Nigrizia

Lo ha spiccato la Corte penale speciale di base a Bangui che indaga sui crimini commessi nel paese dal 2003
Repubblica Centrafricana: mandato di arresto internazionale per Bozizè
Ma la Guinea-Bissau, che ospita l'ex presidente come rifugiato, dice no
02 Maggio 2024
Articolo di Redazione
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L'allora presidente Bozizè a Bruxelles. Foto dal profilo Flickr del CAR Development Partner Round Table 01

La Corte penale speciale (Cps), sostenuta dalle Nazioni Unite e di base a Bangui, ha emesso un mandato di arresto internazionale nei confronti dell’ex presidente della Repubblica Centrafricana François Bozizé per crimini contro l’umanità commessi dalle forze armate nazionali tra il 2009 e il 2013. I presunti crimini includono omicidio, sparizione forzata di persone, tortura, stupro e altri atti disumani.

Bozizé, 77 anni, aveva preso il potere in Africa centrale nel 2003 con un colpo di stato ed era stato rovesciato 10 anni dopo. Ora è alla testa dell’opposizione e vive in esilio in Guinea-Bissau dal marzo 2023. Il mandato internazionale è stato emesso il 27 febbraio ma annunciato solo due giorni or sono, secondo la dichiarazione del Cps, istituito nel 2015 con il patrocinio dell’Onu.

Questo tribunale chiede la collaborazione della Guinea-Bissau per “l’arresto” e “la consegna del sospettato”. La corte è incaricata di indagare sui crimini di guerra commessi dal 2003 nel paese, che ha sopportato guerre civili e regimi autoritari dall’indipendenza dalla Francia nel 1960. I magistrati della corte stanno indagando su possibili “crimini contro l’umanità” commessi dalla guardia presidenziale di Bozizé tra febbraio 2009 e marzo 2013 in una prigione civile e in una struttura di addestramento militare nella città centrale di Bossembélé. I giudici hanno concluso che esistevano «prove serie e coerenti contro Bozizé, tali da confermare la sua responsabilità penale, in quanto responsabile politico e capo militare».

Un no secco da Bissau 

Amnesty International, per bocca di Samira Daoud, direttrice regionale per l’Africa centrale e occidentale, ha comunicato che il mandato «costituisce un passo incoraggiante nella ricerca di giustizia per le vittime di numerosi crimini commessi nella Repubblica Centrafricana». E ha sollecitato la Guinea-Bissau a consegnare Bozizé «senza indugio» alle autorità centrafricane. Per adesso però, le notizie che giungono da Bissau vanno in tutt’altra direzione. Il presidente guineano Umaro Sissoco Embaló ha affermato che l’ordinamento del suo paese «non prevede l’estradizione». Il capo dello stato ha aggiunto, sempre in riferimento a Bozizè: «Quello che sappiamo è che da quando è arrivato in Guinea-Bissau non ha creato alcun problema. È qui in esilio, come anche noi, durante la nostra lotta per l’indipendenza, abbiamo avuto esuli in altri paesi». L’ex presidente centrafricano è stato accolto dal paese guidato da Embalò come rifugiato nel marzo 2023 e nell’ambito di un accordo che ha visto il coinvolgimento anche del Ciad – precedente paese di residenza di Bozizè  – e dell’Angola, oltre che la mediazione di organismi regionali. Embalò ha reso nota l’intenzione di chiarire la faccenda con l’omologo centrafricano Faustin-Archange Touadéra. 

La guerra civile 

La cosiddetta seconda guerra civile centrafricana scoppiò fra la fine del 2012 e i primi mesi del 2013,  quando una coalizione armata a maggioranza musulmana, Seleka, ha spodestato Bozizé. L’ex presidente era stato accusato di non riuscire a far rispettare quanto stabilito negli accordi di pace che si erano resi necessari dopo un’altra fase di conflitto civile scoppiata nel 2004.  Bozizé rispose agli insorti formando una milizia composta per lo più da persone cristiane e animiste, nota come anti-Balaka, per riconquistare il potere. Migliaia di civili sono stati uccisi nei combattimenti, ed entrambe le parti sono state accusate di crimini di guerra e crimini contro l’umanità dalle Nazioni Unite.

