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Migrazioni Politica e Società Tunisia Unione Europea
La presidente del Consiglio in Tunisia per la quarta volta in meno di un anno. Tra accordi e appelli, danaro e motovedette
Meloni da Saied per fermare i migranti
17 Aprile 2024
Articolo di Redazione
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Quattro visite in meno di un anno. Ma anche quella odierna ha lo stesso scopo delle precedenti: rafforzare gli accordi che si hanno con la Tunisia, soprattutto nella gestione dei flussi migratori, e rincuorare della presa in carico delle istanze di sollecito di quei 900 milioni di euro che il paese non ha ancora visto dall’Europa.

Così per prima cosa, in un incontro durato all’incirca un’ora, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ha ribadito il suo grazie «alle autorità tunisine e al presidente Saied per il lavoro che cerchiamo di portare avanti insieme contro i trafficanti di esseri umani».

Insieme, vista la rivendicazione da parte di Kais Saied, a dicembre dello scorso anno, di aver bloccato 70mila persone migranti intercettate nel 2023 mentre tentavano di attraversare il Mediterraneo per arrivare in Italia; e tenuto conto della prevista consegna di sei motovedette in regalo dall’Italia, che ripete con lo stato nordafricano il modello di patto con la Libia.

Regalo costoso (4 milioni e 800mila euro) oggetto di contestazione da parte di Asgi,  Arci, ActionAid, Mediterranea, Spazi Circolari e Le Carbet, che hanno impugnato il finanziamento deciso dal ministero dell’Interno, attraverso un’istanza cautelare di fronte al Tar del Lazio, che ha già calendarizzato un’udienza a proposito per il prossimo 30 aprile.

Azione che si aggiunge a quella portata avanti da 36 organizzazioni della società civile tunisina, tra cui il Forum tunisien pour les droits economiques et sociaux, Avocats Sans Frontières e Migreurop, che fanno notare come, a poco più di un anno dal discorso razzista del presidente Saied, la violenza e gli abusi continuino a essere sistematici da parte delle autorità tunisine contro le persone provenienti dall’Africa subsahariana.

Gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani che rimangono impunite e sembrano essere invisibili agli occhi di un’Italia che fa accordi e un’Europa che ha promesso soldi a un dittatore purché svolga il “lavoro sporco” capace di frenare il fenomeno migratorio.

Ma il lavoro sporco ha un prezzo che va incassato e il presidente Saied lo rivendica con sempre eguale minaccia: bloccare o meno le partenze. Da inizio anno i dati degli arrivi in Italia dicono che le partenze dalla Tunisia sono in diminuzione, motivo di autoelogio da parte del governo che rivendica l’accordo sui flussi stretto con il paese africano.

Ma nelle ultime settimane è proprio da questo paese che si è registrata un’impennata del numero degli arrivi. In trenta giorni si è registrato il 337% degli sbarchi in più rispetto al mese precedente: 5.587 le persone migranti partite da Sfax. Un numero considerevole, se si conta che dall’inizio dell’anno al 15 aprile le persone sbarcate sono 16.090.

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Armi, Conflitti e Terrorismo Nigeria Politica e Società
Ora la popolazione locale si sente ancora più insicura, in tanti hanno lasciato le loro case
Nigeria: ennesima imboscata, l’esercito lascia lo stato federale del Niger
26 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 3 minuti

Nonostante le proteste della popolazione locale, le forze armate della Nigeria si sono ritirate da dallo stato federale del Niger, situato nell’ovest del paese, a seguito della morte di sei soldati nell’ennesima imboscata di “banditi” locali. La decisione dell’esercito è stata resa nota dalla stampa locale e poi confermata ai giornalisti anche da Bello Abdullahi, commissario per la sicurezza interna del Niger.

I militari nigeriani hanno deciso di lasciare la zona a causa delle continue perdite che si registrano sul campo. Ultimo episodio in ordine di tempo, la scorsa settimana, quando due ufficiali e quattro soldati sono stati uccisi nella comunità di Allawa, nell’area di Shiroro.

