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Armi, Conflitti e Terrorismo Burkina Faso
Accuse rispedite al mittente. Ouagadougou respinge l’indagine di Human Rights Watch sul massacro del 25 febbraio, il peggiore degli ultimi dieci anni, costato la vita a circa 200 persone. E sospende 7 gruppi media, tra cui BBC e Voice of America per aver diffuso la pubblicazione del report di HRW il 25 aprile
Burkina Faso – il governo in scontro frontale con HRW
29 Aprile 2024
Articolo di Redazione
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Uno scorcio di Sahel (immagine d'illustrazione)

Sabato scorso, il Ministro della Comunicazione burkinabé Rimtalba Jean Emmanuel Ouedraogo ha commentato duramente il report di Human Rights Watch (Hrw) pubblicato il 25 aprile, sul massacro avvenuto esattamente due mesi prima nel nord del Burkina Faso. L’organizzazione internazionale sostiene che l’esercito regolare e i Volontari di difesa per la patria (Vdp) siano i responsabili dell’uccisione di 179 persone nel villaggio di Soro e di altre 44 a Nondin, nella provincia di Yatenga. Tra le vittime si conterebbero almeno 56 bambini. L’eccidio avrebbe preso la forma di una rappresaglia contro i civili accusati di collaborazionismo con le forze legate al terrorismo di matrice islamica. HRW lo ha definito «uno dei peggiori abusi dell’esercito» nel paese degli ultimi dieci anni. 

Ouedraogo ha dichiarato che «mentre un’inchiesta è in corso per stabilire i fatti e identificare gli autori, HRW è stata capace, con immaginazione sconfinata, di identificare i colpevoli e pronunciare il suo verdetto», al fine – ha aggiunto il ministro – di «gettare discredito sulle nostre forze combattenti». In reazione alla pubblicazione della notizia del report di HRW, già la settimana scorsa le autorità burkinabé avevano sospeso per due settimane la licenza di trasmissione accordata a BBC, Voice of America, TV 5 Monde ed altri quattro gruppi mediatici.

Non è la prima volta che organizzazioni internazionali per la protezione dei diritti civili e umani puntano il dito contro le autorità militari locali. HRW e Amnesty International hanno pubblicato varie inchieste riguardo a stragi di civili compiuti in Burkina con dinamiche simili negli ultimi due anni, da quando la giunta militare di Ibrahim Traoré ha fatto della sconfitta del terrorismo la sua prioritù numero uno. 

Dal 2015, il Burkina Faso è alle prese con una lotta al jihadismo che ha portato a migliaia di vittime (7,000 solo nel 2023) e 2 milioni di rifugiati interni. Lo stesso governo burkinabé ha dichiarato a inizio anno che circa il 40% del territorio nazionale è controllato da gruppi terroristici. L’insofferenza per lo stato di insicurezza diffusa è stata una delle scintille che ha causato il rovesciamento golpista del regime presidenziale di Roch Marc Kaboré nel 2022.

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Armi, Conflitti e Terrorismo Congo (Rep. dem.) Economia Politica e Società Rwanda
Per conto di Kishasa, uno studio legale ha chiesto a Cupertino di chiudere con questa pratica e di chiarire su una serie di punti
Rd Congo, Kinshasa contro Apple: «Usa i minerali rubati dal Rwanda»
Non è certo la prima accusa di questo tipo che coinvolge anche Kigali
26 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 5 minuti

 

 

Apple, il colosso tecnologico statunitense, sta beneficiando del saccheggio di risorse naturali che il Rwanda e milizie sue alleate starebbe commettendo nell’est della Repubblica democratica del Congo. È quanto sostengono un gruppo di avvocati di base in Francia, incaricato da Kinshsasa di indagare sulle catene di approvvigionamento della multinazionale Usa.

In una lettera, i legali hanno formalmente chiesto all’azienda di Cupertino di smettere di impiegare minerali che si ritiene siano contrabbandati dal Congo, minacciando azioni legali in caso contrario. Parallelamente, il team di esperti ingaggiato dal governo congolese ha inviato una serie di domande di chiarimento agli uffici francesi dell’Apple, richiedendo risposte entro tre settimane. Lo studio legale, che si chiama Amsterdam & Partners, ha anche pubblicato un report di oltre 50 pagine in cui si forniscono le prove relative al «riciclaggio» di minerali condotto da Kigali e da altri enti privati. Gli elementi oggetto del report sono noti come 3T: tungsteno, tantalio (derivato del cobalto) e stagno (in inglese, tin), minerali largamente impiegati nella realizzazione di prodotti ad alta tecnologia e essenziali in un’ottica di passaggio verso l’elettrico e di transizione energetica.