Il conflitto  ha perso di intensità dopo il 2018. Nel dicembre 2020 però, Bozizè ha formato una nuova alleanza di gruppi ribelli chiamata Coalizione dei Patrioti per il Cambiamento (CPC),  costituita nel tentativo di rovesciare il suo successore, Faustin-Archange Touadéra. Come noto, Touadéra ha chiamato in soccorso mercenari di Wagner e altri agenti russi per combattere i ribelli. Bozizé era già stato condannato in contumacia lo scorso settembre ai lavori forzati a vita per cospirazione, ribellione e omicidio.

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Algeria Pace e Diritti Politica e Società
Nigrizia ha intervistato il cronista Mustapha Bendjama, liberato dopo 15 mesi di carcere
Algeria: «Stampa attaccata e in carcere, ma da chi resiste tanta speranza»
Il giornalista era stato arrestato con varie accuse. Fra queste, «ricezione di finanziamenti esteri»
02 Maggio 2024
Articolo di Nadia Addezio
Tempo di lettura 5 minuti
Una foto di Mustapha Bendjama pubblicata dall'emittente algerina Radio M

Il 18 aprile, il giornalista algerino Mustapha Bendjama ha lasciato il carcere di Boussouf, nella città di Costantina, dopo aver trascorso in detenzione 15 mesi. Nigrizia ha seguito fin dal principio il caso del già caporedattore del quotidiano Le Provincial, analogo a quello di giornalisti, attiviste e attivisti, accusati di minacciare la sicurezza dello Stato per aver svolto il loro lavoro e/o espresso il loro dissenso. A tal proposito, durante il mese di Ramadan – conclusosi il 9 aprile – è stata lanciata una campagna di informazione per rendere manifesta a livello nazionale e internazionale la loro detenzione arbitraria. In occasione del ritorno alla libertà, abbiamo intervistato Bendjama per conoscere la sua versione dei fatti.

A febbraio 2023, lei è stato incarcerato con le accuse di ricezione di finanziamenti esteri, diffusione di informazioni segrete e d’essere implicato nell’affaire Amira Bouraoui. Ci racconti com’è andata…

L’8 febbraio 2023 sono stato arrestato nel mio ufficio, presso la redazione di Le Provincial, dalla Brigade de recherche et d’intervention della Gendarmerie per indagare sulla fuga di Amira Bouraoui. Non ero coinvolto nella vicenda, non sapevo che lei stesse per lasciare il territorio nazionale in modo legale o illegale, non avevo sue notizie dal momento che non la sentivo da un mese. Le cose sono peggiorate quando la Brigade è entrata in possesso del mio telefono e ha trovato i contatti di giornalisti stranieri. A quel punto, sono stato presentato prima davanti al pubblico ministero e poi al gip. Sono stati aperti, così, due fascicoli: un fascicolo speciale per il caso Amira Bouraoui, per il quale anche se fossi stato colpevole delle accuse a mio carico, non correvo il rischio di passare del tempo in prigione; un secondo, dove mi hanno accusato di ricevere fondi dall’estero e di aver fatto trapelare documenti segreti sui social network, al fine di danneggiare degli enti pubblici. Mi hanno accusato di affiliazione a gruppi terroristici, di spionaggio per conto di potenze straniere. Tutto questo sulla base di messaggi scambiati tra me e giornalisti o leader di ong. Sebbene per la legge algerina non vi sia nulla di illegale in attività di questo tipo, secondo la loro visione tutto questo è da considerarsi “spionaggio”.

Può darci qualche dettaglio in più?

In particolare, cos’è accaduto: hanno usato la piattaforma di traduzione di Google per tradurre 54 articoli che ho scritto per Global Integrity, un’organizzazione statunitense che collabora con ricercatori e giornalisti locali per tracciare le tendenze in materia di governance e corruzione in tutto il mondo. Hanno interpretato la parola “indicatori”, in arabo “mouasher”, utilizzata come “strumenti di valutazione” di democrazia, come “informatore” – “indicateur” nel linguaggio colloquiale della polizia e dell’intelligence è usato per intendere chi fornisce informazioni ai servizi segreti – e “spia”. Di conseguenza, erano convinti che avessi 117 spie sotto la mia supervisione per danneggiare l’Algeria. Hanno messo in piedi un intero dossier sulla base di ciò. Mi sono ritrovato, così, a essere una vittima collaterale non dell’affare Amira Bouraoui, ma della traduzione di Google.