Dopo il ritiro dei soldati centinaia di residenti, tra cui donne, bambini e anziani, hanno lasciato le loro case per dirigersi verso località ritenute più sicure, tra le quali Erena, Gwada, Kuta e Zumba, temendo per la propria incolumità. Molta gente, scioccata nel vedere i soldati smantellare le loro tende e andarsene, ha chiesto al governo dello stato federale del Niger di intervenire rapidamente per prevenire altri attacchi da parte dei banditi.

Attacchi continui 

Secondo le ricostruzioni della stampa nigeriana, i soldati si sono ritirati due giorno dopo che un veicolo delle forze armate nigeriane è esploso a causa di una mina collocata lungo l’autostrada Allawa-Pandogari. Nella deflagrazione diversi militari hanno perso la vita mentre altri sono rimasti feriti.

L’incidente si è verificato meno di una settimana dopo che due ufficiali, quattro soldati, un guardiano e un cacciatore avevano perso la vita in un’altra imboscata, stavolta durante un attacco di uomini armati contro le località di Roro, Karaga e Rumace. «Abbiamo lasciato gran parte delle nostre cose perché non potevamo trasportarle, i mezzi di trasporto sono infatti pochissimi – hanno detto alcuni sfollati a causa dei combattimenti nella regione-. D’altro lato non possiamo restare inerti e essere uccisi dai banditi o dai jihadisti di Boko Haram».

In effetti, il ritiro del personale militare rischia di rendere gli abitanti della zona molto più vulnerabili alle violenze. Nell’ultimo anno, secondo le stime, non meno di 30 ufficiali e soldati hanno perso la vita in attacchi da parte di banditi e terroristi nello stato di Niger, che si estende da ovest della capitale Abuja fino al confine col Benin e fino a non lontano dalla frontiera con lo stato sovrano omonimo, con cui non è da confondere.

Voci governative hanno giustificato lo smantellamento affermando che questo si svolge nell’ambito di accordi volti a riconfigurare la presenza dell’esercito nazionale nella regione. Il quotidiano nigeriano Push ha tenato di mettersi in contatto con il maggiore generale Edward Buba, il portavoce delle operazioni di difesa, finora senza successo.

Il termine “banditi”, traduzione dell’inglese bandits, è usato da alcuni anni dalle autorità e dalla stampa nigeriana per riferirsi a gruppi di uomini armati che commettono rapimenti a scopo di riscatto, razzie nei villaggi e attacchi contro le forze armate. Questi gruppi, attivi in tutto il paese ma per l più negli stati settentrionali, non hanno in realtà una posizione politica o religiosa riconoscibile anche se a volte vengono associati a milizie riconducibili a organizzazioni jihadiste locali come lo Stato Islamico della provincia dell’Africa occidentale (Iswap) e il gruppo noto come Boko Haram. 

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AFRICA Migrazioni Pace e Diritti Politica e Società Unione Europea
Respinte un terzo delle richieste dal continente. È la regione con la maggior percentuale di dinieghi in assoluto
Sui visti di ingresso l’Europa gira le spalle all’Africa
Bloccati anche scienziati, accademici, artisti. Si parla di “pregiudizio predeterminato” nei confronti dei cittadini africani
26 Aprile 2024
Articolo di Antonella Sinopoli
Tempo di lettura 6 minuti
Il muro al confine fra il Marocco e l'exclave spagnola di Melilla. Foto dal profilo Flickr di Ángel Gutiérrez Rubio

Circa un terzo delle domande di visti per l’area Schengen europea presentate da cittadini africani vengono respinte. Si tratta del tasso di rifiuto più alto di qualsiasi regione al mondo. È quanto risulta (e diremmo che si tratti di una conferma) dal recente report di Henley & Partners, società di consulenza sull’immigrazione. Nel 2022 l’Africa era in cima alla lista dei respinti con il 30%, vale a dire una su tre, di tutte le domande esaminate, tasso superiore – come risulta dall’analisi – almeno del 10% rispetto alla media globale. E questo nonostante il continente abbia presentato il minor numero di domande di visto pro capite.

A fare le spese di questo “pregiudizio predeterminato”, come è stato definito, non sono soltanto i singoli individui perché ad essere in gioco sono relazioni commerciali, scambi accademici, opportunità di crescita. E se gli Stati europei hanno citato principalmente «ragionevoli dubbi sull’intenzione dei richiedenti il visto di tornare a casa» nei loro respingimenti, i ricercatori sostengono che il sistema europeo dei visti «dimostra chiaramente un’apparente parzialità nei confronti dei richiedenti africani».

