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Burundi Chiesa e Missione Politica e Società
La Conferenza episcopale denuncia gli eccessi autoritari del potere, la volontà di instaurare un sistema monopartitico, la giustizia subordinata alla politica e l'impoverimento della popolazione
Burundi: monito dei vescovi al governo in vista delle elezioni del 2025
15 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 3 minuti
(Credit: CECAB)

È un messaggio che non lascia spazio a interpretazioni quello che la Conferenza episcopale del Burundi (CECAB) ha fatto leggere in tutte le chiese del paese ieri, in occasione della messa domenicale della terza domenica di Pasqua. Una dura denuncia nei confronti del governo, con lo sguardo alla preparazione delle elezioni del maggio 2025.

In riferimento alle parole di Gesù «la pace sia con voi», i vescovi hanno individuato quattro ambiti di azione: “consolidamento della fiducia reciproca in un’amministrazione che ascolta e serve tutti, riforma dell’organo di governo della giustizia, consolidamento della sicurezza protettiva della persona umana e affrontare il problema della povertà nel paese”.

In sostanza i vescovi denunciano gli eccessi autoritari dell’attuale potere, la volontà di instaurare un sistema monopartitico, la giustizia subordinata alla politica, il perdurare delle esecuzioni extragiudiziali e delle sparizioni forzate, e l’impoverimento dell’intera popolazione.

“Sappiamo dal passato del nostro paese – scrivono i vescovi – come il Burundi sia ripetutamente sprofondato nella violenza a seguito dell’esclusionismo e della ricerca esagerata di potere. Anche oggi, questo rimane per noi motivo di preoccupazione poiché ci sono segnali di coloro che vorrebbero riportarci al vecchio sistema politico monopartitico”.

“È quindi necessario rafforzare un regime che dia spazio a tutti i gruppi politici, compresi quelli di opposizione al partito al potere, per consentire a tutti i cittadini di esprimere le proprie idee attraverso i media dello stato, l’organizzazione e lo svolgimento di comizi nel rispetto con la legge, senza alcun ostacolo”.

“Constatare che nel nostro paese ci sono persone orribilmente assassinate o rapite e scomparse per motivi politici o altri macabri interessi, fa rabbrividire”, si legge ancora.

Riguardo alla povertà diffusa, i vescovi invitano il governo a “studiare a fondo la questione”, stabilendo meccanismi di monitoraggio e valutazione.

Inoltre, “affinché la popolazione possa condurre una vita pacifica, senza disperazione, è necessario che le autorità competenti garantiscano scrupolosamente il bene comune e che gli autori di malversazioni siano arrestati e puniti pubblicamente a norma della legge”.

E proprio la corruzione e le pressioni politiche nel sistema giudiziario sono tra i temi toccati nel messaggio, in cui i vescovi riportano la preoccupazione di alcuni funzionari della giustizia per la loro incolumità, denunciando pressioni e “molestie da parte di alcuni dirigenti che li costringono a infrangere la legge invece di difendere la verità e la giustizia”.

Ma, avvertono poi, la questione della giustizia riguarda anche le modalità di assunzione a livello statale. “Ci giungono lamentele da parte di diverse persone secondo cui l’accesso al lavoro non tiene conto delle conoscenze, del know-how o delle capacità professionali, ma è condizionato dal solo criterio dell’attivismo nel partito al governo e/o dalla capacità di pagare tangenti”.

“Questa pratica corrotta – avvertono – porta all’incompetenza e alla mancanza di produttività, alla remunerazione di persone pigre e saccheggiatrici dello stato, rendendo così endemica la pratica della corruzione”.

Niente di nuovo purtroppo per il paese, passato con continuità, nel 2020, dal feroce regime del presidente Pierre Nkuruziza a quello del generale Evariste Ndayishimiye, anche lui alto dirigente del Consiglio Nazionale per la Difesa della Democrazia – Forze per la Difesa della Democrazia (CNDD-FDD), partito che di fatto governa il paese dal 2005.   

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Armi, Conflitti e Terrorismo Ciad Podcast Politica e Società
Intervista ad Alessio Iocchi, sulla grammatica del potere in Ciad, al di là delle elezioni del 6 maggio
Intrafrica podcast / Ciad – oltre le elezioni
03 Maggio 2024
Articolo di Roberto Valussi
Tempo di lettura 2 minuti

Ciad e elezioni: non una storia d’amore; semmai di formalità. Il 6 maggio, i cittadini ciadiani saranno chiamati a votare per scegliere il Capo di stato. 