Come ha vissuto i quasi 15 mesi di reclusione?

È stato un po’ duro specialmente all’inizio, perché temevo che mi avrebbero dato un minimo di 12 o 20 anni di prigione. Dopodiché, è stato soprattutto noioso. Data la condizione dei giornalisti, sapevo benissimo che un giorno o l’altro sarei finito in prigione. L’ho evitato per diversi casi. Tuttavia, hanno trovato l’occasione per rinchiudermi, e ovviamente si è trattato di un pretesto. Penso che il mio lavoro – che, evidentemente, svolgo bene – dia fastidio.

 Mi ha detto di essere attualmente disoccupato. Perché non lavora più con Le Provincial?

Perché tecnicamente e legalmente hanno il diritto di licenziarmi dal momento che sono stato assente senza giustificazione per 15 mesi. Se fossi stato rilasciato, avrei potuto giustificare la mia assenza con il fatto di essere stato in prigione, ma agli occhi della legge ero colpevole.

Come cambierà la sua professione dopo questa esperienza?

Non so nemmeno quando potrò tornare a fare il giornalista dato che in questi mesi è stata messa tutta la stampa nazionale sotto i riflettori, è stata preclusa una certa indipendenza a quei media che rifiutavano di stare al gioco del sistema. Per tornare a fare il giornalista, dovrei trovare un altro media che voglia assumermi, e penso che sia impossibile perché nessuno vuole avere problemi con il potere algerino. Poi, c’è un’ulteriore questione: il finanziamento della stampa algerina avviene sulla base della pubblicità che è gestita dall’Agenzia nazionale dell’editoria e della pubblicità (Anep), la quale distribuisce gli introiti derivanti dalla pubblicità ai giornali cartacei e online, decidendo chi può ottenerla e chi no. Si tratta del miglior mezzo di pressione. Quando sono stato arrestato, Le Provincial è stato pesantemente sanzionato, venendo privato di pubblicità per diversi mesi. Ciò li ha spinti a “prendere un po’ le distanze” dal mio caso per salvare il giornale, anche se mi hanno dimostrato piena solidarietà.

Ha delle riflessioni da condividere?

Prima di essere imprigionato, avevo cominciato ad appassionarmi meno al mio lavoro, dal momento che riscontravo tanti problemi nell’esercizio libero della professione. Stavo evitando argomenti spinosi e “di oltrepassare i limiti”. Poi sono stato condannato. In carcere ho avuto modo di ricordare il “perché” del mio impegno nel giornalismo: non possiamo sopportare o assistere all’ingiustizia, e restare in silenzio. Ne sono uscito, quindi, più impegnato che mai e, se avrò l’opportunità, ancora più determinato. Ho conosciuto persone magnifiche, avvocati, veri difensori dei diritti umani, giornaliste e giornalisti che non hanno avuto paura di prendere una posizione. Nonostante i rischi che loro stessi correvano, hanno fatto di tutto per difendere me e gli altri detenuti d’opinione. Non potrò mai dimenticare tutto questo ed è qualcosa che mi dà speranza nell’Algeria e nel popolo algerino.

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Migrazioni Pace e Diritti Politica e Società Rwanda
La polizia britannica rastrella i migranti dalle case. L’Irlanda bussa a Sunak per restituire chi attraversa i confini
Regno Unito: prima deportazione in Rwanda
02 Maggio 2024
Articolo di Redazione
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Il segretario agli interni britannico James Cleverley in visita in Rwanda. Foto dal profilo Flickr del governo del Regno Unito.

Sui giornali inglesi la notizia è certa: c’è stata la prima deportazione di una persona migrante verso il Rwanda. Il primo ministro britannico Rishi Sunak lo aveva dato per certo e prossimo e così è stato: un uomo, cui è stata respinta lo scorso anno la richiesta di asilo, ha accettato di esser trasferito nel paese africano e, per questo, ha ricevuto in cambio un pagamento fino a 3mila sterline.