Fatto sta che l’accesso limitato ai paesi ricchi e gli alti tassi di rifiuto del visto, fanno sì che gli africani siano stati esclusi da numerose opportunità non solo nel campo degli studi, per esempio, ma anche nel commercio multinazionale, nel fare rete ed esplorare iniziative imprenditoriali internazionali. «Gli imprenditori e gli investitori africani vengono spesso esclusi dai lucrosi mercati globali, ostacolando il loro potenziale di crescita economica e prosperità finanziaria», osserva il rapporto. Le domande di visto Schengen risultano diminuite a livello globale: da 16,7 milioni nel 2014 a 7,6 milioni nel 2022, con un calo di quasi 9 milioni di domande equivalete al 54,7%. Per quanto riguarda l’Africa, nello stesso periodo, il numero assoluto di domande per l’Europa è diminuito da 2,22 milioni nel 2014 a 2,05 milioni nel 2022, con un calo pari al 7,7%.

Quasi il doppio della media globale 

Ma, contemporaneamente, è salito il tasso di rifiuto del visto. A livello globale è pari al 12,5%. In Africa, come dicevamo, ha raggiunto invece il 30%, quasi il doppio della media globale, ed era il 18% nel 2014. Circa tre richiedenti di visto Schengen africani su dieci sono stati respinti, rispetto a uno su dieci a livello mondiale. Il continente – nel 2022 – rappresenta sette dei primi 10 paesi con il più alto tasso di rifiuto del visto europeo: Algeria (45,8%), Guinea-Bissau (45,2%), Nigeria (45,1%), Ghana (43,6%), Senegal (41,6%), Guinea (40,6%) e Mali (39,9%). Al contrario, solo un richiedente su venticinque residente negli Stati Uniti, in Canada o nel Regno Unito è stato respinto, e uno su dieci dalla Russia. Risulta, dunque, che gli algerini si trovano ad affrontare un tasso di rifiuto dieci volte superiore a quello dei candidati canadesi, mentre i ghanesi hanno quattro volte più probabilità di essere respinti rispetto ai russi. I nigeriani devono affrontare un tasso di rifiuto rispetto ai richiedenti in Turchia quasi tre volte superiore e doppio rispetto a quello iraniano. Ma ci sono delle eccezioni: le Seychelles e Mauritius, che insieme a 61 paesi dell’America Latina e dell’Asia sono esenti dall’obbligo del visto Schengen. Alcuni paesi africani come il Sudafrica, il Botswana e la Namibia devono affrontare un tasso di rifiuto relativamente basso, inferiore al 7%. Sono eccezioni che hanno il loro significato: parliamo di paesi ad alto reddito e, per esempio, per quanto riguarda le Seychelles e Mauritius, inserite nella lista dei cosiddetti paradisi fiscali.

Non è un caso che l’accesso ai visti Schengen corrisponda al potere economico e del passaporto del paese di cittadinanza del richiedente. Più povero è il paese di nazionalità, maggiore è il tasso di rifiuto. Molti paesi africani hanno un basso reddito nazionale lordo pro capite e si collocano anche in basso nell’indice Henley Passport, quello che misura il numero di destinazioni in cui un titolare di passaporto può entrare senza visto. Più si sta in basso nella lista meno possibilità si hanno di viaggiare in Europa con un visto regolare. Paradossalmente, dunque, i passaporti spesso ostacolano anziché facilitare la mobilità degli africani. Tra l’altro le richieste di visto, siano esse presentate per motivi di lavoro, studio o turismo, sono soggette a processi di richiesta lunghi e macchinosi. I rifiuti sono molto costosi per i richiedenti, in particolare per le tariffe non rimborsabili, ma anche per il trasporto per raggiungere le Ambasciate e altre spese. E poi va considerata tutta la rabbia, la delusione, la frustrazione che questi rifiuti alimentano.

