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Ambiente Economia Pace e Diritti Politica e Società Tanzania
Violati i diritti alla terra dei nativi, vince la campagna di attivisti locali e Oakland Institute:
Tanzania. La Banca Mondiale sospende i finanziamenti ad un progetto di sviluppo turistico
Si tratta di Regrow, iniziativa per cui l'istituto aveva già messo a disposizione 150 milioni di dollari
01 Maggio 2024
Articolo di Bruna Sironi
Tempo di lettura 3 minuti
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I rangers del parco di Tanapa, Immagine dell'Oakland Institute

La Banca Mondiale ha sospeso i finanziamenti al governo della Tanzania per la realizzazione del progetto Regrow (Resilient Natural Resource Management for Tourism and Growth – Gestione delle risorse naturali resiliente per la crescita e il turismo).

L’informazione è stata diffusa nei giorni scorsi dall’Oakland Institute, centro di ricerca americano specializzato, tra l’altro, in advocacy per i diritti alla terra dei popoli nativi. L’organizzazione ha condotto una lunga campagna internazionale contro la realizzazione del progetto a fianco e per conto delle comunità che ne avevano avuto un impatto negativo.

Il progetto Regrow, per cui la Banca Mondiale ha approvato un finanziamento di 150 milioni di dollari – un centinaio già stanziati – prevede un intervento per il miglior utilizzo, la miglior gestione e il raddoppio dell’area del parco Ruaha (Ruaha National Park), conosciuto con l’acronimo di Runapa, nella zona centrale del paese. Obiettivo: aumentare i flussi turistici nell’area. Ma, come in diverse altre situazioni, a fare le spese delle decisioni governative, e dei finanziamenti internazionali, sono state le comunità rurali e native stanziate sul territorio che dovrebbe essere incluso nei confini del Runapa.

I diritti violati 

L’Oakland Institute ha documentato violazioni del diritto alla terra – con la revoca dei titoli di proprietà precedentemente concessi dalle autorità governative competenti – e gravissimi abusi contro la popolazione da parte del corpo dei ranger del parco, dipendenti dalla Tanzania National Park Authority, conosciuti con l’acronimo di Tanapa.

Solo il 18 aprile, dopo più di un anno dall’inizio della campagna condotta dall’Oakland Institute, la Banca Mondiale ha deciso di sospendere i finanziamenti al progetto Regrow e di inviare nel paese una delegazione di alto livello per valutazioni riguardanti in particolare le minacce di sfratto a circa 21mila persone stanziate sul territorio che dovrebbe essere incluso nel Runapa. Il provvedimento sarebbe in contrasto con le stesse regole che l’istituzione finanziaria mondiale si è data per concedere il proprio supporto.

«La decisione della Banca Mondiale, a lungo dovuta, di sospendere questo progetto pericoloso é un passo cruciale verso assunzione di responsabilità e giustizia. Manda un forte messaggio al governo tanzaniano: ci sono conseguenze per il suo rampante trend di abusi nel paese per sostenere il turismo. I giorni dell’impunità stanno finalmente per finire», ha dichiarato Anuradha Mittal, direttrice esecutiva dell’Istituto, nel suo incontro con la stampa.

La questione risarcimenti 

Rimane ancora aperto il problema dei risarcimenti: «… la banca deve concentrarsi su come rimediare ai danni causati alla popolazione che ha perso i suoi cari per la violenza dei ranger o ha avuto la propria vita devastata dalle restrizioni alle proprie attività economiche. Si impongono con urgenza risarcimenti adeguati per tutte le vittime del progetto», ha concluso Mittal.

La campagna di informazione ed advocacy è stata sostenuta da numerosi e autorevoli mass media, quali il The Guardian e lAssociated press, e, in Italia, da Nigrizia. In febbraio l’Istituto e l’organizzazione Rainforest Rescue hanno anche presentato al presidente della Banca Mondiale, Ajay Banga, una petizione firmata da 80.000 persone.

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AFRICA Politica e Società
Nell'anno delle elezioni l'attenzione è da tenere alta, il fenomeno è in crescita nel continente e ovunque nel mondo
Africa: la disinformazione digitale assedia le urne
La ricerca sul tema dell'African Digital Rights Network e dell’Institute of Development Studies
30 Aprile 2024
Articolo di Antonella Sinopoli
Tempo di lettura 6 minuti
Elezioni in Sudafrica, foto dal profilo Flickr del governo sudafricano.

