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Ambiente Economia Etiopia Politica e Società Unione Europea
L’Unione Europea assorbe oltre il 30% del caffè prodotto nel paese
Etiopia: la legge UE contro la deforestazione allarma i produttori di caffè
Milioni di piccoli coltivatori - denunciano i sindacati - non saranno in grado di soddisfare i criteri imposti dalla nuova normativa europea EUDR. Insieme ai produttori di cacao di Ghana e Costa d’Avorio, chiedono che la sua entrata in vigore, prevista nel 2025, sia posticipata
19 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 5 minuti

Il caffè, tra le maggiori coltivazioni dell’Etiopia, copre un terzo dei proventi delle sue esportazioni e rappresenta la principale fonte di valuta estera. L’Unione Europea, che assorbe oltre il 30% del caffè prodotto, è il mercato più grande al quale viene destinato. Nella regione del Kafa, nel sud-ovest dell’Etiopia, da dove molti affermano che il prodotto abbia preso nome, l’80% dei chicchi prodotti viene esportato in Germania.

Si contano in Etiopia oltre 5 milioni di piccoli proprietari e famiglie che possiedono al più un ettaro di piantagione, e che dipendono dalla coltivazione del caffè. Altri 10 milioni di lavoratori, poi, vengono ingaggiati per la raccolta, il lavaggio e il trasporto delle bacche.

Insieme al khat (noto anche come chat o qat), le cui foglie masticate producono uno stato di alterazione simile a quello dell’anfetamina e conducono all’assuefazione, anche il caffè è stato per decenni basilare per la crescita economica del paese.

Allarmi per il nuovo regolamento UE

Oggi, tuttavia, i produttori non nascondono la propria preoccupazione, temendo che la nuova legislazione europea relativa al Regolamento UE sui prodotti legati alla deforestazione (EUDR), che dovrebbe entrare in vigore nel 2025, rappresenterebbe un rischio fatale per le loro coltivazioni. L’EUDR, infatti, vieta la vendita di caffè, gomma, cacao e altri prodotti se le aziende non riescono a dimostrare con documentazione scritta che non provengono da terreni deforestati.

Se da un lato gli ambientalisti ritengono un risultato storico la nuova legge europea, l’industria del caffè in Etiopia sostiene che le nuove regole ignorano che quasi tutto il caffè etiopico viene coltivato da piccoli agricoltori molto poveri. Costoro possiedono piccoli appezzamenti di terreno e non hanno le competenze per raccogliere i complessi dati necessari per dimostrare la conformità delle loro piccole piantagioni rispetto alla nuova legge.

A milioni di loro, infatti, viene chiesto di fornire documenti per dimostrare che la loro terra non è stata deforestata, anche se sono del tutto ignoranti riguardo a ciò, dato che il caffè viene coltivato dalle loro famiglie da diverse generazioni.  

«La legge dell’EUDR cambierà tutto, poiché soddisfare i criteri dell’UE richiede strumenti tecnologici e manodopera che semplicemente non abbiamo», sostiene Abebe Megnetto, manager del sindacato del caffè nel Kafa, e rappresentante di 13.676 coltivatori.

Molti funzionari che lavorano nel settore del caffè, peraltro, sostengono che i chicchi del sud Etiopia sono più sostenibili di quelli di altri grandi produttori, come l’industria brasiliana, dove la maggior parte delle piantagioni di caffè sono vaste monocolture ritagliate dalla giungla, sostenute da fertilizzanti e prive di alberi. La coltivazione del caffè in Etiopia, al contrario, si basa sul mantenimento dei boschi, data l’ombra che forniscono, che serve a proteggere le piante di caffè dal caldo.

Commesse in calo

Tuttavia è già stato notato un rallentamento delle ordinazioni da parte degli acquirenti europei, che rischiano multe fino al 4% del loro fatturato se scoperti a introdurre prodotti non conformi alla legislazione dell’UE.

«Gli acquirenti esitano ad acquistare il nostro caffè perché non sono sicuri che possiamo dimostrare la conformità con il regolamento, stiamo perciò pensando di indirizzarci verso altri mercati, ma questo richiederà molto tempo», spiega Tsegaye Anebo, manager del sindacato dei coltivatori di caffè nello stato-regione del Sidama, 200 km a est di Kafa.

