi occidentali ed esperti indipendenti delle Nazioni Unite.

Mela insanguinata 

È questo il contesto da cui parte anche il report che i legali ingaggiati da Kinshasa hanno prodotto a sostegno delle loro richieste ad Apple. Nel documento si fa notare che nell’ambito del conflitto citato il Rwanda è riuscito a contrabbandare e poi a commerciare «grandi quantità di tungsteno, tantalio, stagno e anche oro» proveniente dal Congo. A fornire le prove di questi crimini sarebbero direttamene i dati sulle esportazioni del paese. Pur non avendo grandi riserve del minerale in questione, partirebbe da Kigali il 15% del totale di tutta il commercio mondiale di tantalio. Gli Usa, a esempio, prenderebbero il 36% del loro fabbisogno di tantalio dal Rwanda e solo il 7% dal Rd Congo, che è però il paese che dispone delle maggiori riserve.

Una tendenza simile è già stata osservata anche nella produzione mondiale di coltan. Stando a dati dell’Agenzia Ecofin, rilanciati anche da Nigrizia, il Rwanda detiene riserve inferiore del Congo del minerale eppure nel 2023 ne ha esportato più del paese vicino, noto per essere il principale forziere di questo elemento cardine di tutto il comparto delle batterie elettriche: 2.070 le tonnellate vendute da Kigali l’anno scorso contro le 1.918 partite da Kinshasa nello stesso periodo. Che molto del coltan messo in commercio dal Rwanda possa venire dal Rd Congo e dalle zone disputate o controllate lo afferma anche un report di Enact, un’iniziativa finanziata dall’Unione Europea e nata della collaborazione fra Global Initiative, Interpol e l’Istitute for Security Studies (Iss).

Entrando nel merito di ciò che riguarda Apple, lo studio legale accusa la multinazionale di «usare una serie di fornitori che acquistano minerali dal Rwanda, un paese povero di minerali che ha depredato la Rd Congo e saccheggiato le sue risorse naturali per quasi tre decenni». Lungo tutta la filiera dei minerali il gigante di Cupertino, ultimo fatturato trimestrale 120 miliardi di dollari, «fa affidamento principalmente sulla vigilanza dei suoi fornitori e sul loro impegno a rispettare il codice di condotta di Apple». Lo studio legale prosegue: «Sebbene Apple abbia affermato di verificare l’origine dei minerali che utilizza per fabbricare i suoi prodotti, tali affermazioni non sembrano essere basate su prove concrete e verificabili. Gli occhi del mondo sono ben chiusi: la produzione del Rwanda dei principali minerali 3T è vicina allo zero, eppure le grandi aziende tecnologiche affermano che i loro minerali provengono dal Rwanda».

La risposta di Cupertino 

A garantire sulla trasparenza del processo condotto da Apple e da altre aziende, dovrebbe essere la certificazione presentata dai fornitori, la Tin Supply Chain Initiative (Itsci). Quest’ultimo sistema però, si sottolinea nel report, «ha dimostrato di avere grandi e grave carenze». Va oltre l’ong specializzata Global Witness, secondo cui, si legge in un rapporto di due anni fa, questo schema finisce per «facilitare il riciclaggio di minerali provenienti da miniere controllate da milizie abusive o che utilizzano il lavoro minorile» e addirittura per servire come mezzo «per riciclare enormi quantità di minerali che sono stati contrabbandati e trafficati».

Apple, dal canto suo, ha risposto rilanciando il contenuto di un report pubblicato l’anno scorso sul tema dei cosiddetti “conflict minerals”, minerali dei conflitti: «Sulla base dei nostri sforzi di due diligence… non abbiamo trovato alcuna base ragionevole per concludere che una qualsiasi delle fonderie o raffinerie di 3TG [stagno, tantalio, tungsteno e oro] che fosse presente nella nostra catena di fornitura al 31 dicembre 2023 direttamente o indirettamente abbia finanziato o avvantaggiato gruppi armati nella Rd Congo o in un paese confinante».