L’eminenza di voli più consistenti nelle prossime settimane è suggerita dalle immagini pubblicate dal ministero degli interni. In un video si vedono forze di polizia che prelevano dalle loro abitazioni persone migranti ammanettate, destinate alla deportazione. Una decisione votata lo scorso 22 aprile, che ha lo scopo di dissuadere l’attraversamento della Manica dalla Francia verso la Gran Bretagna.

Costi fuori scala 

Un’accelerazione tanto attesa da Sunak, che si era dovuto fermare per una sentenza della Corte suprema britannica e che è ancora sotto attacco sia da parte delle associazioni umanitarie, che sottolineano come il Rwanda non sia paese sicuro, sia da chi ha bocciato il patto, considerato troppo oneroso economicamente: ammonterebbe a 1,8 milioni di sterline il costo della deportazione per migrante, per un totale di 500milioni.

Intanto, visto il via libera votato dalle due camere del parlamento inglese, il governo di Dublino si porta avanti con la decisione di rimpatriare verso il Regno unito le persone che attraversano il confine tra Irlanda del nord e Repubblica d’Irlanda. Un piano in tal senso dovrebbe diventare legge entro fine maggio. Ma anche qua c’è stata, a marzo, una presa di posizione dell’Alta corte irlandese che ha definito il Regno Unito paese non sicuro, proprio in conseguenza del fatto che il Rwanda, destinazione della deportazione delle persone richiedenti, non lo è.

Di fatto il governo irlandese lamenta la presenza di oltre 1.400 migranti irregolari senza alloggio, in gran parte accampati lungo Mount Street, nel centro di Dublino, dove si trova l’ufficio che esamina le richieste di protezione internazionale.

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Chiesa e Missione Politica e Società Sudafrica
Padre Paul Tatu aveva forse assistito a un femminicidio. Ne ha dato notizia padre Gianni Piccolboni
Sudafrica: ucciso a Pretoria un giornalista e missionario stimmatino
Nel paese si registra una media di 85 omicidi al giorno
02 Maggio 2024
Articolo di Redazione
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Immagine dal profilo Facebook della Southern African Catholic Bishops' Conference

Padre Paul Tatu, missionario stimmatino e giornalista, è stato assassinato a Pretoria, capitale amministrativa del Sudafrica. A comunicare la triste notizia è stato Padre Gianni Piccolboni, 76 anni, missionario veronese dell’Istituto delle Sacre Stimmate che ha vissuto in Sudafrica per oltre 30 anni, dove è stato tra l’altro responsabile dei missionari.  

«Siamo stati informati ma non sappiamo ancora bene la dinamica dei fatti» ha chiarito padre Piccolboni. «Sembra tuttavia che padre Paul fosse stato testimone dell’uccisione di una donna». Il religoso, 45 anni, era originario del Lesotho, era laureato in giornalismo e aveva svolto un periodo di servizio presso l’ufficio comunicazioni della Conferenza dei Vescovi cattolici dell’Africa meridionale (Sacbc).

Quest’ultimo ente ha espresso il proprio cordoglio per la scomparsa di padre Paul. In una comunicazione, firmata dal Vescovo Sithembele Sipuka, presidente della Conferenza episcopale, si ricorda che il religioso stimmatino ucciso aveva lavorato con dedizione per diversi anni come responsabile dei media e delle comunicazioni della Sacbc. I vescovi cattolici della regione hanno inoltre sottolineano che l’assassinio di padre Tatu «non è un incidente isolato, ma piuttosto un esempio angosciante del deterioramento della sicurezza e della moralità in Sudafrica».

Il problema sicurezza 

A oggi il paese presenta il terzo peggior dato al mondo per quanto riguarda il tasso di omicidi ogni 100mila abitanti: ben 42, solo Isole Vergini e Giamaica fanno peggio secondo quanto registrato dalla Banca Mondiale. Stando a dati comunicati di recente dal ministro della polizia Bheki Cele, solo nel quarto trimestre del 2023 si sono verificati oltre 7.000 omicidi, per una media di circa 85 al giorno.

Il tema della sicurezza è fra i più discussi in vista delle elezioni generali che si disputeranno il 29 maggio. Secondo diversi sondaggi concordanti,  l’Africa National Congress (Anc) che governa il  paese dal 1994 rischia per la prima volta dal ritorno alla democrazia di scendere sotto il 50% dei consensi a delle consultazioni nazionali, forse anche in modo rovinoso. 