Disinformazione digitale. Anche questa può minare la democrazia e i processi elettorali. Esistono prove di come e quanto i politici abbiano intrapreso campagne di disinformazione sempre più sofisticate attraverso la rete. Troll, cyborg e bot utilizzati e attivissimi su piattaforme come Facebook e X per profilare i cittadini, manipolare opinioni e comportamenti, diffondere intenzionalmente informazioni false, interrompere il dibattito e soffocare il dissenso.

Queste prove sono state raccolte nel volume “Digital Disinformation in Africa: Hashtag Politics, Power and Propaganda” – dedicato alla disinformazione digitale in Africa – e che rientra in una serie di tre volumi dell’African Digital Rights Network, pubblicati in collaborazione con l’Institute of Development Studies. Volumi tra l’altro disponibile anche in accesso libero via web.

«In un’era in cui campagne hashtag come #MeToo e #BlackLivesMatter catturano l’attenzione globale sulle vittime dell’ingiustizia, politici e aziende stanno spendendo miliardi impiegando società di consulenza tipo Cambridge Analytica per produrre disinformazione, impiegando troll, cyborg e bot per interrompere il dialogo e soffocare dissenso». Così si legge nell’introduzione al testo. Primo lavoro di questo genere che presenta una serie di casi studio di queste dinamiche – che in Africa sono emergenti – mappando e analizzando le operazioni di disinformazione in dieci paesi. Si tratta di Zimbabwe, Mozambico, Etiopia, Sudafrica, Rd Congo, Camerun, Uganda, Angola, Kenya e Nigeria.

Da #EndSARS al sostegno a Museveni 

Ma entriamo nel merito. Si parla ad esempio di come il governo nigeriano abbia utilizzato la disinformazione quando la campagna #EndSARS stava concentrando l’attenzione sulla brutalità e la corruzione della polizia. Oppure, ci sono approfondimenti su come attori filogovernativi abbiano risposto alla campagna virale #ZimbabweanLivesMatter; e come gruppi platealmente misogini si siano mobilitati contro la campagna #AmINext contro la violenza di genere in Sudafrica. Ma di esempi ce ne sono molti altri e tutti dimostrano quanto queste campagne di fake news e manipolazioni di fatto incidano sulle elezioni e sui risultati elettorali.

Per esempio, è emerso che in Uganda, in vista della competizione elettorale del 2021, ci siano state numerose violazioni dei diritti umani e di autoritarismo digitale – blocco dell’uso di siti web e della messaggistica sul cellulare –. Varie iniziative politiche hanno utilizzato campagne hashtag per condividere non informazione ma disinformazione a vantaggio dei propri interessi. Molti si sono rivelati account falsi che diffondevano immagini fuorvianti. Passiamo all’Angola, dove, in vista delle elezioni generali del 2022 il partito al governo ha deliberatamente utilizzato la disinformazione digitale per diffamare il candidato presidenziale dell’opposizione, Adalberto Costa Junior dell’Unita. La campagna diffamatoria includeva la diffusione di contenuti con l’hashtag #IsACJreallyAnEngineer? Hashtag creato allo scopo di mettere in dubbio i suoi titoli accademici.

Il caso Zuma in Sudafrica 

Infine altro esempio specifico è il Sudafrica. L’analisi ha rilevato che, nonostante le preoccupazioni sull’interferenza russa durante le ultime elezioni generali (2019), sono state in realtà le prolifiche campagne di disinformazione sui social media a svolgere un ruolo significativo. Tra il 2017 e il 2019, la ricca famiglia Gupta – con stretti legami con Jacob Zuma e al centro di un esteso sistema di corruzione denominato State capture – ha assunto la società di pubbliche relazioni britannica Bell Pottinger per creare oltre 100 account falsi su Twitter, pubblicando almeno 185.000 post – con un notevole elemento di disinformazione. Un esempio è stata la campagna con l’hashtag #Jonasisaliar fabbricata da questi profili per diffondere informazioni false e screditare l’allora vice ministro delle Finanze, Mcebisi Jonas.

Gli autori del volume riconoscono che la disinformazione nella politica in Africa è antecedente all’era digitale, e in quel caso usava la stampa tradizionale e i media televisivi. Tuttavia, la rapida espansione dell’accesso a Internet – soprattutto dagli smartphone – e ai social media, combinata con i big data provenienti da piattaforme come Facebook, Google e X, consentono il micro-targeting di milioni di cittadini con messaggi diversi per specifici gruppi demografici o singoli individui. Cosa che ha aumentato drasticamente la portata e l’impatto della disinformazione digitale in tutto il continente africano. I ricercatori hanno scoperto che tali campagne online si rivolgono sempre più a tipi di pubblico specifici, ad esempio gli elettori più giovani, per manipolarne le reazioni. Campagne che vengono utilizzate anche da Stati autoritari insieme a tattiche per ridurre lo spazio civico online e ostacolare l’organizzazione dei movimenti sociali, come la chiusura di Internet e delle reti di telefonia.