 

 

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Podcast Politica e Società
L'analisi di Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano solidarietà rifugiati
Africa Oggi podcast / Ecco perchè è fuorilegge il piano Rwanda approvato in Regno Unito
26 Aprile 2024
Articolo di Luca Delponte
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Sunak e Kagame si incontrano a Londra. Foto dal profilo Flickr di Kagame

All’indomani del sì del Parlamento britannico al piano Sunak di ricollocazione dei migranti “irregolari” in Rwanda, in questa intervista Gianfranco Schiavone, studioso di migrazione internazionale, presidente del Consorzio italiano solidarietà rifugiati ed ex vice presidente Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), spiega perché il provvedimento è irricevibile sul piano internazionale e avverte: «La Gran Bretagna rischia di collocarsi tra i paesi che calpestano i diritti umani».

 

 

 

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AFRICA Migrazioni Pace e Diritti Politica e Società Unione Europea
Respinte un terzo delle richieste dal continente. È la regione con la maggior percentuale di dinieghi in assoluto
Sui visti di ingresso l’Europa gira le spalle all’Africa
Bloccati anche scienziati, accademici, artisti. Si parla di “pregiudizio predeterminato” nei confronti dei cittadini africani
26 Aprile 2024
Articolo di Antonella Sinopoli
Tempo di lettura 6 minuti
Il muro al confine fra il Marocco e l'exclave spagnola di Melilla. Foto dal profilo Flickr di Ángel Gutiérrez Rubio

Circa un terzo delle domande di visti per l’area Schengen europea presentate da cittadini africani vengono respinte. Si tratta del tasso di rifiuto più alto di qualsiasi regione al mondo. È quanto risulta (e diremmo che si tratti di una conferma) dal recente report di Henley & Partners, società di consulenza sull’immigrazione. Nel 2022 l’Africa era in cima alla lista dei respinti con il 30%, vale a dire una su tre, di tutte le domande esaminate, tasso superiore – come risulta dall’analisi – almeno del 10% rispetto alla media globale. E questo nonostante il continente abbia presentato il minor numero di domande di visto pro capite.

A fare le spese di questo “pregiudizio predeterminato”, come è stato definito, non sono soltanto i singoli individui perché ad essere in gioco sono relazioni commerciali, scambi accademici, opportunità di crescita. E se gli Stati europei hanno citato principalmente «ragionevoli dubbi sull’intenzione dei richiedenti il visto di tornare a casa» nei loro respingimenti, i ricercatori sostengono che il sistema europeo dei visti «dimostra chiaramente un’apparente parzialità nei confronti dei richiedenti africani».

Fatto sta che l’accesso limitato ai paesi ricchi e gli alti tassi di rifiuto del visto, fanno sì che gli africani siano stati esclusi da numerose opportunità non solo nel campo degli studi, per esempio, ma anche nel commercio multinazionale, nel fare rete ed esplorare iniziative imprenditoriali internazionali. «Gli imprenditori e gli investitori africani vengono spesso esclusi dai lucrosi mercati globali, ostacolando il loro potenziale di crescita economica e prosperità finanziaria», osserva il rapporto. Le domande di visto Schengen risultano diminuite a livello globale: da 16,7 milioni nel 2014 a 7,6 milioni nel 2022, con un calo di quasi 9 milioni di domande equivalete al 54,7%. Per quanto riguarda l’Africa, nello stesso periodo, il numero assoluto di domande per l’Europa è diminuito da 2,22 milioni nel 2014 a 2,05 milioni nel 2022, con un calo pari al 7,7%.