Altra preoccupazione consiste negli eventuali costi di adeguamento alle regole che potrebbero rendere il caffè etiopico non competitivo a causa della sua forte dipendenza dai piccoli proprietari terrieri. Le catene di approvvigionamento del paese, infatti, sono frammentate e coinvolgono diversi intermediari, e una singola spedizione di caffè verso l’Europa include chicchi di migliaia di piccoli coltivatori.

Un dirigente di una grande società commerciale che importa caffè etiopico in Europa ha spiegato: «In paesi come il Brasile è facile visitare piantagioni anche molto vaste e raccogliere i dati necessari richiesti dall’EUDR. In Etiopia invece si dovrebbero mappare uno per uno tutti i piccoli possedimenti. Un esercizio certamente molto costoso».

Va tra l’altro segnalato che anche i produttori di cacao in Ghana e in Costa d’Avorio, oltre che in Indonesia dove si produce olio di palma, hanno chiesto – così come l’Etiopia – che venga posticipata l’introduzione della nuova politica legata all’EUDR.

«Il caffè che produciamo – afferma con orgoglio Abebe del sindacato del caffè di Kafa – dà anche un contributo inestimabile per la costruzione di scuole, centri sanitari, strade e altre infrastrutture. Senza poter esportare verso il mercato europeo, perderemmo anche tutto questo».

Antica cultura

I germogli del caffè, pianta che appartiene alla famiglia delle rubiacee, fioriscono più volte prima di trasformarsi in bacche rosse e rotonde, pronte per la raccolta verso ottobre. Vengono poi lavorati per l’esportazione e spediti inizialmente ad Addis Abeba e smistati all’estero.

Il caffè nel Kafa, ma anche in tutta l’Etiopia, non rappresenta semplicemente una bevanda ma ha un grande valore simbolico, ancor più nel Kafa, ritenuto il luogo di nascita del caffè di qualità Arabica, che cresce in modo spontaneo nelle foreste pluviali temperate.

Nelle regioni in cui viene prodotto, il caffè è parte integrante dell’identità e della cultura della popolazione, al punto che non solo viene consumato in abbondanza ma costituisce un fattore basilare di aggregazione famigliare e sociale, basti pensare alle elaborate cerimonie di preparazione della bevanda.

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Gabon Politica e Società
Il rapporto generale delle consultazioni è nelle mani del generale Oligui Nguema che ha guidato il golpe dello scorso agosto
Dialogo nazionale inclusivo, uno sguardo sul Gabon post-Bongo
È stato organizzato per immaginare la fase post-transizione, esclusi quasi tutti i partiti
01 Maggio 2024
Articolo di Elio Boscaini
Tempo di lettura 5 minuti
Il presidente Oligui Nguema riceve il rapporto sul Dialogo nazionale dall'arcivescovo di Libreville, mons. Jean Patrick Iba Ba

Sette mesi dopo il colpo di stato che in Gabon ha posto fine a 55 anni di “dinastia Bongo” (Omar Bongo, presidente per 41 anni e il figlio Ali, più di 14), si è tenuto ad aprile, a partire dal 2 e fino al 28, il Dialogo nazionale inclusivo (Dni). A presiederlo è stato chiamato l’arcivescovo di Libreville e presidente della conferenza episcopale, mons. Jean Patrick Iba Ba. Quasi a riconoscere lo statuto “neutrale”, ma soprattutto il ruolo sociale importante che la Chiesa cattolica e le altre Chiese (85% dei gabonesi si dicono cristiani) svolgono nel paese (tramite le scuole, le strutture sanitarie e di carità), lontane dal far politica, ma solo preoccupate di far vivere bene insieme i gabonesi.

Il capo dello stato e leader della transizione, il generale Brice Clotaire Oligui Nguema (presidente ad interim dal 4 settembre 2023), ha ricevuto il report finale dell’iniziativa in settimana. Il presidente di transizione aveva promesso una vasta consultazione nazionale in vista delle elezioni previste ad agosto 2025. Subito però l’opposizione aveva espresso il timore che il dialogo fosse “fagocitato” dai turiferari del nuovo uomo forte del paese.