Ma le urne qui non determinano tanto il futuro. A contare di più sono la forza militare dei contendenti, le loro trame locali e internazionali. In Africa subsahariana e non solo, ci sono tanti stati così, in mano a quelli che vengono definiti autoritarismi democratici, dei regimi autoritari con le parvenze di una democrazia. Allora, perché occuparci del Ciad, di cui si parla veramente poco? In primo luogo perché quello che succede qui influenza tutta l’area limitrofa, di cui l’Italia pare si stia accorgendo solo negli ultimi 2 anni, con l’ondata di golpe nel Sahel e il timore per un acuirsi della spinta migratoria. 

Altri paesi s’erano accorti ben prima di noi del Ciad e del suo ruolo di cerniera tra Africa del nord e sub-sahariana. Al punto che la Francia ne aveva fatto un suo avamposto militare durante la guerra fredda. Ma in tempi di declino della françafrique, avanzate russe e passi incerti americani, dove va il Ciad di oggi e come lo fa? Affrontiamo tutto questo in collegamento con Alessio Iocchi, esperto di Sahel, ricercatore presso la Statale di Milano e docente a Napoli dell’Università Federico II e dell’Orientale. 

Per orientarsi nella puntata:

01:51 – I vicini turbolenti del Ciad

04:12 – Ciad utile e Ciad inutile

07:02 – Il figlio d’arte del nepotismo: chi è Déby figlio

10:54 – Cugino, oppositore e eliminato: Yaya Dillo Djerou 

13:00 – Laureato in matematica e pronto alla ribellione   

14:41 – L’esecuzione di Kaka contro il cugino

17:25 – La fu speranza del cambiamento: Succès Masra

20:58 – Masra: l’opposizione cooptata

22:44 – L’oppositore di professione nell’autoritarismo democratico

26:01 – Il Ciad e la françafrique

28:55 – Cosa conta N’djamena per Washington 

30:50 – La semplice strategia russa in Ciad

33:50 – Il Ciad nella guerra in Sudan

 

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Pace e Diritti Politica e Società Sao Tomè e Principe
Lo ha annunciato la ministra della cultura dello stato insulare, Isabel Abreu
São Tomé e Príncipe chiede al Portogallo riparazioni per il periodo coloniale
A Lisbona è d'attualità il dibattito sul tema. Contrasti fra il governo e il presidente de Sousa
03 Maggio 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 3 minuti
Il forte portoghese di São Sebastião a São Tomé. Foto dal profilo Flickr di David Stanley

Isabel Abreu, ministra dell’Istruzione e della Cultura di Sao Tomé e Principe, ha comunicato in settimana all’agenzia di stampa portoghese Lusa che il governo di cui fa parte elaborerà un piano per negoziare le riparazioni con il Portogallo relative agli anni del colonialismo. La faccenda sarà discussa in una riunione di gabinetto.

L’annuncio di Abreu giunge quando il tema delle riparazioni è al centro del dibattito politico portoghese. La questione, di cui si parla da anni, è tornata di attualità dopo che il presidente Marcelo Rebelo de Sousa è tornato di recente sulla questione ammettendo che Lisbona è responsabile dei crimini commessi durante la schiavitù transatlantica e l’era coloniale. Il capo dello stato ha suggerito che sia giusto considerare quindi di risarcire i paesi africani che sono stati sotto la dominazione coloniale portoghese. La linea di de Sousa non è condivisa dal nuovo governo che si è instaurato nel paese a inizio aprile.  L’esecutivo è di centro-destra – stesso orientamento politico del presidente –  ma ha fatto sapere che non ha intenzione di avviare alcun processo di riparazione economica nei confronti delle ex colonie. Il governo guidato dal primo ministro Luís Montenegro ha sostenuto invece che è necessario pensare a una riconciliazione.

La proposta partita da de Sousa è stata invece accolta positivamente dall’ambasciatore del Mozambico presso le Nazioni Unite Pedro Comissário Afonso. Secondo il diplomatico affrontare il passato è «già riparativo». Se si riuscisse ad «andare ancora oltre», ha affermato l’ambasciatore, «sarebbe ancora più importante». Il presidente di Capo Verde, Jose Maria Neves, dal canto suo, ha affermato che è necessario avviare un dialogo per «raggiungere un’intesa e un consenso su queste questioni». E il ministro brasiliano per l’uguaglianza razziale, Anielle Franco, ha detto che  il suo gabinetto è in contatto con il governo portoghese per discutere l’intera questione.