Il testo redatto dagli avvocati si chiama «minerali insanguinati». La copertina del documento mostra una protesta contro le violenze nell’est del Rd Congo che giocatori della nazionale di calcio di Kinshasa avevano reso virale durante l’ultima Coppa Africa, a febbraio. Il report si apre con una citazione di uno dei calciatori coinvolti, Cédric Bakambu: «Tutti vedono i massacri nel Congo orientale. Ma tutti tacciono».

Le azioni intraprese da Amsterdam & Partners rientrano in una lunga serie di accuse che Kinshasa ha rivolto all’indirizzo di Kigali. In sinstesi, l’Rd Congo afferma che il governo rwandese è presente militarmente nell’est del Congo e che sostiene sia sul campo che finanziariamente l’M23, una milizia composta per lo più da persone di origine rwandese della comunità tutsi che da tre anni porta avanti un’offensiva nel Nord Kivu. Il gruppo armato è arrivato ormai a circondare il capoluogo Goma, città già occupata per alcune mesi nel 2012. Gli strali di Kinshasa sono sostenuti però da valutazioni simili pubblicate negli anni da governi occidentali ed esperti indipendenti delle Nazioni Unite.

Mela insanguinata 

È questo il contesto da cui parte anche il report che i legali ingaggiati da Kinshasa hanno prodotto a sostegno delle loro richieste ad Apple. Nel documento si fa notare che nell’ambito del conflitto citato il Rwanda è riuscito a contrabbandare e poi a commerciare «grandi quantità di tungsteno, tantalio, stagno e anche oro» proveniente dal Congo. A fornire le prove di questi crimini sarebbero direttamene i dati sulle esportazioni del paese. Pur non avendo grandi riserve del minerale in questione, partirebbe da Kigali il 15% del totale di tutta il commercio mondiale di tantalio. Gli Usa, a esempio, prenderebbero il 36% del loro fabbisogno di tantalio dal Rwanda e solo il 7% dal Rd Congo, che è però il paese che dispone delle maggiori riserve.

Una tendenza simile è già stata osservata anche nella produzione mondiale di coltan. Stando a dati dell’Agenzia Ecofin, rilanciati anche da Nigrizia, il Rwanda detiene riserve inferiore del Congo del minerale eppure nel 2023 ne ha esportato più del paese vicino, noto per essere il principale forziere di questo elemento cardine di tutto il comparto delle batterie elettriche: 2.070 le tonnellate vendute da Kigali l’anno scorso contro le 1.918 partite da Kinshasa nello stesso periodo. Che molto del coltan messo in commercio dal Rwanda possa venire dal Rd Congo e dalle zone disputate o controllate lo afferma anche un report di Enact, un’iniziativa finanziata dall’Unione Europea e nata della collaborazione fra Global Initiative, Interpol e l’Istitute for Security Studies (Iss).

Entrando nel merito di ciò che riguarda Apple, lo studio legale accusa la multinazionale di «usare una serie di fornitori che acquistano minerali dal Rwanda, un paese povero di minerali che ha depredato la Rd Congo e saccheggiato le sue risorse naturali per quasi tre decenni». Lungo tutta la filiera dei minerali il gigante di Cupertino, ultimo fatturato trimestrale 120 miliardi di dollari, «fa affidamento principalmente sulla vigilanza dei suoi fornitori e sul loro impegno a rispettare il codice di condotta di Apple». Lo studio legale prosegue: «Sebbene Apple abbia affermato di verificare l’origine dei minerali che utilizza per fabbricare i suoi prodotti, tali affermazioni non sembrano essere basate su prove concrete e verificabili. Gli occhi del mondo sono ben chiusi: la produzione del Rwanda dei principali minerali 3T è vicina allo zero, eppure le grandi aziende tecnologiche affermano che i loro minerali provengono dal Rwanda».

La risposta di Cupertino 

A garantire sulla trasparenza del processo condotto da Apple e da altre aziende, dovrebbe essere la certificazione presentata dai fornitori, la Tin Supply Chain Initiative (Itsci). Quest’ultimo sistema però, si sottolinea nel report, «ha dimostrato di avere grandi e grave carenze». Va oltre l’ong specializzata Global Witness, secondo cui, si legge in un rapporto di due anni fa, questo schema finisce per «facilitare il riciclaggio di minerali provenienti da miniere controllate da milizie abusive o che utilizzano il lavoro minorile» e addirittura per servire come mezzo «per riciclare enormi quantità di minerali che sono stati contrabbandati e trafficati».