La denuncia di Owusu-Gyamfi

Soprattutto quando sembrano più che mai ingiusti e ingiustificati. È il caso di tanti artisti, giornalisti, relatori, accademici, scienziati che, nonostante il loro curriculum e la regolare documentazione, si sono visti negare il visto. Uno degli ultimi casi da manuale è quello di Sandra Owusu-Gyamfi, dottoranda presso l’Università del Ghana, che ha affidato a un intervento, pubblicato su Nature e ampiamente diffuso, la frustrazione per non aver potuto partecipare a una conferenza sulla biodiversità a Lisbona. Conferenza alla quale era stata invitata. «Demoralizzata, imbarazzata e insultata», questi i sentimenti della studiosa, sentimenti condivisi da moltissimi altri colleghi che si sono trovati nella stessa situazione. Secondo un’inchiesta del 2018 condotta dall’organizzazione di ricerca RAND – cita la biologa – i ricercatori africani e asiatici hanno maggiori probabilità di avere problemi legati ai visti per visite a breve termine.

E un’analisi del 2023 della Royal Society di Londra ha mostrato che nel 2022, dei 30 territori per i quali il Regno Unito ha rifiutato più spesso i visti turistici, 22 erano in Africa. Tutte occasioni perse, non solo per chi ha ricevuto il rifiuto, ma anche per i paesi che non hanno permesso lo scambio di studi, intuizioni, soluzioni provenienti da altre parti del mondo. Ma torniamo al report. Gli analisti fanno notare che la sola possibilità di soggiorno illegale (addotta dai funzionari dei consolati) non può spiegare i tassi di rifiuto significativamente più alti tra i richiedenti africani. «Non ci sono prove – si afferma – che suggeriscano che un tasso di rigetto più elevato porti a una diminuzione della migrazione irregolare o dei soggiorni oltre il visto». Sebbene fattori come il reddito, l’economia nazionale, la credibilità del ritorno e la forza del passaporto rappresentino parzialmente i tassi di rifiuto del visto, questi elementi non offrono una spiegazione esaustiva delle disparità con altre regioni. «La validità del passaporto e i livelli di reddito da soli non possono giustificare pienamente le variazioni nei tassi di rifiuto per i richiedenti africani, come evidenziato dai tassi di rifiuto comparativamente più bassi per paesi come India e Turchia».

Insomma, come a ribadire che le motivazioni del rifiuto sembrano essere di altra natura: quel pregiudizio di fondo che andrebbe affrontato senza ipocrisie. L’Unione Europea – suggeriscono gli autori del report – deve affrontare le attuali pratiche discriminatorie nell’ambito del processo di richiesta del visto e lavorare per promuovere giuste e pari opportunità per percorsi legali di mobilità tra Africa ed Europa. Oltretutto, farlo vorrebbe dire per l’Europa impegnarsi a rafforzare le relazioni commerciali e i partenariati tra i due continenti a vantaggio di entrambi.

 

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AFRICA Ambiente Armi, Conflitti e Terrorismo Economia Migrazioni Pace e Diritti Politica e Società
Secondo l'ultimo report della ong, il continente soffre delle conseguenze di conflitti, crisi climatica e aumento prezzo del cibo
Amnesty International: sui diritti umani siamo in regressione, in Africa subsahariana e non solo
Ci sono alcune buone notizie ma lo scenario è complesso. A partire dalla guerra in Sudan
24 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 5 minuti

La rimozione di un divieto alle attività politiche per le opposizioni in Tanzania; l’inizio di un programma per l’istruzione gratuita in Zambia, con l’assunzione di nuovi 4.500 insegnanti; vari disegni di legge, anche prossimi all’approvazione, che puntano a contrastare la violenza e le discriminazioni di genere in Sudafrica, Sierra Leone e Repubblica democratica del Congo. Nell’ultimo report annuale sullo stato dei diritti umani nel mondo pubblicato da Amnesty International ci sono alcune buone notizie che arrivano dall’Africa subsahariana.

Certo, nel complesso lo scenario del continente è ancora segnato da pesanti violazioni e abusi. E dalla compresenza e congiuntura di conflitti, crisi climatica, compressione dello stato di diritto come risposta alle mobilitazioni popolari.

