Pagina 2 – Nigrizia

Armi, Conflitti e Terrorismo Sudan
Il leader del RAC è la prima figura di alto livello della tribù mahamid-rizeigat a entrare in guerra contro le RSF
Sudan: Musa Hilal si schiera con l’esercito in Nord Darfur
23 Aprile 2024
Articolo di Redazione
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Musa Hilal (Screenshot)

È un annuncio che potrebbe comportare una svolta significativa nella guerra in corso da oltre un anno in Sudan, quello fatto ieri da Musa Hilal, importante leader tribale nel Nord Darfur, che ha dichiarato il suo sostegno alle forze armate (SAF) contro le Forze di supporto rapido (RSF), impegnate nella conquista dell’intera regione occidentale.

Hilal è capo del Consiglio del risveglio rivoluzionario (Revolutionary Awakening Council – RAC) e leader del ramo mahamid della tribù rizeigat, alla quale appartiene anche la famiglia del comandante delle RSF, Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti, così come molti altri vertici del gruppo paramilitare e delle milizie regionali sue alleate.

La rivalità e la lotta tra Hilal ed Hemeti per la supremazia tribale in Nord Darfur risale ai primi anni del 2010.

Assoldato dall’allora dittatore islamista Omar El-Bashir, Hilal guidò, a partire dal 2003, le famigerate milizie janjaweed che misero a ferro e fuoco la regione del Darfur, colpendo in particolare la popolazione non araba. I massacri fecero circa 300mila morti.

Come ricompensa, nel 2008, El-Bashir nominò Hilal suo consigliere personale e nel 2010 gli assegnò addirittura un seggio in parlamento. Ma l’idillio tra i due si interruppe quando Hilal, frustrato per la mancanza di attenzione da parte del governo verso lo sviluppo del Darfur, lasciò Khartoum per tornare nella sua regione natale.

Bashir assoldò allora Hemeti, un commerciante di cammelli ed ex combattente dei janjaweed, al quale assegnò la guida di una nuova milizia, le RSF, appunto. Uno dei primi compiti di Hemeti fu arrestare Hilal per essersi rifiutato di disarmare le sue forze.

Hilal fu incarcerato nel novembre 2017 e accusato davanti a un tribunale militare di indebolimento della Costituzione, incitamento alla guerra contro lo stato e provocazione di conflitti tribali. Fu liberato nel marzo 2021, due anni dopo il rovesciamento del regime di El-Bashir.  

Dallo scoppio della guerra, nell’aprile 2023, Musa Hilal non ha smesso di accusare le RSF e le milizie libiche e ciadiane affiliate di diffuse violazioni dei diritti umani contro i civili in Darfur – le stesse atrocità perpetrate, peraltro, vent’anni fa dai suoi uomini -, ma fino ad ora si era astenuto dal prendere parte ai combattimenti.  

Hilal diventa la prima figura di alto livello della tribù mahamid-rizeigat a sostenere l’esercito. «Siamo dalla parte delle forze armate», ha dichiarato parlando alla folla a Um Sunt, nel Nord Darfur. «La difesa della nostra patria richiede tutta la forza. Molte tribù del Darfur mi hanno esortato a dare priorità alla stabilità dello stato e alla pace».

Il Consiglio del risveglio rivoluzionario si unisce così ad altri due importanti gruppi armati darfuriani che lo scorso novembre hanno annunciato il loro schieramento con le SAF: il Movimento di liberazione del Sudan (SLM-MM) guidato da Minni Minawi e il Movimento per la giustizia e l’uguaglianza (JEM) di Gibril Ibrahim.

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AFRICA Economia Mali Politica e Società
A Bamako black out continui a causa dei debiti del fornitore pubblico Édm
Elettricità, bolletta alle stelle in Mali
Situazione molto diversa in paesi come Etiopia, Marocco e Costa d’Avorio, che invece esportano
03 Maggio 2024
Articolo di Rocco Bellantone
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Un'immagine di Bamako. Foto dal profilo Flickr di Mark Fischer

Da diversi mesi a Bamako, la capitale del Mali, i black out sono all’ordine del giorno. Le continue interruzioni della corrente elettrica sono dovute alla situazione disastrata in cui versano le casse del fornitore pubblico Énergie du Mali (Edm), sommerso da un debito di 600 miliardi di franchi Cfa (oltre 910 milioni di euro). Ai residenti vengono ormai concessi solo spiragli di luce per non più di 6-12 ore al giorno. E il resto del Paese non se la passa meglio a causa della rete di distribuzione fatiscente o del tutto assente in alcune regioni e dei razionamenti dovuti alla produzione di elettricità sempre più limitata da parte di Edm.