Apple, dal canto suo, ha risposto rilanciando il contenuto di un report pubblicato l’anno scorso sul tema dei cosiddetti “conflict minerals”, minerali dei conflitti: «Sulla base dei nostri sforzi di due diligence… non abbiamo trovato alcuna base ragionevole per concludere che una qualsiasi delle fonderie o raffinerie di 3TG [stagno, tantalio, tungsteno e oro] che fosse presente nella nostra catena di fornitura al 31 dicembre 2023 direttamente o indirettamente abbia finanziato o avvantaggiato gruppi armati nella Rd Congo o in un paese confinante».

 

 

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Armi, Conflitti e Terrorismo Nigeria Politica e Società
Ora la popolazione locale si sente ancora più insicura, in tanti hanno lasciato le loro case
Nigeria: ennesima imboscata, l’esercito lascia lo stato federale del Niger
26 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 3 minuti

Nonostante le proteste della popolazione locale, le forze armate della Nigeria si sono ritirate da dallo stato federale del Niger, situato nell’ovest del paese, a seguito della morte di sei soldati nell’ennesima imboscata di “banditi” locali. La decisione dell’esercito è stata resa nota dalla stampa locale e poi confermata ai giornalisti anche da Bello Abdullahi, commissario per la sicurezza interna del Niger.

I militari nigeriani hanno deciso di lasciare la zona a causa delle continue perdite che si registrano sul campo. Ultimo episodio in ordine di tempo, la scorsa settimana, quando due ufficiali e quattro soldati sono stati uccisi nella comunità di Allawa, nell’area di Shiroro.

Dopo il ritiro dei soldati centinaia di residenti, tra cui donne, bambini e anziani, hanno lasciato le loro case per dirigersi verso località ritenute più sicure, tra le quali Erena, Gwada, Kuta e Zumba, temendo per la propria incolumità. Molta gente, scioccata nel vedere i soldati smantellare le loro tende e andarsene, ha chiesto al governo dello stato federale del Niger di intervenire rapidamente per prevenire altri attacchi da parte dei banditi.

Attacchi continui 

Secondo le ricostruzioni della stampa nigeriana, i soldati si sono ritirati due giorno dopo che un veicolo delle forze armate nigeriane è esploso a causa di una mina collocata lungo l’autostrada Allawa-Pandogari. Nella deflagrazione diversi militari hanno perso la vita mentre altri sono rimasti feriti.

L’incidente si è verificato meno di una settimana dopo che due ufficiali, quattro soldati, un guardiano e un cacciatore avevano perso la vita in un’altra imboscata, stavolta durante un attacco di uomini armati contro le località di Roro, Karaga e Rumace. «Abbiamo lasciato gran parte delle nostre cose perché non potevamo trasportarle, i mezzi di trasporto sono infatti pochissimi – hanno detto alcuni sfollati a causa dei combattimenti nella regione-. D’altro lato non possiamo restare inerti e essere uccisi dai banditi o dai jihadisti di Boko Haram».

In effetti, il ritiro del personale militare rischia di rendere gli abitanti della zona molto più vulnerabili alle violenze. Nell’ultimo anno, secondo le stime, non meno di 30 ufficiali e soldati hanno perso la vita in attacchi da parte di banditi e terroristi nello stato di Niger, che si estende da ovest della capitale Abuja fino al confine col Benin e fino a non lontano dalla frontiera con lo stato sovrano omonimo, con cui non è da confondere.

Voci governative hanno giustificato lo smantellamento affermando che questo si svolge nell’ambito di accordi volti a riconfigurare la presenza dell’esercito nazionale nella regione. Il quotidiano nigeriano Push ha tenato di mettersi in contatto con il maggiore generale Edward Buba, il portavoce delle operazioni di difesa, finora senza successo.

Il termine “banditi”, traduzione dell’inglese bandits, è usato da alcuni anni dalle autorità e dalla stampa nigeriana per riferirsi a gruppi di uomini armati che commettono rapimenti a scopo di riscatto, razzie nei villaggi e attacchi contro le forze armate. Questi gruppi, attivi in tutto il paese ma per l più negli stati settentrionali, non hanno in realtà una posizione politica o religiosa riconoscibile anche se a volte vengono associati a milizie riconducibili a organizzazioni jihadiste locali come lo Stato Islamico della provincia dell’Africa occidentale (Iswap) e il gruppo noto come Boko Haram. 