«Campagne sempre più disinformate»

Insomma, alla fine, come afferma Tony Roberts, ricercatore presso l’Institute of Development Studies e co-editore del volume in questione: «nel selvaggio west delle piattaforme di social media, i cittadini non possono più sempre credere a ciò che vedono». «Stiamo assistendo – ha aggiunto – a un preoccupante aumento del volume e della sofisticazione delle campagne di disinformazione digitale, aumento dovuto ai progressi nei big data e nel microtargeting, che consentono alle aziende stile Cambridge Analytica di orchestrare operazioni per sconvolgere la democrazia».

I risultati della ricerca vanno oltre le campagne elettorali per sollevare questioni più ampie. L’analisi ha infatti permesso di scoprire che le campagne di disinformazione digitale orchestrate ad hoc su temi specifici finiscono per distorcere i dibattiti – e quindi le scelte – su questioni delicate come le vaccinazioni, l’immigrazione e persino i diritti riproduttivi. I ricercatori che hanno lavorato a queste analisi raccomandano una serie di misure per aiutare a proteggere i cittadini dalla disinformazione digitale: dall’invito alle organizzazioni della società civile a formare alleanze per produrre informazioni affidabili, a quello di sostenere gli sforzi di verifica dei fatti e di alfabetizzazione digitale; ma anche l’invito ai media a garantire il controllo delle informazioni prima della pubblicazione e alle piattaforme social a intensificare la correzione delle informazioni, la moderazione dei contenuti e degli algoritmi che comprendono meglio le diverse lingue africane. Chissà se si è ancora in tempo. Quest’anno in Africa ci saranno 27 elezioni (di queste se ne sono già tenute due, alle isole Comore e in Senegal) e il timore è che la disinformazione digitale distorca ognuna di esse inquinando e alterando il dibattito democratico allo scopo di portare a casa il risultato voluto e, forse, in un certo qual modo estorto.

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Armi, Conflitti e Terrorismo Politica e Società Sudan
Sono necessari per sostenere gli abitanti del paese prostrato da oltre un anno di conflitto
Conflitto in Sudan: appello umanitario delle agenzie cattoliche, servono 2,7 miliardi
Caritas Internationalis e Catholic Agency for Overseas Development (Cafod) in prima linea nella consegna di cibo
30 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 3 minuti
Un campo profughi in Nord Darfur. Foto da United Nations Photo

Le agenzie cattoliche, insieme ad altri enti di beneficenza cristiani in Sudan, hanno intensificato la loro campagna di distribuzione di cibo in tutto il paese per salvare centinaia di migliaia di sudanesi sofferenti dalla fame estrema mentre la guerra civile entra nel suo secondo anno. Secondo i dati delle Nazioni Unite, il conflitto, scoppiato nell’aprile 2023, ha costretto in un anno oltre 8,6 milioni di persone ad abbandonare le proprie case, tra cui 1,8 milioni di rifugiati.

L’organizzazione riferisce inoltre che oltre 14.000 persone sono state uccise nelle ostilità e che metà della popolazione del Sudan ha bisogno di assistenza salvavita. La Caritas Internationalis, una famiglia di 162 agenzie nazionali cattoliche di soccorso e sviluppo che lavorano in tutto il mondo, e diverse altre organizzazioni umanitarie cattoliche tra cui la Catholic Agency for Overseas Development (Cafod) britannica, hanno denunciato la gravità estrema della situazione del paese, dove donne e bambini stanno letteralmente morendo di fame.

L’appello 

Nel loro appello le organizzazioni hanno chiesto un sostegno da 2,7 miliardi di dollari. La situazione in Sudan, secondo le agenzie di aiuto umanitario, è in costante peggioramento anche perché la maggior parte delle famiglie – sia quelle che ancora vivono nelle loro case sia di quelle presenti nei campi per sfollati interni -, temono di avventurarsi fuori per procurarsi il cibo a causa dell’assoluta assenza di sicurezza. «Chiediamo urgentemente un maggiore sostegno umanitario internazionale per mitigare l’enormità della sofferenza della popolazione», hanno dichiarato i funzionari della Caritas nella nel primo anniversario della guerra sudanese.