A causa di questo incrocio di fattori negativi il Mali è al momento il quarto paese dell’Africa a registrare i prezzi dell’energia elettrica più alti come riportato in un recente report redatto dal sito specializzato Global Petrol Price che ha preso in riferimento la classifica stilata dalla piattaforma di comparazione dei prezzi Verivox. Per un kilowattora (kWh) di elettricità nel primo trimestre di quest’anno un maliano ha pagato in media 20,3 centesimi di euro. A sborsare di più nel continente sono stati solo gli abitanti di Capo Verde (28,71 centesimi di euro), Sierra Leone (23,34 centesimi) e Kenya (20,29 centesimi). Il governo di Bamako, retto da metà 2021 da una giunta militare guidata da Assimi Goïta, spera nell’aiuto della Banca Mondiale che lo scorso 22 aprile ha annunciato lo stanziamento di 60 milioni di dollari per far riemergere Edm dai debiti che la stanno soffocando e tornare così ad aumentare la produzione di energia elettrica.

La situazione nel resto del continente 

In altri paesi africani la situazione è meno catastrofica. In Etiopia, Libia e Sudan per 1 kWh di energia elettrica sono sufficienti tra 0,51 centesimi e 0,76 centesimi di euro. Con una capacità installata di 2.400 Megawatt (MW), l’Etiopia non solo è in grado di soddisfare il proprio fabbisogno interno ma di vendere anche energia elettrica al vicino Kenya. Per il Kenya si tratta di una situazione paradossale. Rispetto all’Etiopia il Paese vanta infatti un tasso di elettrificazione del 77% contro il 54% di Addis Abeba, secondo un rapporto della Banca Mondiale del 2023.

I prezzi per l’energia elettrica si mantengono bassi anche in Algeria (3,63 centesimi per 1 kWh), Tunisia (6,22 centesimi) e Camerun (7,63 centesimi). Tra gli altri principali Paesi che vendono energia elettrica nel continente oltre all’Etiopia ci sono anche il Marocco e la Costa d’Avorio, che attualmente piazzano 1 kWh rispettivamente a 10,76 centesimi di euro e 12,2 centesimi. Anche la Costa d’Avorio è però alle prese con un aumento della bolletta, lievitata del 10% negli ultimi mesi.

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Pace e Diritti Politica e Società Sao Tomè e Principe
Lo ha annunciato la ministra della cultura dello stato insulare, Isabel Abreu
São Tomé e Príncipe chiede al Portogallo riparazioni per il periodo coloniale
A Lisbona è d'attualità il dibattito sul tema. Contrasti fra il governo e il presidente de Sousa
03 Maggio 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 3 minuti
Il forte portoghese di São Sebastião a São Tomé. Foto dal profilo Flickr di David Stanley

Isabel Abreu, ministra dell’Istruzione e della Cultura di Sao Tomé e Principe, ha comunicato in settimana all’agenzia di stampa portoghese Lusa che il governo di cui fa parte elaborerà un piano per negoziare le riparazioni con il Portogallo relative agli anni del colonialismo. La faccenda sarà discussa in una riunione di gabinetto.

L’annuncio di Abreu giunge quando il tema delle riparazioni è al centro del dibattito politico portoghese. La questione, di cui si parla da anni, è tornata di attualità dopo che il presidente Marcelo Rebelo de Sousa è tornato di recente sulla questione ammettendo che Lisbona è responsabile dei crimini commessi durante la schiavitù transatlantica e l’era coloniale. Il capo dello stato ha suggerito che sia giusto considerare quindi di risarcire i paesi africani che sono stati sotto la dominazione coloniale portoghese. La linea di de Sousa non è condivisa dal nuovo governo che si è instaurato nel paese a inizio aprile.  L’esecutivo è di centro-destra – stesso orientamento politico del presidente –  ma ha fatto sapere che non ha intenzione di avviare alcun processo di riparazione economica nei confronti delle ex colonie. Il governo guidato dal primo ministro Luís Montenegro ha sostenuto invece che è necessario pensare a una riconciliazione.

La proposta partita da de Sousa è stata invece accolta positivamente dall’ambasciatore del Mozambico presso le Nazioni Unite Pedro Comissário Afonso. Secondo il diplomatico affrontare il passato è «già riparativo». Se si riuscisse ad «andare ancora oltre», ha affermato l’ambasciatore, «sarebbe ancora più importante». Il presidente di Capo Verde, Jose Maria Neves, dal canto suo, ha affermato che è necessario avviare un dialogo per «raggiungere un’intesa e un consenso su queste questioni». E il ministro brasiliano per l’uguaglianza razziale, Anielle Franco, ha detto che  il suo gabinetto è in contatto con il governo portoghese per discutere l’intera questione.

