Nigrizia

Alex Zanotelli Politica e Società Sudafrica
Fermoposta / Maggio 2024
L’Anc ha tradito il grande sogno sudafricano, ma c’è ancora speranza
Il partito che ha governato il paese per 30 anni, dalla fine dell’apartheid nel 1994, ha stinto la "nazione arcobaleno" nel grigiore di corruzione e disuguaglianze. Pretoria ha dimostrato coraggio nello sfidare le violenze israeliane a Gaza, speriamo sia il segno di un rinnovato coraggio e di un futuro cambiamento
13 Maggio 2024
Articolo di Alex Zanotelli
Tempo di lettura 4 minuti
L’arcivescovo cattolico di Durban, Denis Hurley, con un cartello contro il regime segregazionista bianco

Questo articolo è uscito nel numero di Nigrizia di maggio 2024

Caro Alex,
in questo mese il Sudafrica va al voto. Le elezioni si tengono a 30 anni esatti dalla fine del regime di apartheid. Non se ne parla molto qui in Italia, come dell’Africa in genere. Leggo che in Sudafrica esiste grande corruzione e che l’African National Congress pare avere il primato in questo, il partito rischia fortemente alle urne. Quale è la tua opinione riguardo all’evoluzione di questo paese dopo le grandi speranze del tempo di Mandela, e dopo il lungo impegno che anche Nigrizia aveva assunto nella lotta contro l’apartheid? (Giulio Pisani)


Caro Giulio,
hai ragione di porre una domanda sul Sudafrica, nel 30esimo anniversario dalla liberazione dal giogo dell’apartheid imposto dai bianchi nel paese. Sì, è stata una lotta che aveva coinvolto anche Nigrizia a fianco del movimento nonviolento del popolo nero, guidato da grandi personalità religiose, come Desmond Tutu, segretario generale del Consiglio ecumenico delle chiese sudafricane, dall’arcivescovo cattolico di Durban, Denis Hurley e dal pastore Beyers Naudé. Tutte figure che avevano maturato la profonda convinzione che l’apartheid era la negazione della dignità umana e quindi contraria al Vangelo.

Ma le loro Chiese, anglicana, cattolica, chiesa riformata olandese erano tutte schierate a fianco del governo bianco. Denis Hurley, per esempio, era solo all’interno della Conferenza episcopale, (quante volte l’ho visto piangere come un bambino!) Ecco perché è stato fondamentale l’appoggio esterno alla loro lotta. È quanto ha fatto Nigrizia in quel periodo, sostenendo la loro resistenza. Lo abbiamo fatto anche con le Arene di Pace, ospitando il teologo di una forza straordinaria come Beyers Naudé. Ma lo abbiamo fatto soprattutto denunciando il governo italiano che vendeva armi e aerei al governo dell’apartheid, in barba all’embargo Onu.

Questo fece infuriare il governo italiano che diede inizio a una vera e propria persecuzione nei confronti di Nigrizia. Come direttore della rivista, fui convocato in Questura a Verona e interrogato dalla Digos, in merito alla fonte delle mie dichiarazioni sul nostro giornale, ma mi sono sempre rifiutato di rivelare chi mi aveva informato della vendita di armi a questi paesi. Alla fine, ho pagato con il siluramento da direttore. Per me fu una stagione di grazia e di crescita umana. Nel 1990, venne liberato dopo 27 anni di galera Nelson Mandela, leader dell’Anc (African National Congress), eletto poi nel 1994 a presidente del Sudafrica.

Fu un momento straordinario per tutto il mondo, nasceva la “nazione arcobaleno”, la realizzazione del sogno: tutti gli esseri umani, dai bianchi ai neri, hanno pari dignità e pari diritti in una società dove i beni dovevano essere equamente divisi fra tutti. Di questo sogno, cosa rimane trent’anni dopo? Direi ben poco. Il Sudafrica ha il più alto indice di disuguaglianze sociali nel mondo: il 10% più ricco possiede l’86% della ricchezza.