La mancanza di sufficienti finanziamenti da parte della comunità internazionale, secondo la Caritas, ha impedito alle organizzazioni laiche e religiose che lavorano nel paese di raggiungere gran parte delle persone che soffrono la fame ma anche il diffondersi di epidemie, come quella di colera che si registra nel paese. «Chiediamo pertanto un impegno internazionale molto più assertivo e coordinato nella ricerca di un maggiore accesso umanitario – ha concluso la Caritas -, compresa la facilitazione delle operazioni transfrontaliere dal Ciad e dal Sud Sudan, e ricerca seria di soluzioni diplomatiche per raggiungere un cessate il fuoco urgente e la fine di un conflitto che ha ora creato la più grande crisi alimentare del mondo nel 2024».

Papa Francesco, peraltro, ha auspicato in varie occasioni la fine immediata della violenza in Sudan, affermando che i combattimenti in corso stanno peggiorando la situazione umanitaria nel Paese. «Purtroppo la situazione in Sudan resta grave e quindi rinnovo il mio appello affinché si ponga fine quanto prima alle violenze e si ritorni sulla via del dialogo», ha affermato il pontefice lo scorso 23 aprile, dopo la preghiera domenicale del “Regina Coeli”.

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Costa d'Avorio Economia Politica e Società
Solibra, la più bevuta dagli ivoriani, non ha reso pubblici nei tempi previsti gli ultimi risultati economico-finanziari
Costa d’Avorio: sospeso il titolo in borsa del birrificio leader del paese
30 Aprile 2024
Articolo di Rocco Bellantone
Tempo di lettura 2 minuti
La sede di Solibra ad Abidjan, foto di Cyprien Hauser

Brwm, la Borsa regionale dei valori mobiliari di Abidjan, in Costa d’Avorio, ha sospeso questo mese il titolo di Solibra, azienda produttrice di birra e altre bevande gassate. Solibra, controllata da Bgi (Brasseries et Glacières Internationales, filiale del gruppo francese Castel), è accusata di non aver reso pubblici i propri risultati economico-finanziari periodici e annuali entro i tempi previsti, vale a dire non oltre 30 giorni dalla fine del trimestre o del semestre di esercizio e non oltre il 30 aprile dell’anno successivo rispetto all’anno di riferimento.

Non è l’unica irregolarità contestata all’azienda. Solibra non si è infatti attenuta ai vincoli fissati per la distribuzione del suo capitale flottante, ossia la quota di capitale sociale che non è di proprietà dei soci e che dunque può essere liberamente comprato e venduto sul mercato secondario dagli investitori. A Solibra è richiesto il possesso di almeno due milioni di azioni in circolazione. Dai controlli effettuati dalla Borsa regionale di Abidjan è però emerso che il suo capitale flottante del ammonta a circa 306.224 azioni.

Strapotere sul mercato 

Solibra è leader della produzione di birra in Costa d’Avorio, paese in cui detiene una quota del 75% del mercato interno contro il 13% del colosso olandese Heineken. Da qualche anno i suoi volumi di produzione sono però in picchiata. Nel 2022 l’azienda ha prodotto circa 1,6 milioni di ettolitri di Bock, qualità di birra che vende per la maggiore in Costa d’Avorio, rispetto ai 2,1 milioni del 2021. Dopo aver registrato un tonfo dell’utile netto nel 2022 del 95% (piombato a 1,22 miliardi di franchi CFA, circa 1,9 milioni di euro) il birrificio ha dichiarato di essere tornato in salute nel 2023 con un utile netto di oltre 11 miliardi.

Il management dell’azienda, guidato dal direttore generale Cyril Segonds, ha spiegato in una nota ripresa da Jeune Afrique che il profitto generato nella prima metà del 2023 è stato molto più alto di quello del 2022 nonostante un calo del 5% dei volumi di prodotto distribuiti. La società sta adesso predisponendo un piano per la riammissione del proprio titolo nella borsa regionale. Alcuni mesi prima di Solibra, lo stesso trattamento era stato riservato da Brwm a Eviosys Packaging Siem, società specializzata nella produzione di imballaggi metallici. La sospensione del suo titolo quotato in borsa durerà fino al prossimo giugno.

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Guinea-Bissau Politica e Società
Partono da Freedom Flotilla, le autorità del paese africano ne hanno bloccato un'imbarcazione carica di aiuti e diretta verso Gaza
Accuse contro la Guinea-Bissau: «Complice del genocidio di Israele»
Rimosse le bandiere di registrazioni a due navi
29 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 4 minuti
Il presidente guineano Embalò in Benin. Foto dal profilo Flickr della presidenza del Benin.