Quasi il doppio della media globale 

Ma, contemporaneamente, è salito il tasso di rifiuto del visto. A livello globale è pari al 12,5%. In Africa, come dicevamo, ha raggiunto invece il 30%, quasi il doppio della media globale, ed era il 18% nel 2014. Circa tre richiedenti di visto Schengen africani su dieci sono stati respinti, rispetto a uno su dieci a livello mondiale. Il continente – nel 2022 – rappresenta sette dei primi 10 paesi con il più alto tasso di rifiuto del visto europeo: Algeria (45,8%), Guinea-Bissau (45,2%), Nigeria (45,1%), Ghana (43,6%), Senegal (41,6%), Guinea (40,6%) e Mali (39,9%). Al contrario, solo un richiedente su venticinque residente negli Stati Uniti, in Canada o nel Regno Unito è stato respinto, e uno su dieci dalla Russia. Risulta, dunque, che gli algerini si trovano ad affrontare un tasso di rifiuto dieci volte superiore a quello dei candidati canadesi, mentre i ghanesi hanno quattro volte più probabilità di essere respinti rispetto ai russi. I nigeriani devono affrontare un tasso di rifiuto rispetto ai richiedenti in Turchia quasi tre volte superiore e doppio rispetto a quello iraniano. Ma ci sono delle eccezioni: le Seychelles e Mauritius, che insieme a 61 paesi dell’America Latina e dell’Asia sono esenti dall’obbligo del visto Schengen. Alcuni paesi africani come il Sudafrica, il Botswana e la Namibia devono affrontare un tasso di rifiuto relativamente basso, inferiore al 7%. Sono eccezioni che hanno il loro significato: parliamo di paesi ad alto reddito e, per esempio, per quanto riguarda le Seychelles e Mauritius, inserite nella lista dei cosiddetti paradisi fiscali.

Non è un caso che l’accesso ai visti Schengen corrisponda al potere economico e del passaporto del paese di cittadinanza del richiedente. Più povero è il paese di nazionalità, maggiore è il tasso di rifiuto. Molti paesi africani hanno un basso reddito nazionale lordo pro capite e si collocano anche in basso nell’indice Henley Passport, quello che misura il numero di destinazioni in cui un titolare di passaporto può entrare senza visto. Più si sta in basso nella lista meno possibilità si hanno di viaggiare in Europa con un visto regolare. Paradossalmente, dunque, i passaporti spesso ostacolano anziché facilitare la mobilità degli africani. Tra l’altro le richieste di visto, siano esse presentate per motivi di lavoro, studio o turismo, sono soggette a processi di richiesta lunghi e macchinosi. I rifiuti sono molto costosi per i richiedenti, in particolare per le tariffe non rimborsabili, ma anche per il trasporto per raggiungere le Ambasciate e altre spese. E poi va considerata tutta la rabbia, la delusione, la frustrazione che questi rifiuti alimentano.

La denuncia di Owusu-Gyamfi

Soprattutto quando sembrano più che mai ingiusti e ingiustificati. È il caso di tanti artisti, giornalisti, relatori, accademici, scienziati che, nonostante il loro curriculum e la regolare documentazione, si sono visti negare il visto. Uno degli ultimi casi da manuale è quello di Sandra Owusu-Gyamfi, dottoranda presso l’Università del Ghana, che ha affidato a un intervento, pubblicato su Nature e ampiamente diffuso, la frustrazione per non aver potuto partecipare a una conferenza sulla biodiversità a Lisbona. Conferenza alla quale era stata invitata. «Demoralizzata, imbarazzata e insultata», questi i sentimenti della studiosa, sentimenti condivisi da moltissimi altri colleghi che si sono trovati nella stessa situazione. Secondo un’inchiesta del 2018 condotta dall’organizzazione di ricerca RAND – cita la biologa – i ricercatori africani e asiatici hanno maggiori probabilità di avere problemi legati ai visti per visite a breve termine.