L’Onu è favorevole alle riparazioni 

Chi si oppone alle riparazioni sostiene, tra le altre cose, che gli stati e le istituzioni contemporanei non dovrebbero essere ritenuti responsabili della tratta degli schiavi. I sostenitori del risarcimento, al contrario, affermano che è necessario affrontare l’eredità della schiavitù, visto anche che gli stati contemporanei continuano a beneficiare della ricchezza generata da centinaia di anni di lavoro non retribuito e ottenuto tramite sfruttamento. L’idea di pagare dei risarcimenti o fare altre ammenda per la schiavitù transatlantica ha una lunga storia e rimane profondamente controversa, ma sta guadagnando slancio in tutto il mondo. Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha affermato che le riparazioni sono necessarie per andare oltre «generazioni di esclusione e sfruttamento». Questa esortazione è contenuta anche in un report pubblicato dall’Onu lo scorso settembre. Nel documento si afferma: «Secondo il diritto internazionale, il risarcimento di qualsiasi danno economicamente valutabile, come appropriato e proporzionale alla gravità della violazione e alle circostanze di ciascun caso, può anche costituire una forma di riparazione». 

Quando le autorità di Lisbona fanno riferimento alle responsabilità del paese nella tratta degli schiavi parlano di una fase storica durata quattro secoli e che ha colpito oltre sei milioni di persone, sequestrate o comprate in Africa e deportate nei territori oltre Oceano, soprattutto in Brasile, dove a oggi risiede la più numerosa popolazione di origine africana del mondo. Questo terribile commercio di esseri umani ha coinvolto un’areale geografico molto ampio, che comprende i territori degli odierni Angola, Mozambico, Capo Verde, Sao Tomé e Principe, Brasile, Timor Est e di alcuni altri territori dell’Asia soggetti al dominio lusitano.

 

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Lo ha spiccato la Corte penale speciale di base a Bangui che indaga sui crimini commessi nel paese dal 2003
Repubblica Centrafricana: mandato di arresto internazionale per Bozizè
Ma la Guinea-Bissau, che ospita l'ex presidente come rifugiato, dice no
02 Maggio 2024
Articolo di Redazione
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L'allora presidente Bozizè a Bruxelles. Foto dal profilo Flickr del CAR Development Partner Round Table 01

La Corte penale speciale (Cps), sostenuta dalle Nazioni Unite e di base a Bangui, ha emesso un mandato di arresto internazionale nei confronti dell’ex presidente della Repubblica Centrafricana François Bozizé per crimini contro l’umanità commessi dalle forze armate nazionali tra il 2009 e il 2013. I presunti crimini includono omicidio, sparizione forzata di persone, tortura, stupro e altri atti disumani.

Bozizé, 77 anni, aveva preso il potere in Africa centrale nel 2003 con un colpo di stato ed era stato rovesciato 10 anni dopo. Ora è alla testa dell’opposizione e vive in esilio in Guinea-Bissau dal marzo 2023. Il mandato internazionale è stato emesso il 27 febbraio ma annunciato solo due giorni or sono, secondo la dichiarazione del Cps, istituito nel 2015 con il patrocinio dell’Onu.

Questo tribunale chiede la collaborazione della Guinea-Bissau per “l’arresto” e “la consegna del sospettato”. La corte è incaricata di indagare sui crimini di guerra commessi dal 2003 nel paese, che ha sopportato guerre civili e regimi autoritari dall’indipendenza dalla Francia nel 1960. I magistrati della corte stanno indagando su possibili “crimini contro l’umanità” commessi dalla guardia presidenziale di Bozizé tra febbraio 2009 e marzo 2013 in una prigione civile e in una struttura di addestramento militare nella città centrale di Bossembélé. I giudici hanno concluso che esistevano «prove serie e coerenti contro Bozizé, tali da confermare la sua responsabilità penale, in quanto responsabile politico e capo militare».