L’Onu è favorevole alle riparazioni 

Chi si oppone alle riparazioni sostiene, tra le altre cose, che gli stati e le istituzioni contemporanei non dovrebbero essere ritenuti responsabili della tratta degli schiavi. I sostenitori del risarcimento, al contrario, affermano che è necessario affrontare l’eredità della schiavitù, visto anche che gli stati contemporanei continuano a beneficiare della ricchezza generata da centinaia di anni di lavoro non retribuito e ottenuto tramite sfruttamento. L’idea di pagare dei risarcimenti o fare altre ammenda per la schiavitù transatlantica ha una lunga storia e rimane profondamente controversa, ma sta guadagnando slancio in tutto il mondo. Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha affermato che le riparazioni sono necessarie per andare oltre «generazioni di esclusione e sfruttamento». Questa esortazione è contenuta anche in un report pubblicato dall’Onu lo scorso settembre. Nel documento si afferma: «Secondo il diritto internazionale, il risarcimento di qualsiasi danno economicamente valutabile, come appropriato e proporzionale alla gravità della violazione e alle circostanze di ciascun caso, può anche costituire una forma di riparazione». 

Quando le autorità di Lisbona fanno riferimento alle responsabilità del paese nella tratta degli schiavi parlano di una fase storica durata quattro secoli e che ha colpito oltre sei milioni di persone, sequestrate o comprate in Africa e deportate nei territori oltre Oceano, soprattutto in Brasile, dove a oggi risiede la più numerosa popolazione di origine africana del mondo. Questo terribile commercio di esseri umani ha coinvolto un’areale geografico molto ampio, che comprende i territori degli odierni Angola, Mozambico, Capo Verde, Sao Tomé e Principe, Brasile, Timor Est e di alcuni altri territori dell’Asia soggetti al dominio lusitano.

 

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Lo ha spiccato la Corte penale speciale di base a Bangui che indaga sui crimini commessi nel paese dal 2003
Repubblica Centrafricana: mandato di arresto internazionale per Bozizè
Ma la Guinea-Bissau, che ospita l'ex presidente come rifugiato, dice no
02 Maggio 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 3 minuti
L'allora presidente Bozizè a Bruxelles. Foto dal profilo Flickr del CAR Development Partner Round Table 01

La Corte penale speciale (Cps), sostenuta dalle Nazioni Unite e di base a Bangui, ha emesso un mandato di arresto internazionale nei confronti dell’ex presidente della Repubblica Centrafricana François Bozizé per crimini contro l’umanità commessi dalle forze armate nazionali tra il 2009 e il 2013. I presunti crimini includono omicidio, sparizione forzata di persone, tortura, stupro e altri atti disumani.

Bozizé, 77 anni, aveva preso il potere in Africa centrale nel 2003 con un colpo di stato ed era stato rovesciato 10 anni dopo. Ora è alla testa dell’opposizione e vive in esilio in Guinea-Bissau dal marzo 2023. Il mandato internazionale è stato emesso il 27 febbraio ma annunciato solo due giorni or sono, secondo la dichiarazione del Cps, istituito nel 2015 con il patrocinio dell’Onu.

Questo tribunale chiede la collaborazione della Guinea-Bissau per “l’arresto” e “la consegna del sospettato”. La corte è incaricata di indagare sui crimini di guerra commessi dal 2003 nel paese, che ha sopportato guerre civili e regimi autoritari dall’indipendenza dalla Francia nel 1960. I magistrati della corte stanno indagando su possibili “crimini contro l’umanità” commessi dalla guardia presidenziale di Bozizé tra febbraio 2009 e marzo 2013 in una prigione civile e in una struttura di addestramento militare nella città centrale di Bossembélé. I giudici hanno concluso che esistevano «prove serie e coerenti contro Bozizé, tali da confermare la sua responsabilità penale, in quanto responsabile politico e capo militare».