Purtroppo, invece di impegnarsi per la “Rivoluzione Democratica nazionale”, i leader dell’ANC hanno usato i fondi pubblici per arricchirsi. Ne è un esempio il presidente della nazione, Cyril Ramaphosa, che, ora, è diventato un multimilionario. Purtroppo, la corruzione è dilagante. Si parla di 80 miliardi di dollari di fondi pubblici finiti in mani private. E purtroppo l’Anc sembra primeggiare in questo. Altro fenomeno preoccupante è la crescente xenofobia contro i circa 2,4 milioni di migranti africani in cerca di lavoro in Sudafrica.

Davanti a questo quadro, il partito maggioritario che ha governato in questi 30 anni il paese, rischia di perdere la maggioranza nelle prossime elezioni.

Anche se non possiamo dimenticare il grande coraggio manifestato dal governo sudafricano nel portare davanti al Tribunale internazionale dell’Aja, lo stato di Israele, per genocidio, E questo perché il Sudafrica non può accettare quell’orribile regime di apartheid venga imposto adesso ai palestinesi. C’è solo da sperare che questo guizzo geniale, porti ora l’ANC a spazzare via i tanti angoli di apartheid che ancora sussistono nel paese.

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Benin Economia Niger Politica e Società
Il Benin blocca l’esportazione di petrolio nigerino in reazione alla mancata riapertura della frontiera da parte del Niger
Benin e Niger in disputa su oleodotto e frontiera
13 Maggio 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 2 minuti

Sabato scorso, il primo ministro nigerino Ali Mahaman Lamine Zeine ha dichiarato che il Benin sta agendo in violazione di accordi commerciali presi con il Niger e con società cinesi. Zeine contesta la decisione beninese – annunciata la settimana passata – di impedire l’esportazione del petrolio nigerino tramite il blocco del carico delle navi petroliere in Benin.

I due paesi sono uniti commercialmente dall’oleodotto più grande dell’Africa continentale, lungo quasi 2mila chilometri. L’infrastruttura consente di far arrivare il petrolio dal Niger – che non ha uno sbocco sul mare – fino alla città portuale beninese di Sémè Kraké. L’acquirente finale è la compagnia cinese China National Petroleum Corp (CNPC). 

Le affermazioni di Zeine sono arrivate in risposta alle dichiarazioni rilasciate il giorno precedente da Patrice Talon, presidente del Benin. Quest’ultimo aveva confermato la decisione di sospendere le operazioni di carico delle navi petroliere cinesi fino all’avvenuta riapertura della frontiera da parte del Niger. Talon rimprovera a Niamey di continuare a tenere chiuso il passaggio doganale, mentre il Benin l’ha già riaperto a fine febbraio, a seguito della levata delle sanzioni imposte dalla Comunità economica degli stati occidentali (ECOWAS/CEDEAO) contro il Niger per il colpo di stato del luglio scorso.

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Chiesa e Missione Nigeria Politica e Società
Monsignor Henry Ndukuba avverte: “Il paese rischia di trasformarsi in uno stato fallito”
Nigeria: il primate della Chiesa anglicana bacchetta Tinubu
13 Maggio 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 2 minuti
Henry Ndukuba, arcivescovo e primate della Chiesa anglicana della Nigeria

Il presidente Bola Tinubu e il suo governo agiscano per evitare di rendere la Nigeria uno “stato fallito” simile alla Somalia e al Sud Sudan.

È l’appello lanciato la scorsa settimana da Henry Ndukuba, arcivescovo e primate della Chiesa anglicana della Nigeria, intervenuto al 12° Sinodo della diocesi di Abuja sul tema: Domani a quest’ora: rompere l’assedio alla nazione.

Le dichiarazioni dell’arcivescovo giungono in un contesto di crescente inquietudine per la dilagante insicurezza, le sfide economiche e le modalità di governance nel paese.

Esprimendo profonda preoccupazione per il peggioramento delle condizioni economiche della popolazione, il prelato ha lamentato gli alti livelli di debito, il ricorso a prestiti sconsiderati e le pressioni inflazionistiche come fattori che contribuiscono in modo significativo al processo di degrado.

Ha chiesto al governo misure concrete per affrontare queste sfide, inclusa l’istituzione di una forza di polizia statale o regionale per combattere efficacemente l’insicurezza e la piaga dei sequestri di persona.