La presenza dei missionari stimmatini in Sud Africa risale al Novembre 1960, quando arrivarono i primi missionari: padre Lino Inama, padre Dario Weger, padre Primo Carnovali e fratel Giuseppe Modena. Ora la Provincia ha comunità in varie nazioni dell’Africa australe: Sud Africa, Lesotho, Botswana, Malawi e Tanzania.

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Ambiente Economia Pace e Diritti Politica e Società Tanzania
Violati i diritti alla terra dei nativi, vince la campagna di attivisti locali e Oakland Institute
Tanzania. La Banca Mondiale sospende i finanziamenti a un progetto di sviluppo turistico
Si tratta di Regrow, iniziativa per cui l'istituto aveva già messo a disposizione 150 milioni di dollari
01 Maggio 2024
Articolo di Bruna Sironi
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I rangers del parco di Tanapa, Immagine dell'Oakland Institute

La Banca Mondiale ha sospeso i finanziamenti al governo della Tanzania per la realizzazione del progetto Regrow (Resilient Natural Resource Management for Tourism and Growth – Gestione delle risorse naturali resiliente per la crescita e il turismo).

L’informazione è stata diffusa nei giorni scorsi dall’Oakland Institute, centro di ricerca americano specializzato, tra l’altro, in advocacy per i diritti alla terra dei popoli nativi. L’organizzazione ha condotto una lunga campagna internazionale contro la realizzazione del progetto a fianco e per conto delle comunità che ne avevano avuto un impatto negativo.

Il progetto Regrow, per cui la Banca Mondiale ha approvato un finanziamento di 150 milioni di dollari – un centinaio già stanziati – prevede un intervento per il miglior utilizzo, la miglior gestione e il raddoppio dell’area del parco Ruaha (Ruaha National Park), conosciuto con l’acronimo di Runapa, nella zona centrale del paese. Obiettivo: aumentare i flussi turistici nell’area. Ma, come in diverse altre situazioni, a fare le spese delle decisioni governative, e dei finanziamenti internazionali, sono state le comunità rurali e native stanziate sul territorio che dovrebbe essere incluso nei confini del Runapa.

I diritti violati 

L’Oakland Institute ha documentato violazioni del diritto alla terra – con la revoca dei titoli di proprietà precedentemente concessi dalle autorità governative competenti – e gravissimi abusi contro la popolazione da parte del corpo dei ranger del parco, dipendenti dalla Tanzania National Park Authority, conosciuti con l’acronimo di Tanapa.

Solo il 18 aprile, dopo più di un anno dall’inizio della campagna condotta dall’Oakland Institute, la Banca Mondiale ha deciso di sospendere i finanziamenti al progetto Regrow e di inviare nel paese una delegazione di alto livello per valutazioni riguardanti in particolare le minacce di sfratto a circa 21mila persone stanziate sul territorio che dovrebbe essere incluso nel Runapa. Il provvedimento sarebbe in contrasto con le stesse regole che l’istituzione finanziaria mondiale si è data per concedere il proprio supporto.

«La decisione della Banca Mondiale, a lungo dovuta, di sospendere questo progetto pericoloso é un passo cruciale verso assunzione di responsabilità e giustizia. Manda un forte messaggio al governo tanzaniano: ci sono conseguenze per il suo rampante trend di abusi nel paese per sostenere il turismo. I giorni dell’impunità stanno finalmente per finire», ha dichiarato Anuradha Mittal, direttrice esecutiva dell’Istituto, nel suo incontro con la stampa.

La questione risarcimenti 

Rimane ancora aperto il problema dei risarcimenti: «… la banca deve concentrarsi su come rimediare ai danni causati alla popolazione che ha perso i suoi cari per la violenza dei ranger o ha avuto la propria vita devastata dalle restrizioni alle proprie attività economiche. Si impongono con urgenza risarcimenti adeguati per tutte le vittime del progetto», ha concluso Mittal.

La campagna di informazione ed advocacy è stata sostenuta da numerosi e autorevoli mass media, quali il The Guardian e lAssociated press, e, in Italia, da Nigrizia. In febbraio l’Istituto e l’organizzazione Rainforest Rescue hanno anche presentato al presidente della Banca Mondiale, Ajay Banga, una petizione firmata da 80.000 persone.

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