E un’analisi del 2023 della Royal Society di Londra ha mostrato che nel 2022, dei 30 territori per i quali il Regno Unito ha rifiutato più spesso i visti turistici, 22 erano in Africa. Tutte occasioni perse, non solo per chi ha ricevuto il rifiuto, ma anche per i paesi che non hanno permesso lo scambio di studi, intuizioni, soluzioni provenienti da altre parti del mondo. Ma torniamo al report. Gli analisti fanno notare che la sola possibilità di soggiorno illegale (addotta dai funzionari dei consolati) non può spiegare i tassi di rifiuto significativamente più alti tra i richiedenti africani. «Non ci sono prove – si afferma – che suggeriscano che un tasso di rigetto più elevato porti a una diminuzione della migrazione irregolare o dei soggiorni oltre il visto». Sebbene fattori come il reddito, l’economia nazionale, la credibilità del ritorno e la forza del passaporto rappresentino parzialmente i tassi di rifiuto del visto, questi elementi non offrono una spiegazione esaustiva delle disparità con altre regioni. «La validità del passaporto e i livelli di reddito da soli non possono giustificare pienamente le variazioni nei tassi di rifiuto per i richiedenti africani, come evidenziato dai tassi di rifiuto comparativamente più bassi per paesi come India e Turchia».

Insomma, come a ribadire che le motivazioni del rifiuto sembrano essere di altra natura: quel pregiudizio di fondo che andrebbe affrontato senza ipocrisie. L’Unione Europea – suggeriscono gli autori del report – deve affrontare le attuali pratiche discriminatorie nell’ambito del processo di richiesta del visto e lavorare per promuovere giuste e pari opportunità per percorsi legali di mobilità tra Africa ed Europa. Oltretutto, farlo vorrebbe dire per l’Europa impegnarsi a rafforzare le relazioni commerciali e i partenariati tra i due continenti a vantaggio di entrambi.

 

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AFRICA Ambiente Armi, Conflitti e Terrorismo Economia Migrazioni Pace e Diritti Politica e Società
Secondo l'ultimo report della ong, il continente soffre delle conseguenze di conflitti, crisi climatica e aumento prezzo del cibo
Amnesty International: sui diritti umani siamo in regressione, in Africa subsahariana e non solo
Ci sono alcune buone notizie ma lo scenario è complesso. A partire dalla guerra in Sudan
24 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 5 minuti

La rimozione di un divieto alle attività politiche per le opposizioni in Tanzania; l’inizio di un programma per l’istruzione gratuita in Zambia, con l’assunzione di nuovi 4.500 insegnanti; vari disegni di legge, anche prossimi all’approvazione, che puntano a contrastare la violenza e le discriminazioni di genere in Sudafrica, Sierra Leone e Repubblica democratica del Congo. Nell’ultimo report annuale sullo stato dei diritti umani nel mondo pubblicato da Amnesty International ci sono alcune buone notizie che arrivano dall’Africa subsahariana.

Certo, nel complesso lo scenario del continente è ancora segnato da pesanti violazioni e abusi. E dalla compresenza e congiuntura di conflitti, crisi climatica, compressione dello stato di diritto come risposta alle mobilitazioni popolari.

In regressione 

Necessario però, collocare la situazione dell’Africa nel più ampio contesto globale, che non è meno difficoltoso. Secondo Amnesty, ong per la tutela dei diritti umani nata in Gran Bretagna nel 1961 e che a oggi conta 10 milioni di attivisti in tutto il mondo, il nostro pianeta si è imbarcato su una pericolosa macchina del tempo: a detta dell’organizzazione, che rilancia un dato calcolato dal del V-dem Institute, un ente di ricerca di base in Svezia che studia le performance dei governi, il numero di persone che vive in democrazia è diminuito fino ad arrivare alla stessa cifra del 1985. Cinque anni prima della caduta del Muro di Berlino e della fine della Guerra Fredda, nove anni prima della liberazione di Nelson Mandela e dell’ultimo anno del regime di apartheid in Sudafrica, solo per citare due eventi storici dalla grande portata.