Ha esortato inoltre i politici a intervenire tempestivamente per alleviare le sofferenze dei cittadini, in particolare affrontando le cause della scarsità di carburante, diminuendo i costi dell’elettricità e rivedendo al rialzo i salari dei lavoratori.

Mons. Ndukuba ha affermato tra l’altro: «L’insicurezza delle vite e delle proprietà in Nigeria è diventata un cancro che sta divorando profondamente il tessuto della nostra vita nazionale». Avvertendo che «la Nigeria rischia di fallire dato il moltiplicarsi di conflitti interni sia tra i diversi gruppi etnici che tra i leader politici».

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Conflitti e Terrorismo Mali Unione Europea
Si conclude il 18 maggio la missione EUTM, mentre nel nord i separatisti touareg si riorganizzano
L’Europa abbandona il Mali
L’UE non estenderà il mandato della missione EUTM. Il paese saheliano sempre più risucchiato nella sfera di influenza di Russia, Cina e Turchia. Mentre nell’Azawad nasce una nuova coalizione dei separatisti
13 Maggio 2024
Articolo di Rocco Bellantone
Tempo di lettura 5 minuti
(Credit: EUTM Mali pagina Facebook)

L’Unione Europea si tira ufficialmente fuori dal Mali. L’8 maggio i 27 paesi membri hanno deciso di non estendere il mandato di EUTM Mali (European Union Training Mission), la missione attraverso cui per undici anni l’UE ha addestrato le forze armate maliane e sostenuto la forza militare congiunta del G5 Sahel, arrivando nel suo picco a inviare nel paese fino a 700 soldati provenienti da 20 stati dell’Unione.

EUTM terminerà il 18 maggio. La decisione è maturata dopo che, nel febbraio scorso, la giunta militare guidata dal presidente ad interim Assimi Goïta ha rinviato le elezioni che aveva promesso di indire per garantire una transizione democratica del potere, in mano ai militari dal primo dei due golpe che ci sono stati nel paese tra il 2020 e il 2021.

“I canali per il dialogo politico e la cooperazione tecnica e di sicurezza rimangono aperti”, ha precisato in una nota Bruxelles. Ma la dismissione di EUTM certifica, di fatto, l’abbandono del paese da parte dell’Europa, con il Mali ormai sempre più risucchiato nelle sfere di influenza di Russia, Cina e Turchia.

Il nuovo cartello dei separatisti

Intanto nella regione dell’Azawad tiene banco il “rimpasto” nel fronte dei movimenti separatisti. Cadre stratégique permanent pour la défense du peuple de l’Azawad (CSP-DPA) è il primo risultato dell’operazione di rebranding attraverso cui i gruppi ribelli della regione provano a reagire alle pesanti sconfitte subite negli ultimi mesi nel nord del paese.

Nel novembre 2023 un’offensiva dell’esercito maliano ha estromesso i ribelli da diverse località di cui detenevano il controllo, compresa la roccaforte di Kidal. In risposta a questa debacle arriva adesso la decisione di rimescolare le carte all’interno della variegata piattaforma dei gruppi tuareg, dal 2012 in lotta con il governo centrale di Bamako per l’indipendenza dell’Azawad.

A fine aprile, al termine di una riunione tra i leader separatisti, è stato deciso di affidare il timone della nuova coalizione a Bilal Ag Acherif, figura storica della causa indipendentista dell’Azawad, capo del Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad (MNLA) e nel marzo scorso finito nel mirino del governo di Bamako che ha emesso nei suoi confronti una serie di sanzioni economiche.

Acherif prende il posto di Alghabass Ag Intalla, che presiedeva il soggetto ora sostituto dal CSP-DPA, ovvero il CSP-PSD (Cadre stratégique permanant pour la paix, la sécurité et le développement). La coalizione era stata creata nel 2021. Riuniva i firmatari dell’Accordo di Algeri per la pace e la riconciliazione del 2015, dunque il Coordinamento dei movimenti dell’Azawad (CMA), la Piattaforma dei movimenti del 14 giugno 2014 di Algeri (staccatasi nel 2023) e altri movimenti minori.