La comunità internazionale si è mostrata piuttosto accondiscendente nei confronti dei militari golpisti. Forse a ragione. Il rispetto fin qui del calendario di una transizione di due anni viene a confermare la scommessa. Senza contare poi che una grande parte dei gabonesi vede nel generale Oligui quell’ “eroe” che ha fatto non un colpo di stato ma un “colpo di liberazione”, salvando il paese da una regime “corrotto”, incapace di cogliere amarezze, delusioni, tensioni sociali, divisioni…in un paese che stava naufragando.

Meno politico ma veramente nazionale 

Ed ecco allora il dialogo nazionale come iniziativa dei militari che hanno sentito il bisogno di far sedere, intorno allo stesso tavolo, gabonesi di tutti i partiti, di ogni ordine e gruppo sociale, intellettuali e politici allo scopo di definire insieme un nuovo modello per il paese. Un dialogo non politico, come lo erano quelli precedenti, ma nazionale e inclusivo, capace cioè di far sì che tutti i gabonesi, nessuno escluso, potesse dire la sua. Le misure sarebbero state prese in maniera consensuale.

Gli obiettivi del dialogo – in primis le riforme politiche e istituzionali da apportare ‒sembrano essere stati raggiunti grazie a una strategia, un piano di lavoro e una metodologia che hanno fatto sì che l’insieme delle tematiche venissero affrontate da tre commissioni: politica, economica e sociale, e le sottocommissioni. Si è quindi parlato di: regime e istituzioni politiche, sovranità nazionale, diritti e libertà, riforma e organizzazione dello stato per una migliore democratizzazione della vita politica del paese, economia e finanze, infrastrutture e lavori pubblici, lavoro, agricoltura e ambiente.

Le raccomandazioni sono state adottate in seduta plenaria sabato 27. Non sono costringenti – il dialogo non era “sovrano” – e non sono ancora state rese pubbliche, ma dalle indiscrezioni e dichiarazioni dei partecipanti (più di 600 in rappresentanza di tutte le categorie sociali) si capisce che si è lavorato sodo, non risparmiando critiche al “sistema Bongo).

Le proposte 

La storia non si deve ripetere. Quindi non ci saranno più presidenze a vita, manipolazioni della Costituzione, pressioni sul potere legislativo o giudiziario. Il presidente verrà eletto per 7 anni, rinnovabile una sola volta. Dovrà essere gabonese di padre e madre, senza doppia nazionalità (quanti “sospetti” ai tempi del figlio di Omar, Ali). Sarà capo del governo, quindi sparisce la figura del primo ministro, ma ci sarà un vicepresidente all’americana con poteri delegati. Il presidente sarà responsabile di fronte al parlamento (viene mantenuto il principio del bicameralismo, camera e senato) cui però è sottratta la facoltà di cambiare la Costituzione. I parlamentari saranno eletti per 5 anni, rinnovabili senza limite. L’attuale presidente ad interim potrà portarsi candidato alle prossime presidenziali.
Se il presidente rimane a capo del Consiglio superiore della magistratura (Csm), il ministro della giustizia non potrà farne parte, impedendogli ogni pressione sui pubblici ministeri, cosa che aveva generato tanti malumori sotto i Bongo.

La riforma della Corte costituzionale (dalla sua creazione è stata presieduta dalla signora Marie-Madeleine Mborantsuo, che ha permesso di validare i brogli elettorali che hanno permesso ai Bongo di mantenersi al potere) sarà operata dalla futura assemblea costituente che sarà eletta per redigere la nuova Costituzione.

I partiti alla porta 

La polemica è subito scoppiata intorno alla misura radicale di sospendere i partiti politici (più di un centinaio) fino a quando non saranno scritte nuove regole per la loro formazione. Questi erano già furiosi per non aver avuto ciascuno che un solo rappresentante al dialogo invece dei quattro proposti. La raccomandazione viene vista come un’ulteriore sanzione. Da notare però che alcuni di questi altro non erano che una creazione del regime per indebolire l’opposizione. Per un paese di 2milioni di abitanti (stime 2020 della Banca mondiale), cento partiti sembrano veramente troppi… Trattamento speciale è riservato al Partito democratico gabonese (Pdg, che qualcuno voleva sopprimere): i leader dell’ex formazione al potere, saranno ineleggibili per i prossimi tre anni.