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Podcast Politica e Società
L'analisi di Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano solidarietà rifugiati
Africa Oggi podcast / Ecco perchè è fuorilegge il piano Rwanda approvato in Regno Unito
26 Aprile 2024
Articolo di Luca Delponte
Tempo di lettura 1 minuti
Sunak e Kagame si incontrano a Londra. Foto dal profilo Flickr di Kagame

All’indomani del sì del Parlamento britannico al piano Sunak di ricollocazione dei migranti “irregolari” in Rwanda, in questa intervista Gianfranco Schiavone, studioso di migrazione internazionale, presidente del Consorzio italiano solidarietà rifugiati ed ex vice presidente Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), spiega perché il provvedimento è irricevibile sul piano internazionale e avverte: «La Gran Bretagna rischia di collocarsi tra i paesi che calpestano i diritti umani».

 

 

 

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AFRICA Migrazioni Pace e Diritti Politica e Società Unione Europea
Respinte un terzo delle richieste dal continente. È la regione con la maggior percentuale di dinieghi in assoluto
Sui visti di ingresso l’Europa gira le spalle all’Africa
Bloccati anche scienziati, accademici, artisti. Si parla di “pregiudizio predeterminato” nei confronti dei cittadini africani
26 Aprile 2024
Articolo di Antonella Sinopoli
Tempo di lettura 6 minuti
Il muro al confine fra il Marocco e l'exclave spagnola di Melilla. Foto dal profilo Flickr di Ángel Gutiérrez Rubio

Circa un terzo delle domande di visti per l’area Schengen europea presentate da cittadini africani vengono respinte. Si tratta del tasso di rifiuto più alto di qualsiasi regione al mondo. È quanto risulta (e diremmo che si tratti di una conferma) dal recente report di Henley & Partners, società di consulenza sull’immigrazione. Nel 2022 l’Africa era in cima alla lista dei respinti con il 30%, vale a dire una su tre, di tutte le domande esaminate, tasso superiore – come risulta dall’analisi – almeno del 10% rispetto alla media globale. E questo nonostante il continente abbia presentato il minor numero di domande di visto pro capite.

A fare le spese di questo “pregiudizio predeterminato”, come è stato definito, non sono soltanto i singoli individui perché ad essere in gioco sono relazioni commerciali, scambi accademici, opportunità di crescita. E se gli Stati europei hanno citato principalmente «ragionevoli dubbi sull’intenzione dei richiedenti il visto di tornare a casa» nei loro respingimenti, i ricercatori sostengono che il sistema europeo dei visti «dimostra chiaramente un’apparente parzialità nei confronti dei richiedenti africani».

Fatto sta che l’accesso limitato ai paesi ricchi e gli alti tassi di rifiuto del visto, fanno sì che gli africani siano stati esclusi da numerose opportunità non solo nel campo degli studi, per esempio, ma anche nel commercio multinazionale, nel fare rete ed esplorare iniziative imprenditoriali internazionali. «Gli imprenditori e gli investitori africani vengono spesso esclusi dai lucrosi mercati globali, ostacolando il loro potenziale di crescita economica e prosperità finanziaria», osserva il rapporto. Le domande di visto Schengen risultano diminuite a livello globale: da 16,7 milioni nel 2014 a 7,6 milioni nel 2022, con un calo di quasi 9 milioni di domande equivalete al 54,7%. Per quanto riguarda l’Africa, nello stesso periodo, il numero assoluto di domande per l’Europa è diminuito da 2,22 milioni nel 2014 a 2,05 milioni nel 2022, con un calo pari al 7,7%.

Quasi il doppio della media globale 

Ma, contemporaneamente, è salito il tasso di rifiuto del visto. A livello globale è pari al 12,5%. In Africa, come dicevamo, ha raggiunto invece il 30%, quasi il doppio della media globale, ed era il 18% nel 2014. Circa tre richiedenti di visto Schengen africani su dieci sono stati respinti, rispetto a uno su dieci a livello mondiale. Il continente – nel 2022 – rappresenta sette dei primi 10 paesi con il più alto tasso di rifiuto del visto europeo: Algeria (45,8%), Guinea-Bissau (45,2%), Nigeria (45,1%), Ghana (43,6%), Senegal (41,6%), Guinea (40,6%) e Mali (39,9%). Al contrario, solo un richiedente su venticinque residente negli Stati Uniti, in Canada o nel Regno Unito è stato respinto, e uno su dieci dalla Russia. Risulta, dunque, che gli algerini si trovano ad affrontare un tasso di rifiuto dieci volte superiore a quello dei candidati canadesi, mentre i ghanesi hanno quattro volte più probabilità di essere respinti rispetto ai russi. I nigeriani devono affrontare un tasso di rifiuto rispetto ai richiedenti in Turchia quasi tre volte superiore e doppio rispetto a quello iraniano. Ma ci sono delle eccezioni: le Seychelles e Mauritius, che insieme a 61 paesi dell’America Latina e dell’Asia sono esenti dall’obbligo del visto Schengen. Alcuni paesi africani come il Sudafrica, il Botswana e la Namibia devono affrontare un tasso di rifiuto relativamente basso, inferiore al 7%. Sono eccezioni che hanno il loro significato: parliamo di paesi ad alto reddito e, per esempio, per quanto riguarda le Seychelles e Mauritius, inserite nella lista dei cosiddetti paradisi fiscali.