Il fallimento dei negoziati con il governo di transizione, certificato dalle offensive dell’esercito di fine 2023, ha di fatto decretato la fine dell’esperienza del CSP-PSD e, di conseguenza, lo scioglimento sia del CMA che di una corrente della Piattaforma di Algeri, il GATIA (Groupe autodéfense touareg Imghad et alliés) capeggiato da Fahad Ag Almahmoud.

La nuova coalizione CSP-DPA si pone ora l’obiettivo di voltare pagina rispetto agli ultimi deludenti tentativi di negoziazione con la giunta militare. E per farlo, spiega in una nota, punta alla “creazione di un un’unica entità politica che porti avanti le rivendicazioni del popolo dell’Azawad”, vale a dire il riconoscimento di “uno status politico e giuridico” per il suo territorio.

Difficile prevedere quando il CSP-DPA batterà il primo colpo. Ciò che appare evidente, al momento, è il suo cambio di strategia. Dopo anni di trattative infruttuose, condotte sul solco tracciato con l’Accordo di Algeri del 2015, i separatisti proveranno adesso ad alzare la posta in palio non limitandosi più a chiedere maggiori investimenti da parte del governo centrale per le regioni del nord del paese ma il riconoscimento dell’indipendenza dell’Azawad.

«Gli obiettivi cambiano a seconda del contesto del momento», ha spiegato in proposito il portavoce della coalizione Mohamed Elmaouloud Ramadane. «Con il CSP-DPA verranno prese altre decisioni importanti».

Le divisioni tra i ribelli

Non è chiaro se l’annunciato ritorno alla lotta per l’indipendenza si tradurrà da subito in azioni armate. Su questo e su altri aspetti all’interno della coalizione le posizioni sono diverse. Da un lato c’è un’ala più intransigente e ora maggioritaria rappresentata dal capo dell’MNLA Bilal Ag Achérif e dai sostenitori di Fahad Ag Almahmoud, formazioni che godono entrambe di appoggi e contatti in Mauritania.

Dall’altro c’è una frangia più disposta a non interrompere del tutto le trattative con Bamako, composta dall’Alto consiglio per l’unità dell’Azawad (HCUA) e dal Movimento arabo dell’Azawad (MAA), i cui leader sono spalleggiati dal governo algerino.

Qualcosa sul terreno militare si stava già muovendo settimane prima dell’annuncio della nascita della nuova coalizione. All’inizio di marzo Alghabass Ag Intalla, allora ancora a capo del CSP-PSD, ha nominato nuovi comandanti di alcuni dei gruppi armati attivi nelle regioni settentrionali del paese.

Il 6 aprile l’MLNA e gli uomini fedeli a Fahad Ag Almahmoud hanno tentato un’incursione verso Nara, nella regione di Koulikoro, venendo però respinti dai jihadisti del JNIM/GSIM (Jamaat nusrat al islam wa al muslimin/Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani). Negli scontri tra separatisti e jihadisti ci sarebbero stati una decina di morti da entrambe le parti.

La notizia non è stata commentata dalle forze armate maliane, impegnate in questa fase soprattutto a stanare cellule jihadiste attive nella regione di Liptako-Gourma, la “zona dei tre confini” tra Mali, Niger e Burkina Faso. Nel complicato cammino per l’indipendenza dell’Azawad i separatisti dovranno vedersela anche con loro.

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Eritrea Pace e Diritti Politica e Società
Lettera aperta al governo e al popolo italiano
Eritrea: “L’Italia non si renda complice del regime”
Una coalizione di 11 partiti, movimenti e organizzazioni della diaspora europea denuncia le violazioni dei diritti umani e delle libertà civili nel paese, chiedendo al governo italiano di non rendersene complice e sostenitore, firmando accordi di cooperazione con il regime di Afwerki
13 Maggio 2024
Articolo di Ufficio diplomatico europeo della Coalizione eritrea per il cambiamento democratico
Tempo di lettura 4 minuti

La Coalizione Eritrea per il Cambiamento Democratico (ECDC) è una coalizione di 11 partiti politici, movimenti e organizzazioni eritrei che aspirano a realizzare il cambiamento democratico in Eritrea.