Un no secco da Bissau 

Amnesty International, per bocca di Samira Daoud, direttrice regionale per l’Africa centrale e occidentale, ha comunicato che il mandato «costituisce un passo incoraggiante nella ricerca di giustizia per le vittime di numerosi crimini commessi nella Repubblica Centrafricana». E ha sollecitato la Guinea-Bissau a consegnare Bozizé «senza indugio» alle autorità centrafricane. Per adesso però, le notizie che giungono da Bissau vanno in tutt’altra direzione. Il presidente guineano Umaro Sissoco Embaló ha affermato che l’ordinamento del suo paese «non prevede l’estradizione». Il capo dello stato ha aggiunto, sempre in riferimento a Bozizè: «Quello che sappiamo è che da quando è arrivato in Guinea-Bissau non ha creato alcun problema. È qui in esilio, come anche noi, durante la nostra lotta per l’indipendenza, abbiamo avuto esuli in altri paesi». L’ex presidente centrafricano è stato accolto dal paese guidato da Embalò come rifugiato nel marzo 2023 e nell’ambito di un accordo che ha visto il coinvolgimento anche del Ciad – precedente paese di residenza di Bozizè  – e dell’Angola, oltre che la mediazione di organismi regionali. Embalò ha reso nota l’intenzione di chiarire la faccenda con l’omologo centrafricano Faustin-Archange Touadéra. 

La guerra civile 

La cosiddetta seconda guerra civile centrafricana scoppiò fra la fine del 2012 e i primi mesi del 2013,  quando una coalizione armata a maggioranza musulmana, Seleka, ha spodestato Bozizé. L’ex presidente era stato accusato di non riuscire a far rispettare quanto stabilito negli accordi di pace che si erano resi necessari dopo un’altra fase di conflitto civile scoppiata nel 2004.  Bozizé rispose agli insorti formando una milizia composta per lo più da persone cristiane e animiste, nota come anti-Balaka, per riconquistare il potere. Migliaia di civili sono stati uccisi nei combattimenti, ed entrambe le parti sono state accusate di crimini di guerra e crimini contro l’umanità dalle Nazioni Unite.

Il conflitto  ha perso di intensità dopo il 2018. Nel dicembre 2020 però, Bozizè ha formato una nuova alleanza di gruppi ribelli chiamata Coalizione dei Patrioti per il Cambiamento (CPC),  costituita nel tentativo di rovesciare il suo successore, Faustin-Archange Touadéra. Come noto, Touadéra ha chiamato in soccorso mercenari di Wagner e altri agenti russi per combattere i ribelli. Bozizé era già stato condannato in contumacia lo scorso settembre ai lavori forzati a vita per cospirazione, ribellione e omicidio.

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Algeria Pace e Diritti Politica e Società
Nigrizia ha intervistato il cronista Mustapha Bendjama, liberato dopo 15 mesi di carcere
Algeria: «Stampa attaccata e in carcere, ma da chi resiste tanta speranza»
Il giornalista era stato arrestato con varie accuse. Fra queste, «ricezione di finanziamenti esteri»
02 Maggio 2024
Articolo di Nadia Addezio
Tempo di lettura 5 minuti
Una foto di Mustapha Bendjama pubblicata dall'emittente algerina Radio M

Il 18 aprile, il giornalista algerino Mustapha Bendjama ha lasciato il carcere di Boussouf, nella città di Costantina, dopo aver trascorso in detenzione 15 mesi. Nigrizia ha seguito fin dal principio il caso del già caporedattore del quotidiano Le Provincial, analogo a quello di giornalisti, attiviste e attivisti, accusati di minacciare la sicurezza dello Stato per aver svolto il loro lavoro e/o espresso il loro dissenso. A tal proposito, durante il mese di Ramadan – conclusosi il 9 aprile – è stata lanciata una campagna di informazione per rendere manifesta a livello nazionale e internazionale la loro detenzione arbitraria. In occasione del ritorno alla libertà, abbiamo intervistato Bendjama per conoscere la sua versione dei fatti.

A febbraio 2023, lei è stato incarcerato con le accuse di ricezione di finanziamenti esteri, diffusione di informazioni segrete e d’essere implicato nell’affaire Amira Bouraoui. Ci racconti com’è andata…

L’8 febbraio 2023 sono stato arrestato nel mio ufficio, presso la redazione di Le Provincial, dalla Brigade de recherche et d’intervention della Gendarmerie per indagare sulla fuga di Amira Bouraoui. Non ero coinvolto nella vicenda, non sapevo che lei stesse per lasciare il territorio nazionale in modo legale o illegale, non avevo sue notizie dal momento che non la sentivo da un mese. Le cose sono peggiorate quando la Brigade è entrata in possesso del mio telefono e ha trovato i contatti di giornalisti stranieri. A quel punto, sono stato presentato prima davanti al pubblico ministero e poi al gip. Sono stati aperti, così, due fascicoli: un fascicolo speciale per il caso Amira Bouraoui, per il quale anche se fossi stato colpevole delle accuse a mio carico, non correvo il rischio di passare del tempo in prigione; un secondo, dove mi hanno accusato di ricevere fondi dall’estero e di aver fatto trapelare documenti segreti sui social network, al fine di danneggiare degli enti pubblici. Mi hanno accusato di affiliazione a gruppi terroristici, di spionaggio per conto di potenze straniere. Tutto questo sulla base di messaggi scambiati tra me e giornalisti o leader di ong. Sebbene per la legge algerina non vi sia nulla di illegale in attività di questo tipo, secondo la loro visione tutto questo è da considerarsi “spionaggio”.