Un no secco da Bissau 

Amnesty International, per bocca di Samira Daoud, direttrice regionale per l’Africa centrale e occidentale, ha comunicato che il mandato «costituisce un passo incoraggiante nella ricerca di giustizia per le vittime di numerosi crimini commessi nella Repubblica Centrafricana». E ha sollecitato la Guinea-Bissau a consegnare Bozizé «senza indugio» alle autorità centrafricane. Per adesso però, le notizie che giungono da Bissau vanno in tutt’altra direzione. Il presidente guineano Umaro Sissoco Embaló ha affermato che l’ordinamento del suo paese «non prevede l’estradizione». Il capo dello stato ha aggiunto, sempre in riferimento a Bozizè: «Quello che sappiamo è che da quando è arrivato in Guinea-Bissau non ha creato alcun problema. È qui in esilio, come anche noi, durante la nostra lotta per l’indipendenza, abbiamo avuto esuli in altri paesi». L’ex presidente centrafricano è stato accolto dal paese guidato da Embalò come rifugiato nel marzo 2023 e nell’ambito di un accordo che ha visto il coinvolgimento anche del Ciad – precedente paese di residenza di Bozizè  – e dell’Angola, oltre che la mediazione di organismi regionali. Embalò ha reso nota l’intenzione di chiarire la faccenda con l’omologo centrafricano Faustin-Archange Touadéra. 

La guerra civile 

La cosiddetta seconda guerra civile centrafricana scoppiò fra la fine del 2012 e i primi mesi del 2013,  quando una coalizione armata a maggioranza musulmana, Seleka, ha spodestato Bozizé. L’ex presidente era stato accusato di non riuscire a far rispettare quanto stabilito negli accordi di pace che si erano resi necessari dopo un’altra fase di conflitto civile scoppiata nel 2004.  Bozizé rispose agli insorti formando una milizia composta per lo più da persone cristiane e animiste, nota come anti-Balaka, per riconquistare il potere. Migliaia di civili sono stati uccisi nei combattimenti, ed entrambe le parti sono state accusate di crimini di guerra e crimini contro l’umanità dalle Nazioni Unite.

Il conflitto  ha perso di intensità dopo il 2018. Nel dicembre 2020 però, Bozizè ha formato una nuova alleanza di gruppi ribelli chiamata Coalizione dei Patrioti per il Cambiamento (CPC),  costituita nel tentativo di rovesciare il suo successore, Faustin-Archange Touadéra. Come noto, Touadéra ha chiamato in soccorso mercenari di Wagner e altri agenti russi per combattere i ribelli. Bozizé era già stato condannato in contumacia lo scorso settembre ai lavori forzati a vita per cospirazione, ribellione e omicidio.

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Algeria Pace e Diritti Politica e Società
Nigrizia ha intervistato il cronista Mustapha Bendjama, liberato dopo 15 mesi di carcere
Algeria: «Stampa attaccata e in carcere, ma da chi resiste tanta speranza»
Il giornalista era stato arrestato con varie accuse. Fra queste, «ricezione di finanziamenti esteri»
02 Maggio 2024
Articolo di Nadia Addezio
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Una foto di Mustapha Bendjama pubblicata dall'emittente algerina Radio M

Il 18 aprile, il giornalista algerino Mustapha Bendjama ha lasciato il carcere di Boussouf, nella città di Costantina, dopo aver trascorso in detenzione 15 mesi. Nigrizia ha seguito fin dal principio il caso del già caporedattore del quotidiano Le Provincial, analogo a quello di giornalisti, attiviste e attivisti, accusati di minacciare la sicurezza dello Stato per aver svolto il loro lavoro e/o espresso il loro dissenso. A tal proposito, durante il mese di Ramadan – conclusosi il 9 aprile – è stata lanciata una campagna di informazione per rendere manifesta a livello nazionale e internazionale la loro detenzione arbitraria. In occasione del ritorno alla libertà, abbiamo intervistato Bendjama per conoscere la sua versione dei fatti.

A febbraio 2023, lei è stato incarcerato con le accuse di ricezione di finanziamenti esteri, diffusione di informazioni segrete e d’essere implicato nell’affaire Amira Bouraoui. Ci racconti com’è andata…

L’8 febbraio 2023 sono stato arrestato nel mio ufficio, presso la redazione di Le Provincial, dalla Brigade de recherche et d’intervention della Gendarmerie per indagare sulla fuga di Amira Bouraoui. Non ero coinvolto nella vicenda, non sapevo che lei stesse per lasciare il territorio nazionale in modo legale o illegale, non avevo sue notizie dal momento che non la sentivo da un mese. Le cose sono peggiorate quando la Brigade è entrata in possesso del mio telefono e ha trovato i contatti di giornalisti stranieri. A quel punto, sono stato presentato prima davanti al pubblico ministero e poi al gip. Sono stati aperti, così, due fascicoli: un fascicolo speciale per il caso Amira Bouraoui, per il quale anche se fossi stato colpevole delle accuse a mio carico, non correvo il rischio di passare del tempo in prigione; un secondo, dove mi hanno accusato di ricevere fondi dall’estero e di aver fatto trapelare documenti segreti sui social network, al fine di danneggiare degli enti pubblici. Mi hanno accusato di affiliazione a gruppi terroristici, di spionaggio per conto di potenze straniere. Tutto questo sulla base di messaggi scambiati tra me e giornalisti o leader di ong. Sebbene per la legge algerina non vi sia nulla di illegale in attività di questo tipo, secondo la loro visione tutto questo è da considerarsi “spionaggio”.