Scriviamo questa lettera aperta al Governo e al popolo italiano con la grande preoccupazione per la recente decisione dell’Italia di firmare un accordo di cooperazione con il regime dittatoriale eritreo. Considerando i legami storici tra i due paesi e consapevoli delle realtà attuali in Eritrea, crediamo che l’Italia abbia la responsabilità morale di sostenere il popolo eritreo nella sua ricerca di libertà, pace e prosperità.

Non è un segreto che l’Eritrea abbia dovuto affrontare immense debacle politiche, economiche e sociali sin dai primi giorni dell’indipendenza. Sottolineiamo con forza che qualsiasi accordo di investimento economico con il regime dittatoriale lo incoraggerà a continuare l’abuso dei diritti umani nel paese e a incoraggiare un maggiore afflusso di rifugiati in Europa.

L’Eritrea non ha una Costituzione; non esistono quindi norme costituzionali a tutela della libertà individuale. Sin dalla sua indipendenza, l’Eritrea rimane uno stato monopartitico in cui non si sono mai svolte elezioni parlamentari nazionali democratiche. Nel 2001, il regime ha attaccato la libertà di parola bloccando la libera stampa emergente, arrestando e detenendo 16 giornalisti senza processo negli ultimi 20 anni.

Migliaia di dissidenti politici, inclusi funzionari riformisti di alto rango, altrimenti noti come G-15, sono incarcerati e tenuti in senza poter comunicare e senza processo. Inoltre è stata chiusa l’unica Università del paese fondata dalle suore Missionarie Comboniane. E purtroppo il regime ha emesso un ordine secondo cui nessun eritreo potrà prelevare più di 5000 nakfa (equivalenti a 250 dollari) dal proprio conto.

Il 5 luglio 2012, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha nominato un relatore speciale che ha indagato e denunciato gravi e sistematici abusi dei diritti umani esercitati dal regime. Inoltre, molte organizzazioni come l’UE, Human Rights Watch, Amnesty International, il Dipartimento di stato degli Stati Uniti, il ministero degli Esteri del Regno Unito e molte altre organizzazioni internazionali per i diritti umani hanno segnalato la persistenza di violazioni diffuse e sistematiche dei diritti umani commesse dalle autorità eritree. In quanto tale, l’Eritrea è definita da molti come la Corea del Nord dell’Africa.

L’Eritrea ha un servizio militare nazionale obbligatorio a tempo indeterminato che le organizzazioni per i diritti umani hanno definito schiavitù del tempo moderno. Molte giovani vite sono andate perse nelle guerre insensate che il regime ha combattuto con i paesi vicini. Molti altri sono morti attraversando il Sahara e il mar Mediterraneo. (Si può fare riferimento all’incidente di Lampedusa del 03/10/2013).

Questa politica illegale e abusiva del servizio nazionale obbligatorio a tempo indeterminato ha avuto un impatto immenso sui diritti economici, sociali e culturali dei giovani eritrei. Nonostante la condanna della comunità internazionale e le ripetute sanzioni, il regime continua impunemente a violare i diritti umani, ad arrestare arbitrariamente e a detenere senza garantire diritti.

Troviamo inaccettabile e preoccupante che un paese democratico come l’Italia, che ha un lungo legame storico con il popolo eritreo, trascuri la sofferenza in cui esso si trova e intrecci relazioni economiche con un regime ben noto per la sua illegalità e crudeltà contro il suo stesso popolo.

Chiediamo quindi gentilmente e giustamente al popolo e al Governo italiano di riconsiderare la decisione di avere qualsiasi rapporto con il regime eritreo fino a quando il diritto del popolo eritreo non sarà riconosciuto e rispettato. Con questo in mente, esortiamo il Governo italiano a:

  1. Sollevare apertamente questi problemi con le autorità eritree e discutere le modalità per risolverli e risolvere la paralisi politica, sociale ed economica del paese.
  2. Raggiungere e impegnarsi con i partiti politici, i movimenti e le organizzazioni della diaspora eritrea al fine di aiutarsi reciprocamente a risolvere i problemi in Eritrea.
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