Si torna più indietro ancora, a prima della pubblicazione della Convenzione sul genocidio del 1948, se si guarda a cosa sta avvenendo in alcuni dei principali fronti di conflitto presenti nel mondo. L’imperativo “mai più” che ha spinto la comunità internazionale a reagire agli orrori della Seconda guerra mondiale e dell’Olocausto è stato «distrutto in mille pezzi» in Israele e a Gaza e in Ucraina, ma anche in Myanmar e in Cina, dove prosegue la persecuzione ai danni della minoranza uigura.

Anche quelli che potrebbero essere strumenti di progresso, forse in grado di accompagnare il mondo fuori da questa spirale regressiva, diventano invece mezzi utili a perpetuare razzismo, diffondere disinformazione e reprimere la libertà di espressione. Il grande sviluppo tecnologico, afferma Amnesty, non sta aiutando il mondo a evolvere insomma, e le prospettive di crescita e diffusione nell’uso dell’intelligenza artificiale sono motivo di preoccupazione.

Il dramma sudanese

Tornando all’Africa, la guerra in Sudan è al momento la crisi che provoca maggiore inquietudine. Il conflitto, scoppiato nell’aprile 2023 fra l’esercito regolare al servizio del presidente de facto Abdelfattah al-Burhan e le milizie agli ordini del vice presidente Mohamed Hamdan Dagalo, «illustra l’immensa sofferenza dei civili coinvolti nei conflitti armati in tutta la regione e il totale disprezzo da parte delle parti in conflitto per il diritto internazionale umanitario». Almeno 12mila, riporta Amnesty, le vittime civili del conflitto.

Le parti belligeranti in Sudan stanno commettendo anche violenze sessuali. Questo tragico elemento torna in diversi scenari di conflitto del continente e in modo particolare in Repubblica democratica del Congo, dove nella sola provincia nord-orientale del Nord Kivu e nei soli primi tre mesi dell’anno scorso sono state registrati 38.000 casi di violenza sessuale, stando a dati Unicef rilanciati nel report.

Oltre alle guerre, in Africa continuano a registrarsi fasi di violenta repressione del dissenso. «In molti casi – si legge nel testo – le forze di sicurezza hanno disperso le proteste utilizzando una forza eccessiva; decine di manifestanti e passanti sono stati uccisi e feriti, anche in Angola, Etiopia, Kenya, Mali, Mozambico, Senegal e Somalia».

Diritto al cibo, diritto mancato 

Un altro dei problemi che emerge dal report di Amnesty è il mancato diritto al cibo. «Molti paesi africani – denuncia l’ong – sono stati tra i più colpiti al mondo dall’elevata inflazione dei prezzi alimentari. Il numero di persone che soffrono di insicurezza alimentare ha raggiunto proporzioni sconcertanti. Il Programma alimentare mondiale ha stimato che a febbraio il 78% della popolazione della Sierra Leone soffriva di insicurezza alimentare e il 20% delle famiglie soffriva di grave insicurezza alimentare. A dicembre, l’Ocha ha affermato che 5,83 milioni di persone (46%) della popolazione del Sud Sudan vivevano livelli elevati di insicurezza alimentare. In Namibia, l’insicurezza alimentare acuta è aumentata drasticamente, colpendo il 22% della popolazione».

Questo problema è a sua volta aggravato dai cambiamenti climatici e dai conflitti, in una dinamica di moltiplicazione dei fronti di criticità che si registra in molte regioni del continente. Ripercuotendosi, a esempio, anche sul godimento del diritto allo studio. Questo, afferma Amnesty, «è stato negato o gravemente ostacolato nei paesi colpiti da conflitti, in particolare in Burkina Faso, Camerun, RD Congo e Niger».

Le guerre lasciano poi ferite che vanno rimarginate e vittime che meritano giustizia. Ma anche su questo fronte sono stati osservati dei passi indietro. I governi di diversi paesi, fra i quali l’Etiopia, stanno di fatto abbandonando od ostacolando processi per la verità e la riparazione a seguito di conflitti e violazioni dei diritti umani. Fra le note positive in questo senso, l’arresto di quattro uomini accusati di crimini di guerra e/o crimini contro l’umanità in Repubblica Centrafricana.