Saranno infine rivisti tutti gli accordi di cooperazione al fine di fare chiarezza. Nel paese è reale il sentimento che dopo 60 anni questi accordi abbiano finito per instaurare un regime di privilegi. C’è addirittura chi ritiene che il paese non si sviluppi secondo le sue potenzialità perché frenato da questi partenariati. Tutti pensano in primis al camp de Gaulle, la base militare che accoglie centinaia di soldati francesi dai giorni dell’indipendenza. Un certo sentire antifrancese serpeggia anche in Gabon…Ma non verrà chiusa, bensì si procederà a una revisione degli accordi di difesa con la Francia, anche perché i soldati francesi forniscono la formazione degli eserciti dei paesi della Ceeac, la Comunità economica degli stati dell’Africa centrale.

Ora tocca all’esecutivo passare gli atti. Una bella sfida per i militari. Cui diamo il tempo di leggersi le raccomandazioni e tenerne conto. Governo e ministero della riforma delle istituzioni saranno in prima linea per farle applicare.

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Armi, Conflitti e Terrorismo Politica e Società Sudan
Sono necessari per sostenere gli abitanti del paese prostrato da oltre un anno di conflitto
Conflitto in Sudan: appello umanitario delle agenzie cattoliche, servono 2,7 miliardi
Caritas Internationalis e Catholic Agency for Overseas Development (Cafod) in prima linea nella consegna di cibo
30 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 3 minuti
Un campo profughi in Nord Darfur. Foto da United Nations Photo

Le agenzie cattoliche, insieme ad altri enti di beneficenza cristiani in Sudan, hanno intensificato la loro campagna di distribuzione di cibo in tutto il paese per salvare centinaia di migliaia di sudanesi sofferenti dalla fame estrema mentre la guerra civile entra nel suo secondo anno. Secondo i dati delle Nazioni Unite, il conflitto, scoppiato nell’aprile 2023, ha costretto in un anno oltre 8,6 milioni di persone ad abbandonare le proprie case, tra cui 1,8 milioni di rifugiati.

L’organizzazione riferisce inoltre che oltre 14.000 persone sono state uccise nelle ostilità e che metà della popolazione del Sudan ha bisogno di assistenza salvavita. La Caritas Internationalis, una famiglia di 162 agenzie nazionali cattoliche di soccorso e sviluppo che lavorano in tutto il mondo, e diverse altre organizzazioni umanitarie cattoliche tra cui la Catholic Agency for Overseas Development (Cafod) britannica, hanno denunciato la gravità estrema della situazione del paese, dove donne e bambini stanno letteralmente morendo di fame.

L’appello 

Nel loro appello le organizzazioni hanno chiesto un sostegno da 2,7 miliardi di dollari. La situazione in Sudan, secondo le agenzie di aiuto umanitario, è in costante peggioramento anche perché la maggior parte delle famiglie – sia quelle che ancora vivono nelle loro case sia di quelle presenti nei campi per sfollati interni -, temono di avventurarsi fuori per procurarsi il cibo a causa dell’assoluta assenza di sicurezza. «Chiediamo urgentemente un maggiore sostegno umanitario internazionale per mitigare l’enormità della sofferenza della popolazione», hanno dichiarato i funzionari della Caritas nella nel primo anniversario della guerra sudanese.

La mancanza di sufficienti finanziamenti da parte della comunità internazionale, secondo la Caritas, ha impedito alle organizzazioni laiche e religiose che lavorano nel paese di raggiungere gran parte delle persone che soffrono la fame ma anche il diffondersi di epidemie, come quella di colera che si registra nel paese. «Chiediamo pertanto un impegno internazionale molto più assertivo e coordinato nella ricerca di un maggiore accesso umanitario – ha concluso la Caritas -, compresa la facilitazione delle operazioni transfrontaliere dal Ciad e dal Sud Sudan, e ricerca seria di soluzioni diplomatiche per raggiungere un cessate il fuoco urgente e la fine di un conflitto che ha ora creato la più grande crisi alimentare del mondo nel 2024».