In regressione 

Necessario però, collocare la situazione dell’Africa nel più ampio contesto globale, che non è meno difficoltoso. Secondo Amnesty, ong per la tutela dei diritti umani nata in Gran Bretagna nel 1961 e che a oggi conta 10 milioni di attivisti in tutto il mondo, il nostro pianeta si è imbarcato su una pericolosa macchina del tempo: a detta dell’organizzazione, che rilancia un dato calcolato dal del V-dem Institute, un ente di ricerca di base in Svezia che studia le performance dei governi, il numero di persone che vive in democrazia è diminuito fino ad arrivare alla stessa cifra del 1985. Cinque anni prima della caduta del Muro di Berlino e della fine della Guerra Fredda, nove anni prima della liberazione di Nelson Mandela e dell’ultimo anno del regime di apartheid in Sudafrica, solo per citare due eventi storici dalla grande portata.

Si torna più indietro ancora, a prima della pubblicazione della Convenzione sul genocidio del 1948, se si guarda a cosa sta avvenendo in alcuni dei principali fronti di conflitto presenti nel mondo. L’imperativo “mai più” che ha spinto la comunità internazionale a reagire agli orrori della Seconda guerra mondiale e dell’Olocausto è stato «distrutto in mille pezzi» in Israele e a Gaza e in Ucraina, ma anche in Myanmar e in Cina, dove prosegue la persecuzione ai danni della minoranza uigura.

Anche quelli che potrebbero essere strumenti di progresso, forse in grado di accompagnare il mondo fuori da questa spirale regressiva, diventano invece mezzi utili a perpetuare razzismo, diffondere disinformazione e reprimere la libertà di espressione. Il grande sviluppo tecnologico, afferma Amnesty, non sta aiutando il mondo a evolvere insomma, e le prospettive di crescita e diffusione nell’uso dell’intelligenza artificiale sono motivo di preoccupazione.

Il dramma sudanese

Tornando all’Africa, la guerra in Sudan è al momento la crisi che provoca maggiore inquietudine. Il conflitto, scoppiato nell’aprile 2023 fra l’esercito regolare al servizio del presidente de facto Abdelfattah al-Burhan e le milizie agli ordini del vice presidente Mohamed Hamdan Dagalo, «illustra l’immensa sofferenza dei civili coinvolti nei conflitti armati in tutta la regione e il totale disprezzo da parte delle parti in conflitto per il diritto internazionale umanitario». Almeno 12mila, riporta Amnesty, le vittime civili del conflitto.

Le parti belligeranti in Sudan stanno commettendo anche violenze sessuali. Questo tragico elemento torna in diversi scenari di conflitto del continente e in modo particolare in Repubblica democratica del Congo, dove nella sola provincia nord-orientale del Nord Kivu e nei soli primi tre mesi dell’anno scorso sono state registrati 38.000 casi di violenza sessuale, stando a dati Unicef rilanciati nel report.

Oltre alle guerre, in Africa continuano a registrarsi fasi di violenta repressione del dissenso. «In molti casi – si legge nel testo – le forze di sicurezza hanno disperso le proteste utilizzando una forza eccessiva; decine di manifestanti e passanti sono stati uccisi e feriti, anche in Angola, Etiopia, Kenya, Mali, Mozambico, Senegal e Somalia».

Diritto al cibo, diritto mancato 

Un altro dei problemi che emerge dal report di Amnesty è il mancato diritto al cibo. «Molti paesi africani – denuncia l’ong – sono stati tra i più colpiti al mondo dall’elevata inflazione dei prezzi alimentari. Il numero di persone che soffrono di insicurezza alimentare ha raggiunto proporzioni sconcertanti. Il Programma alimentare mondiale ha stimato che a febbraio il 78% della popolazione della Sierra Leone soffriva di insicurezza alimentare e il 20% delle famiglie soffriva di grave insicurezza alimentare. A dicembre, l’Ocha ha affermato che 5,83 milioni di persone (46%) della popolazione del Sud Sudan vivevano livelli elevati di insicurezza alimentare. In Namibia, l’insicurezza alimentare acuta è aumentata drasticamente, colpendo il 22% della popolazione».

Questo problema è a sua volta aggravato dai cambiamenti climatici e dai conflitti, in una dinamica di moltiplicazione dei fronti di criticità che si registra in molte regioni del continente. Ripercuotendosi, a esempio, anche sul godimento del diritto allo studio. Questo, afferma Amnesty, «è stato negato o gravemente ostacolato nei paesi colpiti da conflitti, in particolare in Burkina Faso, Camerun, RD Congo e Niger».