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Ambiente Politica e Società
Le megalopoli rischiano uno scenario apocalittico tra inquinamento, siccità, epidemie e inondazioni. Ma diverse iniziative già in atto potrebbero limitare i danni
Cambiamenti climatici: prevenzione nelle metropoli africane
24 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 3 minuti

Nonostante i territori urbani ricoprano solo il 3% della superficie del pianeta, ci sono circa 3 miliardi e mezzo di persone nel mondo che vivono in città altamente vulnerabili ai cambiamenti climatici. Questo perché le città, soprattutto metropoli e megalopoli, sono sempre di più un concentrato esplosivo di inquinamento, responsabili del 78% dell’emissione globali dei gas serra e del consumo del 60% dell’acqua potabile. Assorbono inoltre circa l’80% dell’energia utilizzata dai consumatori.

Per questa ragione, diverse metropoli africane, tra cui Il Cairo, Lagos e Nairobi stanno sperimentando ormai da anni l’effetto della cosiddetta “isola di calore urbana”, che si aggiunge agli altri effetti negativi dei cambiamenti climatici, come l’aumento delle epidemie e delle malattie legate alla carenza di acqua (o della sua non potabilità). 

Nonostante questi dati catastrofici, uno studio ha rilevato come svariate città africane si stiano attrezzando per iniziare a ridurre le emissioni di gas serra. Nonostante infatti la maggior parte africani sia restia ad abbandonare la strada dei combustibili fossili, in primis perché rappresenta una fonte di entrate economiche a cui sarebbe difficile rinunciare, non mancano iniziative locali che puntano sulle energie rinnovabili. 

La scorsa primavera Gitega, in Burundi, si è accaparrata il titolo di prima capitale al mondo alimentata ad energia solare

Nairobi, in Kenya, oltre a star progressivamente ampliando il proprio sistema di trasporto pubblico sia tramite autobus che reti ferroviarie, ha creato degli incentivi per installare pannelli solari su palazzi pubblici e privati, per ridurre la dipendenza dai combustibili. 

Anche Lagos, in Nigeria, e Accra, in Ghana, stanno spingendo sulle infrastrutture e sul trasporto pubblico. 

In Sudafrica, Città del Capo, Durban, Johannesburg e altre due città hanno sviluppato un vero e proprio piano di azione per il clima. Un modello sicuramente imperfetto che rappresenta però passo in direzione di un cambiamento concreto e di una maggiore consapevolezza. 

La zona del Sahel e dell’Africa occidentale in generale è un po’ più indietro rispetto ad altre aree sotto questo punto di vista, ma non mancano gli esempi positivi, come Dakar, in Senegal. Abidjan, in Costa d’Avorio e Accra, in Ghana. Dakar, in particolare, sta lavorando per ridurre il rischio di inondazioni attraverso un sistema di dighe marittime, frangiflutti e dune di sabbia. Iniziative fondamentali, se si considera che le inondazioni rappresentano il più alto rischio di morte legato al clima, con 8,5 milioni di vittime stimate nel mondo entro il 2050. 

In sostanza, dallo studio di Thondoo, Allam e John, autori del saggio Città e cambiamenti climatici, emerge uno scenario apocalittico per chi vive nelle megalopoli del continente, a meno che non si cominci a prendere provvedimenti concreti, come in alcuni casi (ancora troppo pochi) sta accadendo. Si stima, riporta lo studio, che un investimento di 280 miliardi di dollari entro il 2050 in misure di adattamento potrebbe generare 1,1 trilioni di dollari in benefici per le città in Etiopia, Kenya e Sudafrica e creare 210mila nuovi posti di lavoro in più rispetto allo stesso investimento nei combustibili fossili. Con un utile di sei dollari ogni dollaro investito, secondo le Nazioni Unite. 

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