Non è un caso che l’accesso ai visti Schengen corrisponda al potere economico e del passaporto del paese di cittadinanza del richiedente. Più povero è il paese di nazionalità, maggiore è il tasso di rifiuto. Molti paesi africani hanno un basso reddito nazionale lordo pro capite e si collocano anche in basso nell’indice Henley Passport, quello che misura il numero di destinazioni in cui un titolare di passaporto può entrare senza visto. Più si sta in basso nella lista meno possibilità si hanno di viaggiare in Europa con un visto regolare. Paradossalmente, dunque, i passaporti spesso ostacolano anziché facilitare la mobilità degli africani. Tra l’altro le richieste di visto, siano esse presentate per motivi di lavoro, studio o turismo, sono soggette a processi di richiesta lunghi e macchinosi. I rifiuti sono molto costosi per i richiedenti, in particolare per le tariffe non rimborsabili, ma anche per il trasporto per raggiungere le Ambasciate e altre spese. E poi va considerata tutta la rabbia, la delusione, la frustrazione che questi rifiuti alimentano.

La denuncia di Owusu-Gyamfi

Soprattutto quando sembrano più che mai ingiusti e ingiustificati. È il caso di tanti artisti, giornalisti, relatori, accademici, scienziati che, nonostante il loro curriculum e la regolare documentazione, si sono visti negare il visto. Uno degli ultimi casi da manuale è quello di Sandra Owusu-Gyamfi, dottoranda presso l’Università del Ghana, che ha affidato a un intervento, pubblicato su Nature e ampiamente diffuso, la frustrazione per non aver potuto partecipare a una conferenza sulla biodiversità a Lisbona. Conferenza alla quale era stata invitata. «Demoralizzata, imbarazzata e insultata», questi i sentimenti della studiosa, sentimenti condivisi da moltissimi altri colleghi che si sono trovati nella stessa situazione. Secondo un’inchiesta del 2018 condotta dall’organizzazione di ricerca RAND – cita la biologa – i ricercatori africani e asiatici hanno maggiori probabilità di avere problemi legati ai visti per visite a breve termine.

E un’analisi del 2023 della Royal Society di Londra ha mostrato che nel 2022, dei 30 territori per i quali il Regno Unito ha rifiutato più spesso i visti turistici, 22 erano in Africa. Tutte occasioni perse, non solo per chi ha ricevuto il rifiuto, ma anche per i paesi che non hanno permesso lo scambio di studi, intuizioni, soluzioni provenienti da altre parti del mondo. Ma torniamo al report. Gli analisti fanno notare che la sola possibilità di soggiorno illegale (addotta dai funzionari dei consolati) non può spiegare i tassi di rifiuto significativamente più alti tra i richiedenti africani. «Non ci sono prove – si afferma – che suggeriscano che un tasso di rigetto più elevato porti a una diminuzione della migrazione irregolare o dei soggiorni oltre il visto». Sebbene fattori come il reddito, l’economia nazionale, la credibilità del ritorno e la forza del passaporto rappresentino parzialmente i tassi di rifiuto del visto, questi elementi non offrono una spiegazione esaustiva delle disparità con altre regioni. «La validità del passaporto e i livelli di reddito da soli non possono giustificare pienamente le variazioni nei tassi di rifiuto per i richiedenti africani, come evidenziato dai tassi di rifiuto comparativamente più bassi per paesi come India e Turchia».

Insomma, come a ribadire che le motivazioni del rifiuto sembrano essere di altra natura: quel pregiudizio di fondo che andrebbe affrontato senza ipocrisie. L’Unione Europea – suggeriscono gli autori del report – deve affrontare le attuali pratiche discriminatorie nell’ambito del processo di richiesta del visto e lavorare per promuovere giuste e pari opportunità per percorsi legali di mobilità tra Africa ed Europa. Oltretutto, farlo vorrebbe dire per l’Europa impegnarsi a rafforzare le relazioni commerciali e i partenariati tra i due continenti a vantaggio di entrambi.

 

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