Può darci qualche dettaglio in più?

In particolare, cos’è accaduto: hanno usato la piattaforma di traduzione di Google per tradurre 54 articoli che ho scritto per Global Integrity, un’organizzazione statunitense che collabora con ricercatori e giornalisti locali per tracciare le tendenze in materia di governance e corruzione in tutto il mondo. Hanno interpretato la parola “indicatori”, in arabo “mouasher”, utilizzata come “strumenti di valutazione” di democrazia, come “informatore” – “indicateur” nel linguaggio colloquiale della polizia e dell’intelligence è usato per intendere chi fornisce informazioni ai servizi segreti – e “spia”. Di conseguenza, erano convinti che avessi 117 spie sotto la mia supervisione per danneggiare l’Algeria. Hanno messo in piedi un intero dossier sulla base di ciò. Mi sono ritrovato, così, a essere una vittima collaterale non dell’affare Amira Bouraoui, ma della traduzione di Google.

Come ha vissuto i quasi 15 mesi di reclusione?

È stato un po’ duro specialmente all’inizio, perché temevo che mi avrebbero dato un minimo di 12 o 20 anni di prigione. Dopodiché, è stato soprattutto noioso. Data la condizione dei giornalisti, sapevo benissimo che un giorno o l’altro sarei finito in prigione. L’ho evitato per diversi casi. Tuttavia, hanno trovato l’occasione per rinchiudermi, e ovviamente si è trattato di un pretesto. Penso che il mio lavoro – che, evidentemente, svolgo bene – dia fastidio.

 Mi ha detto di essere attualmente disoccupato. Perché non lavora più con Le Provincial?

Perché tecnicamente e legalmente hanno il diritto di licenziarmi dal momento che sono stato assente senza giustificazione per 15 mesi. Se fossi stato rilasciato, avrei potuto giustificare la mia assenza con il fatto di essere stato in prigione, ma agli occhi della legge ero colpevole.

Come cambierà la sua professione dopo questa esperienza?

Non so nemmeno quando potrò tornare a fare il giornalista dato che in questi mesi è stata messa tutta la stampa nazionale sotto i riflettori, è stata preclusa una certa indipendenza a quei media che rifiutavano di stare al gioco del sistema. Per tornare a fare il giornalista, dovrei trovare un altro media che voglia assumermi, e penso che sia impossibile perché nessuno vuole avere problemi con il potere algerino. Poi, c’è un’ulteriore questione: il finanziamento della stampa algerina avviene sulla base della pubblicità che è gestita dall’Agenzia nazionale dell’editoria e della pubblicità (Anep), la quale distribuisce gli introiti derivanti dalla pubblicità ai giornali cartacei e online, decidendo chi può ottenerla e chi no. Si tratta del miglior mezzo di pressione. Quando sono stato arrestato, Le Provincial è stato pesantemente sanzionato, venendo privato di pubblicità per diversi mesi. Ciò li ha spinti a “prendere un po’ le distanze” dal mio caso per salvare il giornale, anche se mi hanno dimostrato piena solidarietà.

Ha delle riflessioni da condividere?

Prima di essere imprigionato, avevo cominciato ad appassionarmi meno al mio lavoro, dal momento che riscontravo tanti problemi nell’esercizio libero della professione. Stavo evitando argomenti spinosi e “di oltrepassare i limiti”. Poi sono stato condannato. In carcere ho avuto modo di ricordare il “perché” del mio impegno nel giornalismo: non possiamo sopportare o assistere all’ingiustizia, e restare in silenzio. Ne sono uscito, quindi, più impegnato che mai e, se avrò l’opportunità, ancora più determinato. Ho conosciuto persone magnifiche, avvocati, veri difensori dei diritti umani, giornaliste e giornalisti che non hanno avuto paura di prendere una posizione. Nonostante i rischi che loro stessi correvano, hanno fatto di tutto per difendere me e gli altri detenuti d’opinione. Non potrò mai dimenticare tutto questo ed è qualcosa che mi dà speranza nell’Algeria e nel popolo algerino.

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