La Guinea-Bissau ha deciso di «rendersi complice dello sterminio per fame, l’assedio illegale e il genocidio che Israele sta commettendo contro i palestinesi a Gaza». L’accusa è partita dalla coalizione di ong a sostengo del popolo palestinese Freedom Flotilla a seguito della decisione della autorità guineane di bloccare una delle navi degli attivisti carica di migliaia di tonnellate di aiuti diretti verso la striscia, teatro da mesi di una violenta offensiva dell’esercito israeliano che ha causato la morte di oltre 42mila persone e praticamente sfollato la totalità della popolazione.

L’ente per la registrazione internazionale delle navi di Bissau, una compagnia privata che agisce su delega dello stato guineano, ha infatti rimosso la sua bandiera di registrazione da due navi della ong, fra le quali la più grande, la Akdenez, dopo un’ispezione, impedendole così di poter prendere il mare. L’intervento delle autorità guineane è avvenuto nel porto della Turchia dove erano ormeggiate le imbarcazioni nell’attesa di salpare verso la Palestina. La Akdenez era già stata caricata con circa 5mila tonnellate di beni salvavita e di prima necessità, sostiene sempre Freedom Flotilla. 

Gli attivisti, in una conferenza stampa a Istanbul, hanno inoltre lamentato una serie di stranezze e di irregolarità nei controlli effettuati dall’ente guineano. Innanzitutto è necessaria una premessa: Freedom Flotilla è costituita da un insieme di diverse organizzazioni – di cui la principale è la turca Turkish Humanitarian Relief Foundation (Ihh) – e nessuna di questa è di base in Guinea-Bissau. Issare una bandiera diversa da quella dell’effettivo paese di provenienza è pratica comune nella navigazione anche se molto malvista, visto che spesso gli armatori scelgono uno Stato diverso nel tentativo di godere di legislazioni più lasche e di controlli meno rigidi. La Guinea-Bissau comunque, non è inserita nella lista deli paesi fornitori di queste “bandiere di comodo” stilata dall’ International Transport Workers’ Federation (Itf), sindacato globale dei lavoratori del settore.

Tornando alla denuncia del gruppo di ong, la coalizione afferma che i controlli effettuati dagli ufficiali guineani sono «molto insoliti», visto che le imbarcazioni oggetto dei provvedimenti erano già state sottoposte «a tutte le ispezioni previste». Secondo quanto riportato dagli attivisti, Bissau avrebbe fatto esplicito riferimento alle attività di sostengo a Gaza dell’organizzazione nel momento di notificargli la decisione del blocco. In aggiunta, l’ente del paese africano «h inoltre presentato numerose richieste non comuni di informazioni, tra cui la conferma della destinazione delle navi, eventuali ulteriori scali portuali, il porto di scarico degli aiuti umanitari e le date e gli orari di arrivo stimati. Richiedeva inoltre una lettera formale che approvasse esplicitamente il trasporto degli aiuti umanitari e un inventario completo del carico».

Quali rapporti fra Bissau e Tel Aviv?

Da qui, l’accusa politica al governo del presidente Umaro Sissoco Embaló, che secondo gli attivisti si sarebbe reso complice dei crimini commessi da Tel Aviv e del suo reiterato impegno a non lasciare che gli aiuti umanitari vengano consegnati alla popolazione civile nonostante quanto ordinato da risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e da due ordini della Corte di giustizia dell’Onu di base a l’Aia. I giornali israeliani, dal canto loro, sostengono che l’invio di aiuti da parte di Freedom Flotilla non sia approvato da Tel Aviv.

Per adesso, la Guinea-Bissau non ha risposto alle accuse che le sono state rivolte dalla ong. Embaló si è recato in Israele lo scorso marzo. Nell’accoglierlo, l’omologo di Tel Aviv Isaac Herzog lo ha definito «un vero amico di Israele», ricordando inoltre gli studi del presidente nel paese mediorientale. Herzog ha anche sottolineato il sostegno guineano nel contesto dell’Unione Africana, dove da due anni prosegue un acceso dibattito sul ruolo come osservatore di Tel Aviv, concesso nuovamente nel 2021 dopo anni di sospensione ma oggetto di forte contrasto da alcuni stati membri.
In quell’occasione Embalo, che è alle prese anche con una crisi istituzionale interna al paese, si era definito un «messaggero di pace». La Guinea-Bissau ha votato a favore di un cessate il fuoco immediato a Gaza in Assemblea generale all’Onu.

 

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