Le guerre lasciano poi ferite che vanno rimarginate e vittime che meritano giustizia. Ma anche su questo fronte sono stati osservati dei passi indietro. I governi di diversi paesi, fra i quali l’Etiopia, stanno di fatto abbandonando od ostacolando processi per la verità e la riparazione a seguito di conflitti e violazioni dei diritti umani. Fra le note positive in questo senso, l’arresto di quattro uomini accusati di crimini di guerra e/o crimini contro l’umanità in Repubblica Centrafricana.

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Ambiente Politica e Società
Le megalopoli rischiano uno scenario apocalittico tra inquinamento, siccità, epidemie e inondazioni. Ma diverse iniziative già in atto potrebbero limitare i danni
Cambiamenti climatici: prevenzione nelle metropoli africane
24 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 3 minuti

Nonostante i territori urbani ricoprano solo il 3% della superficie del pianeta, ci sono circa 3 miliardi e mezzo di persone nel mondo che vivono in città altamente vulnerabili ai cambiamenti climatici. Questo perché le città, soprattutto metropoli e megalopoli, sono sempre di più un concentrato esplosivo di inquinamento, responsabili del 78% dell’emissione globali dei gas serra e del consumo del 60% dell’acqua potabile. Assorbono inoltre circa l’80% dell’energia utilizzata dai consumatori.

Per questa ragione, diverse metropoli africane, tra cui Il Cairo, Lagos e Nairobi stanno sperimentando ormai da anni l’effetto della cosiddetta “isola di calore urbana”, che si aggiunge agli altri effetti negativi dei cambiamenti climatici, come l’aumento delle epidemie e delle malattie legate alla carenza di acqua (o della sua non potabilità). 

Nonostante questi dati catastrofici, uno studio ha rilevato come svariate città africane si stiano attrezzando per iniziare a ridurre le emissioni di gas serra. Nonostante infatti la maggior parte africani sia restia ad abbandonare la strada dei combustibili fossili, in primis perché rappresenta una fonte di entrate economiche a cui sarebbe difficile rinunciare, non mancano iniziative locali che puntano sulle energie rinnovabili. 

La scorsa primavera Gitega, in Burundi, si è accaparrata il titolo di prima capitale al mondo alimentata ad energia solare

Nairobi, in Kenya, oltre a star progressivamente ampliando il proprio sistema di trasporto pubblico sia tramite autobus che reti ferroviarie, ha creato degli incentivi per installare pannelli solari su palazzi pubblici e privati, per ridurre la dipendenza dai combustibili. 

Anche Lagos, in Nigeria, e Accra, in Ghana, stanno spingendo sulle infrastrutture e sul trasporto pubblico. 

In Sudafrica, Città del Capo, Durban, Johannesburg e altre due città hanno sviluppato un vero e proprio piano di azione per il clima. Un modello sicuramente imperfetto che rappresenta però passo in direzione di un cambiamento concreto e di una maggiore consapevolezza. 

La zona del Sahel e dell’Africa occidentale in generale è un po’ più indietro rispetto ad altre aree sotto questo punto di vista, ma non mancano gli esempi positivi, come Dakar, in Senegal. Abidjan, in Costa d’Avorio e Accra, in Ghana. Dakar, in particolare, sta lavorando per ridurre il rischio di inondazioni attraverso un sistema di dighe marittime, frangiflutti e dune di sabbia. Iniziative fondamentali, se si considera che le inondazioni rappresentano il più alto rischio di morte legato al clima, con 8,5 milioni di vittime stimate nel mondo entro il 2050. 

In sostanza, dallo studio di Thondoo, Allam e John, autori del saggio Città e cambiamenti climatici, emerge uno scenario apocalittico per chi vive nelle megalopoli del continente, a meno che non si cominci a prendere provvedimenti concreti, come in alcuni casi (ancora troppo pochi) sta accadendo. Si stima, riporta lo studio, che un investimento di 280 miliardi di dollari entro il 2050 in misure di adattamento potrebbe generare 1,1 trilioni di dollari in benefici per le città in Etiopia, Kenya e Sudafrica e creare 210mila nuovi posti di lavoro in più rispetto allo stesso investimento nei combustibili fossili. Con un utile di sei dollari ogni dollaro investito, secondo le Nazioni Unite. 

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