Papa Francesco, peraltro, ha auspicato in varie occasioni la fine immediata della violenza in Sudan, affermando che i combattimenti in corso stanno peggiorando la situazione umanitaria nel Paese. «Purtroppo la situazione in Sudan resta grave e quindi rinnovo il mio appello affinché si ponga fine quanto prima alle violenze e si ritorni sulla via del dialogo», ha affermato il pontefice lo scorso 23 aprile, dopo la preghiera domenicale del “Regina Coeli”.

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Costa d'Avorio Economia Politica e Società
Solibra, la più bevuta dagli ivoriani, non ha reso pubblici nei tempi previsti gli ultimi risultati economico-finanziari
Costa d’Avorio: sospeso il titolo in borsa del birrificio leader del paese
30 Aprile 2024
Articolo di Rocco Bellantone
Tempo di lettura 2 minuti
La sede di Solibra ad Abidjan, foto di Cyprien Hauser

Brwm, la Borsa regionale dei valori mobiliari di Abidjan, in Costa d’Avorio, ha sospeso questo mese il titolo di Solibra, azienda produttrice di birra e altre bevande gassate. Solibra, controllata da Bgi (Brasseries et Glacières Internationales, filiale del gruppo francese Castel), è accusata di non aver reso pubblici i propri risultati economico-finanziari periodici e annuali entro i tempi previsti, vale a dire non oltre 30 giorni dalla fine del trimestre o del semestre di esercizio e non oltre il 30 aprile dell’anno successivo rispetto all’anno di riferimento.

Non è l’unica irregolarità contestata all’azienda. Solibra non si è infatti attenuta ai vincoli fissati per la distribuzione del suo capitale flottante, ossia la quota di capitale sociale che non è di proprietà dei soci e che dunque può essere liberamente comprato e venduto sul mercato secondario dagli investitori. A Solibra è richiesto il possesso di almeno due milioni di azioni in circolazione. Dai controlli effettuati dalla Borsa regionale di Abidjan è però emerso che il suo capitale flottante del ammonta a circa 306.224 azioni.

Strapotere sul mercato 

Solibra è leader della produzione di birra in Costa d’Avorio, paese in cui detiene una quota del 75% del mercato interno contro il 13% del colosso olandese Heineken. Da qualche anno i suoi volumi di produzione sono però in picchiata. Nel 2022 l’azienda ha prodotto circa 1,6 milioni di ettolitri di Bock, qualità di birra che vende per la maggiore in Costa d’Avorio, rispetto ai 2,1 milioni del 2021. Dopo aver registrato un tonfo dell’utile netto nel 2022 del 95% (piombato a 1,22 miliardi di franchi CFA, circa 1,9 milioni di euro) il birrificio ha dichiarato di essere tornato in salute nel 2023 con un utile netto di oltre 11 miliardi.

Il management dell’azienda, guidato dal direttore generale Cyril Segonds, ha spiegato in una nota ripresa da Jeune Afrique che il profitto generato nella prima metà del 2023 è stato molto più alto di quello del 2022 nonostante un calo del 5% dei volumi di prodotto distribuiti. La società sta adesso predisponendo un piano per la riammissione del proprio titolo nella borsa regionale. Alcuni mesi prima di Solibra, lo stesso trattamento era stato riservato da Brwm a Eviosys Packaging Siem, società specializzata nella produzione di imballaggi metallici. La sospensione del suo titolo quotato in borsa durerà fino al prossimo giugno.

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Guinea-Bissau Politica e Società
Partono da Freedom Flotilla, le autorità del paese africano ne hanno bloccato un'imbarcazione carica di aiuti e diretta verso Gaza
Accuse contro la Guinea-Bissau: «Complice del genocidio di Israele»
Rimosse le bandiere di registrazioni a due navi
29 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 4 minuti
Il presidente guineano Embalò in Benin. Foto dal profilo Flickr della presidenza del Benin.