Può darci qualche dettaglio in più?

In particolare, cos’è accaduto: hanno usato la piattaforma di traduzione di Google per tradurre 54 articoli che ho scritto per Global Integrity, un’organizzazione statunitense che collabora con ricercatori e giornalisti locali per tracciare le tendenze in materia di governance e corruzione in tutto il mondo. Hanno interpretato la parola “indicatori”, in arabo “mouasher”, utilizzata come “strumenti di valutazione” di democrazia, come “informatore” – “indicateur” nel linguaggio colloquiale della polizia e dell’intelligence è usato per intendere chi fornisce informazioni ai servizi segreti – e “spia”. Di conseguenza, erano convinti che avessi 117 spie sotto la mia supervisione per danneggiare l’Algeria. Hanno messo in piedi un intero dossier sulla base di ciò. Mi sono ritrovato, così, a essere una vittima collaterale non dell’affare Amira Bouraoui, ma della traduzione di Google.

Come ha vissuto i quasi 15 mesi di reclusione?

È stato un po’ duro specialmente all’inizio, perché temevo che mi avrebbero dato un minimo di 12 o 20 anni di prigione. Dopodiché, è stato soprattutto noioso. Data la condizione dei giornalisti, sapevo benissimo che un giorno o l’altro sarei finito in prigione. L’ho evitato per diversi casi. Tuttavia, hanno trovato l’occasione per rinchiudermi, e ovviamente si è trattato di un pretesto. Penso che il mio lavoro – che, evidentemente, svolgo bene – dia fastidio.

 Mi ha detto di essere attualmente disoccupato. Perché non lavora più con Le Provincial?

Perché tecnicamente e legalmente hanno il diritto di licenziarmi dal momento che sono stato assente senza giustificazione per 15 mesi. Se fossi stato rilasciato, avrei potuto giustificare la mia assenza con il fatto di essere stato in prigione, ma agli occhi della legge ero colpevole.

Come cambierà la sua professione dopo questa esperienza?

Non so nemmeno quando potrò tornare a fare il giornalista dato che in questi mesi è stata messa tutta la stampa nazionale sotto i riflettori, è stata preclusa una certa indipendenza a quei media che rifiutavano di stare al gioco del sistema. Per tornare a fare il giornalista, dovrei trovare un altro media che voglia assumermi, e penso che sia impossibile perché nessuno vuole avere problemi con il potere algerino. Poi, c’è un’ulteriore questione: il finanziamento della stampa algerina avviene sulla base della pubblicità che è gestita dall’Agenzia nazionale dell’editoria e della pubblicità (Anep), la quale distribuisce gli introiti derivanti dalla pubblicità ai giornali cartacei e online, decidendo chi può ottenerla e chi no. Si tratta del miglior mezzo di pressione. Quando sono stato arrestato, Le Provincial è stato pesantemente sanzionato, venendo privato di pubblicità per diversi mesi. Ciò li ha spinti a “prendere un po’ le distanze” dal mio caso per salvare il giornale, anche se mi hanno dimostrato piena solidarietà.

Ha delle riflessioni da condividere?

Prima di essere imprigionato, avevo cominciato ad appassionarmi meno al mio lavoro, dal momento che riscontravo tanti problemi nell’esercizio libero della professione. Stavo evitando argomenti spinosi e “di oltrepassare i limiti”. Poi sono stato condannato. In carcere ho avuto modo di ricordare il “perché” del mio impegno nel giornalismo: non possiamo sopportare o assistere all’ingiustizia, e restare in silenzio. Ne sono uscito, quindi, più impegnato che mai e, se avrò l’opportunità, ancora più determinato. Ho conosciuto persone magnifiche, avvocati, veri difensori dei diritti umani, giornaliste e giornalisti che non hanno avuto paura di prendere una posizione. Nonostante i rischi che loro stessi correvano, hanno fatto di tutto per difendere me e gli altri detenuti d’opinione. Non potrò mai dimenticare tutto questo ed è qualcosa che mi dà speranza nell’Algeria e nel popolo algerino.

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