La Guinea-Bissau ha deciso di «rendersi complice dello sterminio per fame, l’assedio illegale e il genocidio che Israele sta commettendo contro i palestinesi a Gaza». L’accusa è partita dalla coalizione di ong a sostengo del popolo palestinese Freedom Flotilla a seguito della decisione della autorità guineane di bloccare una delle navi degli attivisti carica di migliaia di tonnellate di aiuti diretti verso la striscia, teatro da mesi di una violenta offensiva dell’esercito israeliano che ha causato la morte di oltre 42mila persone e praticamente sfollato la totalità della popolazione.

L’ente per la registrazione internazionale delle navi di Bissau, una compagnia privata che agisce su delega dello stato guineano, ha infatti rimosso la sua bandiera di registrazione da due navi della ong, fra le quali la più grande, la Akdenez, dopo un’ispezione, impedendole così di poter prendere il mare. L’intervento delle autorità guineane è avvenuto nel porto della Turchia dove erano ormeggiate le imbarcazioni nell’attesa di salpare verso la Palestina. La Akdenez era già stata caricata con circa 5mila tonnellate di beni salvavita e di prima necessità, sostiene sempre Freedom Flotilla. 

Gli attivisti, in una conferenza stampa a Istanbul, hanno inoltre lamentato una serie di stranezze e di irregolarità nei controlli effettuati dall’ente guineano. Innanzitutto è necessaria una premessa: Freedom Flotilla è costituita da un insieme di diverse organizzazioni – di cui la principale è la turca Turkish Humanitarian Relief Foundation (Ihh) – e nessuna di questa è di base in Guinea-Bissau. Issare una bandiera diversa da quella dell’effettivo paese di provenienza è pratica comune nella navigazione anche se molto malvista, visto che spesso gli armatori scelgono uno Stato diverso nel tentativo di godere di legislazioni più lasche e di controlli meno rigidi. La Guinea-Bissau comunque, non è inserita nella lista deli paesi fornitori di queste “bandiere di comodo” stilata dall’ International Transport Workers’ Federation (Itf), sindacato globale dei lavoratori del settore.

Tornando alla denuncia del gruppo di ong, la coalizione afferma che i controlli effettuati dagli ufficiali guineani sono «molto insoliti», visto che le imbarcazioni oggetto dei provvedimenti erano già state sottoposte «a tutte le ispezioni previste». Secondo quanto riportato dagli attivisti, Bissau avrebbe fatto esplicito riferimento alle attività di sostengo a Gaza dell’organizzazione nel momento di notificargli la decisione del blocco. In aggiunta, l’ente del paese africano «h inoltre presentato numerose richieste non comuni di informazioni, tra cui la conferma della destinazione delle navi, eventuali ulteriori scali portuali, il porto di scarico degli aiuti umanitari e le date e gli orari di arrivo stimati. Richiedeva inoltre una lettera formale che approvasse esplicitamente il trasporto degli aiuti umanitari e un inventario completo del carico».

Quali rapporti fra Bissau e Tel Aviv?

Da qui, l’accusa politica al governo del presidente Umaro Sissoco Embaló, che secondo gli attivisti si sarebbe reso complice dei crimini commessi da Tel Aviv e del suo reiterato impegno a non lasciare che gli aiuti umanitari vengano consegnati alla popolazione civile nonostante quanto ordinato da risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e da due ordini della Corte di giustizia dell’Onu di base a l’Aia. I giornali israeliani, dal canto loro, sostengono che l’invio di aiuti da parte di Freedom Flotilla non sia approvato da Tel Aviv.

Per adesso, la Guinea-Bissau non ha risposto alle accuse che le sono state rivolte dalla ong. Embaló si è recato in Israele lo scorso marzo. Nell’accoglierlo, l’omologo di Tel Aviv Isaac Herzog lo ha definito «un vero amico di Israele», ricordando inoltre gli studi del presidente nel paese mediorientale. Herzog ha anche sottolineato il sostegno guineano nel contesto dell’Unione Africana, dove da due anni prosegue un acceso dibattito sul ruolo come osservatore di Tel Aviv, concesso nuovamente nel 2021 dopo anni di sospensione ma oggetto di forte contrasto da alcuni stati membri.
In quell’occasione Embalo, che è alle prese anche con una crisi istituzionale interna al paese, si era definito un «messaggero di pace». La Guinea-Bissau ha votato a favore di un cessate il fuoco immediato a Gaza in Assemblea generale all’Onu.

 

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